Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.24289 del 09/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9648-2020 proposto da:

N.J., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA LONOCE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto n. cronol. 471/20 del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 07/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Lecce, con decreto n. cronol. 471/2020 del Tribunale di Lecce, depositato il 7/2/2020, ha respinto la richiesta di N.J., cittadino del Camerun, a seguito di diniego da parte della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato, nonché della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.

In particolare, i giudici del Tribunale, all’esito di udienza di comparizione delle parti, non ravvisando la necessità di nuova audizione del richiedente, in difetto di nuove allegazioni, hanno rilevato che: la vicenda personale narrata dal medesimo (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine, perché temeva di essere ucciso dai famigliari di una ragazza, appartenente ad una famiglia di Testimoni di Geova, che egli aveva conosciuto dopo essersi convertito alla fede mussulmana, alla morte del padre, che adorava gli idoli, ragazza che era sparita) non era credibile, per genericità e contraddittorietà del racconto, poco circostanziato, e quindi non integrava i presupposti richiesti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14 lett. a) e b) con riguardo a rischi di persecuzione o di danno grave in caso di rientro nel Paese d’origine, e comunque, provenendo da organo non statuale, per mancata allegazione di qualche elemento in ordine all’incapacità delle Autorità locali di offrire protezione; quanto alla richiesta di protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), il Paese d’origine non era interessato da situazione di violenza indiscriminata o generalizzata (come risultava dai Report del Human Rights Watch 2019 e di altri organismi internazionali, quali Amnesty International 2018); non ricorrevano le condizioni per la concessione del permesso per ragioni umanitarie, non emergendo ragioni di particolare vulnerabilità dello straniero o situazioni di significativo inserimento nel territorio italiano (essendo la documentazione sull’attività lavorativa svolta insufficiente).

Avverso la suddetta pronuncia, N.J. propone ricorso per cassazione, notificato il 6/3/2020, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al fine di partecipare alla pubblica udienza di discussione).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la erronea o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8, per non avere il Tribunale ritenuto doveroso ordinare l’esibizione integrale della procedura amministrativa, non avendo la Commissione territoriale reso disponibili alcuno dei documenti acquisiti nel corso del procedimento amministrativo, essendo il Ministero rimasto contumace; b) con il secondo motivo, l’erronea o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, avendo il Tribunale posto a base della decisione generiche informazioni sulla situazione generale del Camerun e mere presunzioni, senza esercitare i richiesti poteri officiosi, non avendo riportato il testo integrale de Rapporto di Amnesty International 2018 ed avendo riportato solo alcuni stralci del Report di Human Rights Watch 2019; c) con il terzo motivo, l’erronea o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, in ordine alla ritenuta non credibilità del richiedente; d) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in ordine al diniego della protezione umanitaria, malgrado la grave situazione di instabilità politica del Paese d’origine e l’attività lavorativa intrapresa dal richiedente.

2. La prima censura è inammissibile.

Il ricorrente si limita, genericamente, a contestare la mancata acquisizione della documentazione relativa alla fase amministrativa.

Ora, questa Corte ha di recente chiarito (Cass. n. 32250 del 2019) che “in tema di protezione internazionale, affinché la mancata acquisizione del fascicolo amministrativo formato dalla commissione territoriale assuma rilievo ai fini della decisione, occorre che sia specificato il contenuto dei documenti non consultati, a causa del mancato assolvimento dell’obbligo previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8, nonché la loro decisività ai fini della valutazione della domanda di protezione”.

4. Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili.

Il Tribunale ha esaminato puntualmente sia le dichiarazioni rese dal richiedente, sia la situazione del Paese d’origine.

Quanto alla lamentata violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), (esame su base individuale della dichiarazione e della documentazione presentate dal richiedente) non può essere inteso nel senso di imporre l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto al giudicante, il quale, al contrario, è tenuto a enunciare le ragioni del proprio convincimento senza tuttavia dover passare in rassegna ciascuna delle prove offerte dal richiedente asilo ed effettuare una precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio; la stessa norma, al comma 5, detta i criteri della decisione in merito alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ma non prescrive una valutazione, separata e prioritaria, dei documenti prodotti dal migrante; al contrario, il giudicante è tenuto a un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, cosicché anche in questa materia la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie ma deve soltanto fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti; nel caso di specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati, ha ritenuto che i molteplici aspetti di genericità delle dichiarazioni del migrante pregiudicassero l’accoglimento della domanda di protezione internazionale presentata e, in questo modo, ha attribuito alla inverosimiglianza del racconto carattere determinante.

L’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene quindi al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 28862 del 2018; Cass. n. 33858 del 2019).

Quanto alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534); ma il Tribunale ha attivato il potere di indagine nel senso indicato.

Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Cass. 27593/2018) che “in tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicché “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (cfr. anche Cass. n. 27503 del 2018 e Cass. n. 29358 del 2018).

In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la cooperazione istruttoria consiste si colloca non sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata, cosicché solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. n. 17069 del 2018).

Sempre in tema (Cass. 29358/2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.

Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati e si è proceduto quindi ad un approfondimento istruttorio, confermandosi, con ampia motivazione, il giudizio di inattendibilità (a fronte di un racconto generico e stereotipato) già espresso in primo grado. La doglianza è altresì inammissibile perché, con riguardo alla situazione generale del Paese d’origine, mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

5. Il quarto motivo è inammissibile.

Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al citato D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sé alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.

Ora, nel ricorso, si deduce, genericamente, che la situazione del Paese d’origine è idonea a determinare la privazione dei diritti fondamentali.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.

Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021

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