LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9413-2020 proposto da:
Z.I., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE PIZZI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
contro
COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE di *****;
– intimata –
avverso la sentenza n. 3594/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/08/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 3594/2019, depositata in data 28/8/2019, ha respinto il gravame di Z.I., cittadino del *****, avverso la decisione di primo grado che ha respinto la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione umanitaria e sussidiaria.
In particolare, i giudici d’appello, in ordine ai motivi di gravame incentrati sul mancato accoglimento neppure della richiesta di protezione umanitaria, hanno sostenuto che il richiedente (il quale aveva dedotto di avere lasciato il Paese d’origine per il timore di essere ucciso come il padre, duranti gli scontri avvenuti nel suo villaggio, durante l’elezione del capo villaggio, fatto questo alquanto risalente nel tempo, all’anno 2011) non aveva fornito alcuna prova di un processo di radicamento/integrazione nel nostro paese (l’appellante, nonostante la datata presenza in Italia non parlava neppure la lingua italiana ed era senza lavoro) né fornito elementi in ordine ad una particolare e personale vulnerabilità, che non si poteva dedurre dalla situazione generale del Burkina Faso e della regione centrale di provenienza, come già rilevato in primo grado, “attualmente in via di normalizzazione”; peraltro, nel Paese d’origine il richiedente aveva legami parentali.
Avverso la suddetta pronuncia, Z.I. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, nonché la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 35-bis, non avendo la Corte d’appello compiuto un esame accurato della situazione del Paese d’origine, in violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, stante la mancata indicazione delle fonti informative precise ed aggiornate consultate; b) con il secondo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, in combinato disposto con il D.Lgs. n. 257 del 2008, art. 8, non avendo la Corte d’appello esaminato, se non superficialmente, l’attuale situazione del *****, che risulta drammatica, come emerge dal sito del Ministero degli Esteri, “Viaggiare sicuri” e dai report dell’UNHCR 2019-2020, con conseguente ricorrenza del presupposto dell’oggettiva vulnerabilità, cui si aggiunge la vulnerabilità personale che subirebbe il richiedente in caso di rientro forzoso in detto Paese, avendo egli, analfabeta, frequentato un corso di italiano nell’anno scolastico 2018/2019.
2. Le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono infondate. In tema di obbligo del giudice di cooperazione istruttoria nella materia della protezione internazionale (Cass. n. 29358 del 2018), si è affermato che, una volta assolto l’onere di allegazione da parte del richiedente, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.
La giurisprudenza di questa Corte ha poi affermato che “il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale” (Cass. ord. n. 30105 del 2018).
Tuttavia, con specifico riguardo al giudizio di appello, sia pure relativamente alla protezione sussidiaria, questa Corte (Cass. n. 13403 del 2019) ha chiarito che “in tema di protezione internazionale sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ove il richiedente invochi l’esistenza di uno stato di diffusa e indiscriminata violenza nel Paese d’origine tale da attingerlo qualora debba farvi rientro, e quindi senza necessità di deduzione di un rischio individualizzato, l’attenuazione del principio dispositivo, cui si correla l’attivazione dei poteri officiosi integrativi del giudice del merito, opera esclusivamente sul versante della prova, non su quello dell’allegazione; ne consegue che il ricorso per cassazione deve allegare il motivo che, coltivato in appello secondo il canone della specificità della critica difensiva ex art. 342 c.p.c., sia stato in tesi erroneamente disatteso, restando altrimenti precluso l’esercizio del controllo demandato alla S.C. anche in ordine alla mancata attivazione dei detti poteri istruttori officiosi” (nella specie, il ricorrente si era limitato, per sostenere l’esistenza nell’intero Paese d’origine di una situazione di violenza generalizzata, a richiamare le norme nazionali e convenzionali, i principi affermati nella materia dalla S.C. ed una pluralità di fonti informative, senza specificare la zona di provenienza né segnalare i contenuti delle allegazioni svolte in primo grado).
Ora, il ricorrente, nel ricorso, deduce solo di avere allegato, già in primo grado ed in appello (ma viene, al riguardo, riportato uno stralcio del 2020, successivo alla sentenza impugnata), estratti dal sito “Viaggiare Sicuri” sulla situazione generale del Paese di provenienza, dai quali emergerebbe che sono sconsigliati i viaggi ed il transito nel suddetto Stato, e di cui la sentenza non fa cenno.
La Corte di merito ha, invece, espressamente rilevato che, in appello, l’appellante aveva offerto in comunicazione, un’ordinanza di altro ufficio giudiziario (in relazione a richiesta presentata da altro soggetto proveniente dal *****) e non aveva “allegato alcun specifico motivo di gravame”, a fronte dell’accertamento, esattamente rilevato in primo grado, circa la sussistenza di condizioni di insicurezza per possibili attacchi terroristici, per le quali il ***** era stato decretato lo Stato di emergenza, ma limitatamente ad alcune Regioni del Paese, diverse dall’area, centrale, di provenienza del medesimo.
Se è vero che, anche ai fini della chiesta protezione umanitaria, la verifica della situazione del Paese d’origine del richiedente (il riferimento al Paese di transito, la Libia, ove lo stesso avrebbe vissuto tre anni risulta, invece, del tutto generico e non autosufficiente) può assumere rilievo nel giudizio di vulnerabilità che costituisce un presupposto della tutela, nella specie, un accertamento ed una verifica officiosa sono state compiute e la Corte di merito ha rilevato che non risultavano neppure allegate doglianze specifiche idonee confutare quanto affermato dal giudice di primo grado.
3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021