Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.24206 del 08/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIOTTI Lucio – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27534-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. *****), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI DUE MACELLI 66, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DI DIO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 825/16/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del LAZIO, depositata il 19/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO DELLI PRISCOLI.

RILEVATO

che:

la Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso della parte contribuente avverso un avviso di accertamento per l’anno di imposta 2005 relativo ad IRPEF emesso il 27 gennaio dell’anno 2015 usufruendo del raddoppio dei termini ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, in quanto la parte contribuente era stata denunciata per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4,5,8 e 10;

la Commissione Tributaria Regionale del Lazio accoglieva l’appello della parte contribuente in quanto non è stata superata la soglia di punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 (dichiarazione infedele di Euro 68.347,00; soglia di rilevanza penale di Euro 103.291,38), per cui non ricorrono i presupposti per il raddoppio dei termini. Infatti, il dettato normativo vigente all’epoca dei fatti prevedeva una soglia di punibilità più alta rispetto alla versione attualmente vigente, conseguentemente non si configura per il 2005 tale reato. Aggiunge infine la Commissione Tributaria Regionale: “non possiamo esimerci dall’affermare che nel mentre all’Autorità finanziaria compete l’onere probatorio, al contribuente-ricorrente compete l’onere di difendersi, adducendo prove di egual valore, ma di segno opposto a quelle dell’Ufficio, sicché ne deriva, anche per questo motivo, l’illegittimità dell’accertamento”.

L’Agenzia delle entrate propone ricorso affidato a due motivi di impugnazione mentre la parte contribuente si costituisce con controricorso e in prossimità dell’udienza deposita memoria insistendo per il rigetto del ricorso.

Sulla proposta del relatore ai sensi del novellato art. 380-bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo d’impugnazione, dedotto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in quanto per il raddoppio dei termini è sufficiente l’astratta configurabilità di un reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, nei suoi contenuti essenziali.

Con il secondo motivo d’impugnazione, dedotto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’Agenzia delle entrate denuncia nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.c., comma 1, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, perché la sentenza, là dove afferma che “non possiamo esimerci dall’affermare che nel mentre all’Autorità finanziaria compete l’onere probatorio, al contribuente-ricorrente compete l’onere di difendersi, adducendo prove di egual valore, ma di segno opposto a quelle dell’Ufficio, sicché ne deriva, anche per questo motivo, l’illegittimità dell’accertamento”, porrebbe una frase di dubbia consistenza quale autonoma ratio decidendi e recante una motivazione apodittica.

Il primo motivo di impugnazione è fondato.

Secondo questa Corte in tema di accertamento tributario: – i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, conv., con modif., in L. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, già notificati, dimostrando un “favor” del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. (Cass. n. 4809 del 2021; Cass. n. 33793 del 2019);

– il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione impugnata che aveva ritenuto inoperante il raddoppio dei termini per mancata prova della comunicazione della “notitia criminis” entro il termine di decadenza ordinario: Cass. n. 7434 del 2021; Cass. n. 17586 del 2019);

– il raddoppio dei termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della stessa o dalla presentazione oltre i termini di decadenza, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. n. 6674 del 2021; Cass. n. 22337 del 2018; Cass. n. 26037 del 2016).

Pertanto, alla stregua dei citati principi giurisprudenziali, anche in ragione del “favor” del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quali il diritto di difesa (pericolo che non emerge dalla lettura della sentenza della Commissione Tributaria Regionale), per il raddoppio dei termini è sufficiente l’astratta configurabilità del reato al momento dei fatti, a prescindere da una indagine ex post da parte del giudice di merito circa l’effettiva sussistenza del reato.

La Commissione Tributaria Regionale non si è conformata ai predetti principi là dove non ha ritenuto configurabile neppure in astratto nessuno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 (oltre all’art. 4, cui fa riferimento il ricorrente nel primo motivo di impugnazione, anche gli artt. 5 e 8, ai quali fa riferimento il ricorrente nella parte in fatto del ricorso e lo stesso art. 8, nonché l’art. 10, ai quali fa riferimento la stessa sentenza impugnata), quando invece unico presupposto, necessario e sufficiente, per il raddoppio dei termini di decadenza è proprio l’astratta ipotizzabilità del fumus di un reato al momento dei fatti e non la sua effettiva sussistenza, non rivestendo rilevanza ai fini del raddoppio dei termini la circostanza, valutabile solo ex post, che il reato di cui al citato art. 4, probabilmente non è stato integrato perché non si è raggiunta la soglia minima di punibilità, non essendo necessario che il reato sia effettivamente configurabile come erroneamente opina la Commissione Tributaria Regionale, essendo invece che lo sia nella ragionevole prospettazione dell’Ufficio al momento dei fatti; deve poi considerarsi che per il citato art. 5, è prevista una soglia di punibilità nettamente inferiore rispetto all’art. 4, che sarebbe stata superata dalla fattispecie oggetto della presente lite, mentre gli artt. 8 e 10, neppure prevedono una soglia di punibilità.

Il secondo motivo di impugnazione è parimenti fondato.

Preliminarmente, dal momento che la Commissione Tributaria Regionale scrive “anche per questo motivo”, non può escludersi che tale argomentazione costituisca, nell’economia della motivazione della sentenza impugnata, una autonoma ratio decidendi.

Nel merito il motivo è fondato; infatti, secondo questa Corte:

il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. n. 27899 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017; Cass. SU n. 8053 del 2014);

in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 27899 del 2020; Cass. n. 22598 del 2018).

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale affermando che “non possiamo esimerci dall’affermare che nel mentre all’Autorità finanziaria compete l’onere probatorio, al contribuente-ricorrente compete l’onere di difendersi, adducendo prove di egual valore, ma di segno opposto a quelle dell’Ufficio, sicché ne deriva, anche per questo motivo, l’illegittimità dell’accertamento” – ha infatti fornito una motivazione estremamente generica, non intelligibile e apodittica, indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass. n. 27899 del 2020; Cass. n. 22272 del 2018), mediante una affermazione che, non essendo riferita a nessuna circostanza in particolare, rimane vuota e incomprensibile.

Ritenuto dunque che entrambi i motivi di impugnazione sono fondati, il ricorso dell’Agenzia delle entrate va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2021

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