LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21237-2015 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA, 2, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO AMODIO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 276/2015 della COMM. TRIB. REG. PUGLIA, depositata il 10/02/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.
PREMESSO che:
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 276/01/2015, depositata il 1.02.2015 dalla Commissione tributaria regionale della Puglia.
Ha riferito che a seguito di verifica ed acquisizione di documentazione relativa agli anni d’imposta 2007 e 2008 erano stati notificati a C.P. due avvisi di accertamento, con i quali venivano rettificati gli imponibili del contribuente, esercente attività d’impresa nel settore della realizzazione di impianti elettrici. La maggiore pretesa fiscale trovava causa nel disconoscimento di spese contabilizzate a titolo di sponsorizzazione, rispettivamente dell’importo di Euro 90.000,00 nel 2007 e di Euro 55.000,00 nel 2008, corrisposte alla Associazione Sportiva Dilettantistica (ASD) Pallacanestro Fiore di Puglia, militante in serie B. L’Agenzia, contestando la genericità della descrizione dell’oggetto della prestazione riportata nelle fatture e la genericità del contenuto dei contratti, ed evidenziando la sproporzione tra i costi di pubblicità e gli utili derivati, aveva tratto il convincimento della antieconomicità dell’operazione e dell’assenza di inerenza. Aveva pertanto recuperato ad imponibile l’80% delle spese, riqualificandole come spese di rappresentanza e dunque nei limiti della deducibilità di queste ultime.
I due atti impositivi, contestati dal C., furono impugnati dinanzi alla Commissione tributaria regionale di Bari, che, riuniti i ricorsi, con sentenza n. 27/08/2014 ne accolse le ragioni. La pronuncia fu appellata dall’Ufficio dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia, che con la decisione ora al vaglio della Corte rigettò l’appello.
L’Agenzia delle entrate ha censurato la sentenza affidandosi a due motivi, cui ha resistito con controricorso il contribuente. Nell’adunanza camerale del 27 maggio 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti difensivi depositati.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo parte ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, commi 1 e 5, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 90, nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erroneo riconoscimento della deducibilità delle spese di sponsorizzazione;
con il secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver apprezzato i fatti dedotti dall’Ufficio.
Esaminando il primo motivo, con esso l’Amministrazione finanziaria ha sostenuto che le spese per i contratti di sponsorizzazione stipulati tra il C. e l’ASD Fiore di Puglia mancavano di effettività e di inerenza. In particolare ha affermato che il costo contabilizzato afferiva ad un contratto di sponsorizzazione dal contenuto estremamente generico, che non disciplinava le modalità di svolgimento della prestazione, così come altrettanto generica era la prestazione descritta in fattura. Inoltre, in rapporto ai ricavi, il costo appariva palesemente antieconomico, dovendosi reputare irrilevante l’incremento del volume d’affari conseguito dal contribuente negli anni relativi all’accertamento. Il giudice regionale dunque aveva errato nel non apprezzare l’incongruità del costo di sponsorizzazione rispetto al reddito d’impresa. Ha inoltre insistito sull’assenza di inerenza, per la scarsa correlazione funzionale tra il costo sostenuto e l’idoneità della prestazione a produrre utili, comprovata dalla incongruenza tra spesa sopportata ed utili conseguiti. Ne’ il contribuente, a fronte delle carenze denunciate, aveva provato il concreto vantaggio conseguito.
La questione, di cui questo collegio deve occuparsi, è se i costi di sponsorizzazione di una squadra di basket militante nel campionato di serie B, sostenuti dal contribuente, imprenditore nell’impiantistica elettrica, possano trovare collocazione nel concetto di inerenza.
Deve intanto premettersi che tali costi sono stati contabilizzati dal C. ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 90, il cui comma 8, ratione temporis vigente, prevedeva che “Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 Euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi del testo unico delle imposte sui redditi, art. 74, comma 2, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917".
Ciò chiarito, in merito alla contestazione della effettività delle spese, la ricorrente innanzitutto denuncia l’insufficienza della documentazione allegata dal contribuente a suo supporto, in particolare manifesta perplessità sulla genericità delle regole del contratto di sponsorizzazione e sul contenuto descrittivo delle prestazioni, riportato nelle fatture.
La contestazione in realtà non coglie correttamente nel segno, perché la commissione regionale ha operato un accertamento in fatto, per contestare il quale la ricorrente avrebbe dovuto essere più specifica, anche ai fini del rispetto del principio di autosufficienza.
In ogni caso, anche sotto il profilo della formale censura dell’errore di diritto indirizzata alla decisione impugnata, essa appare incomprensibile poiché l’Amministrazione finanziaria non ha denunciato la materiale inesistenza delle operazioni e dei costi, limitandosi invece a riqualificarne la natura tra le spese di rappresentanza, deducibili come tali solo in parte (20%).
Se poi con l'”assenza di effettività” si è inteso denunciare non già la materiale inesistenza, ma la carenza dei requisiti giuridici necessari all’inquadramento delle spese dedotte tra i costi di pubblicità, la questione va ricondotta esclusivamente nell’alveo della contestazione della loro inerenza, cui pertanto occorre rivolgere l’attenzione.
Gli approdi interpretativi sul concetto di inerenza hanno avvertito l’assenza di una nozione giuridica. Come evidenziato in dottrina, si tratta piuttosto di un principio per taluni aspetti immanente nella Costituzione, un “corollario” del concetto di reddito, ma tuttavia oggetto di dibattito ancora aperto, per il quale il richiamo all’art. 109 TUIR, comma 5, rappresenta un mero “contenitore”, in cui è semplicemente prevista l’indeducibilità dei costi che dovessero risultare estranei all’attività svolta.
Nella giurisprudenza, secondo l’interpretazione tradizionale, esso trova allocazione nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo ed impresa. E’ stato in particolare affermato che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109 (già art. 75) va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass., 11/08/2017, n. 20049; Cass. 9/05/2017, n. 11241; Cass. 27/02/2015, n. 4041). Anche l’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stata scrutinata dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Per un verso dunque si è negato che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo (ex multis, 8/10/2014, n. 21184) e che al contrario incomba sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, nonché la ragione e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, ex multis, Cass. 26/05/2017, n. 13300; Cass. 30/05/2018, n. 13596; con specifico riferimento all’Iva cfr. Cass. 27/09/2013, n. 22130; Cass. 7/06/2018, n. 14858). Sotto altro aspetto tuttavia è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Cass., 25/02/2015, n. 3746). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, si rivelino utili al progetto imprenditoriale, pur rivelando – ma solo in apparenza – un rapporto debole tra costo e attività d’impresa.
Tale ultimo rilievo torna utile quando, con un più recente orientamento, la Corte, abbandonando il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso e prendendo le distanze dall’art. 109 Tuir, quale fondamento del concetto di inerenza, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 comma 5 (già art. 75) riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Si è in particolare sostenuto che l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. E’ infatti configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, né deve assumere rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., 11/01/2018, n. 450).
L’impostazione da ultimo riferita assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perché -ad una piana lettura- è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento di utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), e qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate -tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa-. Ciò perché è agevole ipotizzare che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa -e da ultimo alla sua crisi e cessazione-, sicché i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia quello stesso recente innovativo orientamento nella parte conclusiva dello sviluppo argomentativo, affermando che “l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”.
La convergenza tra due percorsi interpretativi, in apparente contraddizione, trova conferma anche considerando il tradizionale orientamento interpretativo del concetto di inerenza, atteso che la valorizzazione della congruenza e vantaggiosità del costo rapportato all’impresa già prima, a ben vedere, implicava un giudizio di valore qualitativo della stessa spesa. E ciò, in maniera più o meno esplicitata, viene ribadito anche nelle decisioni più recenti di questa Corte (Cass., 17/01/2020, n. 902; Cass. 21/11/2019, n. 30366; Cass. 23/05/2018, n. 12738; Cass. 17/07/2018, n. 18904).
Quello che deve comunque esigersi è la prova dell’utilità del servizio remunerato.
Tenendo presenti le preliminari considerazioni sul concetto di inerenza, nel caso in oggetto questa Corte ha peraltro affermato che le spese di sponsorizzazione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 90, comma 8, sono assistite da una “presunzione legale assoluta” circa la loro natura pubblicitaria, e non di rappresentanza, a condizione che: a) il soggetto sponsorizzato sia una compagine sportiva dilettantistica; b) sia rispettato il limite quantitativo di spesa; c) la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor; d) il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale. Non rilevano pertanto requisiti ulteriori (Cass., 6/04/2017, n. 8981; Cass. 7/06/2017, n. 14232, la prima delle quali significativamente riguardava un caso nel quale il giudice di legittimità ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso la deducibilità dei costi – pur nella sussistenza delle condizioni di legge – in ragione dell’assenza di registrazione e di certezza di data del contratto con la sponsee, dell’omissione della dichiarazione reddituale annuale da parte di quest’ultima, nonché della ritenuta “antieconomicità” della spesa).
Inquadrato il principio di inerenza e tenendo conto dell’interpretazione della Corte di legittimità in tema di costi di sponsorizzazione sostenuti ai sensi della disciplina prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 90, comma 8, nel caso di specie è indiscutibile che le spese di sponsorizzazione siano state indirizzate, nei limiti prescritti dalla disciplina (Euro 200.000,00), ad una società sportiva dilettantistica. Ciò costituisce già la prova legale, allegata dal contribuente, della collocabilità di quei costi tra quelli inerenti alle finalità perseguite dal rapporto di sponsorizzazione. E il giudice d’appello, come già evidenziato, ha compiuto un accertamento in fatto conclusosi con un giudizio positivo sulla natura e inerenza dei costi di sponsorizzazione sostenuti. Spettava a questo punto all’Amministrazione finanziaria dare prova dell’incoerenza dei suddetti costi rispetto all’utilità ricavabile da quella sponsorizzazione. Ma sul punto la ricorrente si è limitata ad affermare che quei costi rivelavano l’antieconomicità e la non inerenza. A parte il fatto che l’antieconomicità non è un elemento autonomo rispetto all’inerenza, ma una qualità di essa, le ragioni l’Ufficio si è limitato a supportare le proprie ragioni su una “relazione” meramente “quantitativa” tra spesa e reddito. Si tratta di una relazione sganciata dalla specifica realtà fattuale, così come dagli approdi interpretativi cui si è fatto prima cenno, e peraltro inappropriata, per quanto già evidenziato, per discernere l’inerenza della spesa rispetto all’utilità conseguibile, qualunque sia l’approccio al concetto di inerenza. E d’altronde la circostanza che il fatturato della società, nel raffronto tra le due annualità a cavallo delle sponsorizzazioni, si sia quasi raddoppiato, inficia ogni valutazione del ricorrente Ufficio.
La sentenza impugnata di contro ha fatto applicazione corretta dei principi esplicitati ed ha altrettanto correttamente motivato il rigetto delle ragioni dell’Amministrazione finanziaria. Il motivo dunque è infondato e va rigettato.
Inammissibile invece è il secondo motivo, con il quale si denuncia un vizio di motivazione per l’omesso esame di un fatto decisivo. E’ qui sufficiente evidenziare che il giudice, al contrario di quanto pretende la difesa dell’Amministrazione finanziaria, ha formulato il giudizio critico, ponderando gli elementi emersi proprio nel corso della verifica e quelli allegati dal contribuente, concludendo nel senso dell’inerenza di quei costi all’attività d’impresa. E sotto l’aspetto giuridico ha colto l’essenza del concetto di inerenza, allontanando il suo significato da qualificazioni fondate sul mero rapporto quantitativo tra costo sostenuto e reddito conseguito.
In realtà, lamentando l’omesso esame di fatti decisivi, la ricorrente pretende in sede di legittimità un riesame del merito della vicenda, inammissibile in questa sede Il ricorso va in conclusione rigettato e alla soccombenza dell’Agenzia delle entrate segue la sua condanna alle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione in favore del contribuente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per competenze, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021