LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14674-2020 proposto da:
D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FERNANDO CARACUTA;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
avverso il decreto n. 1593/2020 del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 24/03/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Lecce, con decreto n. cronol. 1593/2020, depositato il 24/3/2020, ha respinto la richiesta di D.M., cittadino della Guinea, a seguito di diniego da parte della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato, nonché della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.
In particolare, i giudici del Tribunale, all’esito di udienza di comparizione delle parti, hanno rilevato che: la vicenda personale narrata dal medesimo (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine, dopo l’avvertimento, da parte del fratello, alla morte del padre, dell’intenzione degli zii di ucciderlo, essendo egli affetto da una disfunzione erettile, che nella cultura islamica e ***** di appartenenza, è considerata causata da spiriti maligni e, come tale, rimediabile solo con l’eliminazione fisica del soggetto malato), pur astrattamente integrando i presupposti richiesti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), con riguardo a rischi di persecuzione o di danno grave in caso di rientro nel Paese d’origine, non era credibile, per genericità del racconto, poco circostanziato, essendo stata, alla fine, la minaccia da parte degli zii non diretta ma a lui comunicata dal fratello, e comunque, provenendo da organo non statuale, con mancata allegazione di qualche elemento in ordine all’incapacità delle Autorità locali di offrire protezione; quanto alla richiesta di protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), il Paese d’origine non era interessato da situazione di violenza indiscriminata o generalizzata (come risultava dai Report del Human Rights Watch 2017 e di altri organismi internazionali, quali Amnesty International 2017 ed EASO); non ricorrevano le condizioni per la concessione del permesso per ragioni umanitarie, non emergendo ragioni di particolare vulnerabilità dello straniero o situazioni di significativo inserimento nel territorio italiano.
Avverso la suddetta pronuncia, D.M. propone ricorso per cassazione, notificato il 25/5/2020, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti. Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, difatto decisivo, in relazione al mancato riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), (non essendo in contestazione il diniego di protezione della stessa normativa, ex art. 14, lett. c)), per avere il Tribunale omesso di rilevare che la domanda di protezione era stata correlata anche al rischio di subire l’uccisione da parte dei parenti, in quanto, essendo egli affetto, dalla nascita, da disfunzione erettile, tale patologia era ritenuta dalla cultura ***** e dalla fede islamica, di appartenenza del richiedente, un grave disonore per la famiglia e causata da spiriti maligni, cosicché non si trattava di mera questione personale e privata ma riguardante la comunità ed il contesto socio-culturale, e comunque la cultura ***** vieta di presentare denunce contro i famigliari; 2) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in punto di valutazione di non credibilità del richiedente, al di fuori dei parametri legali di legge; 3) con il terzo motivo, la nullità della decisione per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per motivazione apparente in ordine al diniego di protezione umanitaria; 4) con il quarto motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.
2. La prima censura è inammissibile.
Invero, i fatti allegati come omessi sono stati esaminati dal Tribunale, che ha ritenuto la narrazione non credibile, sia in punto di minaccia da parte dei parenti sia in punto di mancata allegazione sulla incapacità o non volontà delle Autorità statuali di fornire protezione. La censura si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012 (v. Cass., sez. un., n. 8053 del 2014).
3. La seconda censura è inammissibile.
Il Tribunale ha esaminato puntualmente sia le dichiarazioni rese dal richiedente, sia la situazione del Paese d’origine.
Quanto alla lamentata violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), (esame su base individuale della dichiarazione e della documentazione presentate dal richiedente) non può essere inteso nel senso di imporre l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto al giudicante, il quale, al contrario, è tenuto a enunciare le ragioni del proprio convincimento senza tuttavia dover passare in rassegna ciascuna delle prove offerte dal richiedente asilo ed effettuare una precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio; la stessa norma, al comma 5, detta i criteri della decisione in merito alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ma non prescrive una valutazione, separata e prioritaria, dei documenti prodotti dal migrante; al contrario, il giudicante è tenuto a un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, cosicché anche in questa materia la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie ma deve soltanto fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti; nel caso di specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati, ha ritenuto che i molteplici aspetti di genericità delle dichiarazioni del migrante pregiudicassero l’accoglimento della domanda di protezione internazionale presentata e, in questo modo, ha attribuito alla inverosimiglianza del racconto carattere determinante.
Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Cass. n. 27593 del 2018) che “in tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicché “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (cfr. anche (Cass. n. 27503 del 2018 e Cass. n. 29358 del 2018).
In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la cooperazione istruttoria consiste si colloca non sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata, cosicché solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. n. 17069 del 2018).
Sempre in tema (Cass. n. 29358 del 2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.
Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati e si è proceduto quindi ad un approfondimento istruttorio, confermandosi, con ampia motivazione, il giudizio di inattendibilità (a fronte di un racconto generico e stereotipato) già espresso in primo grado.
4. Il terzo motivo è infondato.
Il decreto non risulta infatti affetto da un vizio di radicale carenza di motivazione o motivazione apparente. Invero, il Tribunale, con riguardo alla protezione umanitaria, ha ritenuto che, stante la non credibilità ritenuta, “la storia personale” dello straniero non evidenziava un quadro di grave vulnerabilità personale, né emergeva una vulnerabilità oggettiva, in rapporto alla situazione generale del Paese d’origine, sulla base delle fonti consultate.
Come osservato dalle S.U. di questa Corte (Cass. S.U. n. 22232 del 2016) “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”.
In realtà, i motivi sottendono una censura di insufficienza motivazionale che non può essere più avanzata, in sede di legittimità, attesa la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
5. Il quarto motivo è inammissibile.
Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al citato D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).
In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sé alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.
Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “. In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.
Ora, nel ricorso, si deduce, genericamente, che la situazione del Paese d’origine è idonea a determinare la privazione dei diritti fondamentali in relazione anche alla patologia di cui è affetto il richiedente.
6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021