LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 288/2020 R.G. proposto da:
Unipolsai Assicurazioni S.P.A., in persona del procuratore Dott. F.L., rappresentata e difesa dall’Avvocato Paolo Garau, presso il cui studio in Roma, Viale Mazzini n. 145, elettivamente domicilia, come da procura alle liti in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Poste Italiane S.P.A., in persona del legale rapp. pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Anna Maria Rosaria Ursino, unitamente alla quale è elettivamente domiciliata presso l’Area Legale Territoriale Centro di Poste Italiane, Viale Europa n. 190, Roma, come da procura alle liti a margine del controricorso.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 11142/2019 del Tribunale di Roma, depositata il 28/05/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 luglio 2021 dal Consigliere Laura Tricomi.
RITENUTO
CHE:
Unipolsai Assicurazioni SPA (di seguito, anche la società) impugnò la sentenza n. 8324/2015 del Giudice di Pace di Roma, che aveva rigettato la domanda dalla stessa avanzata per ottenere la condanna di Poste Italiane SPA (di seguito, Poste) al versamento di Euro 2.148,94=, oltre interessi, rivalutazione e risarcimento dei danni, quale somma portata dall’assegno non trasferibile n. *****, emesso da Ugf Banca a favore di G.L. e pagato da Poste a F.I., persona diversa dal legittimo beneficiario.
Il Tribunale di Roma ha rigettato il gravame, confermando quanto già statuito in primo grado ed ha escluso la responsabilità di Poste nel caso concreto. In particolare, ha rimarcato che, ricondotta nell’ambito contrattuale la responsabilità per violazione del R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 in relazione alla ripartizione dell’onere della prova e in ordine alla valutazione dell’elemento della colpa del debitore, andava applicato quanto stabilito dall’art. 1218 c.c., con conseguente obbligo della banca negoziatrice di dimostrare di avere adempiuto diligentemente, ovvero che l’inadempimento non era dipeso da propria colpa; ha, quindi, richiamato il principio giurisprudenziale secondo il quale, nel caso di pagamento da parte di una banca di un assegno con sottoscrizione apocrifa, l’ente creditizio può essere ritenuto responsabile non a fronte di una mera alterazione del titolo, ma solo nei casi in cui tale alterazione sia immediatamente percepibile, in base alle cognizioni del bancario medio.
Ha affermato che, nel caso di specie, l’assegno non presentava evidenti segni di contraffazione, che sarebbe stata riscontrabile solo tramite attrezzature tecnologiche sofisticate o particolari cognizioni non richiedibili al bancario medio. Ha aggiunto che anche le modalità dell’incasso non erano tali da far insorgere nella banca negoziatrice motivi di dubbio, essendo avvenuto mediante versamento da parte di F.I., che appariva legittima beneficiaria del titolo, su un libretto di cui la stessa era titolare e che risultava aperto circa un anno prima, e non da parte di una persona che si era sostituita a G.L. assumendone le generalità: in proposito ha rimarcato che non era stato né allegato, né provato che il soggetto si fosse presentato con documenti contraffatti, ovvero riportanti dati inesistenti. Conclusivamente, ha escluso la ricorrenza di responsabilità di Poste per l’avvenuto pagamento a soggetto diverso dal legittimo prenditore.
La società propone ricorso per cassazione con due mezzi, corroborato da memoria, avverso la sentenza del Tribunale di Roma, in epigrafe indicata, nei confronti di Poste, che replica con controricorso.
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
CONSIDERATO
CHE:
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione del R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 e dell’art. 1218 c.c. in merito a diligenza e prova liberatoria dovuta dalla inadempiente ed irrilevanza della semplice diligenza; violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 445 del 2000, artt. 1 e 35 e conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 1192 c.c., comma 2, nella parte in cui non è stata accertata la responsabilità dell’istituto negoziatore. La ricorrente critica la decisione impugnata sostenendo che Poste non avrebbe provato di avere adempiuto la propria obbligazione – relativa alla corretta identificazione del portatore all’incasso del titolo con la diligenza di cui all’art. 1176 c.c., comma 2: ciò fa contestando la sentenza laddove ha affermato che la contraddizione non era visibile ad occhio nudo e dolendosi che non sia stata accertata concretamente l’effettiva impossibilità di riconoscere la contraffazione del titolo in esame.
1.2. Il motivo è inammissibile.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente all’applicazione della norma stessa, una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra, invece, nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass. n. 640 del 14/01/2019).
Nel caso in esame la ricorrente, pur denunciando apparentemente una violazione di legge, contesta l’accertamento di fatto compiuto in sede di merito circa la non immediata rilevabilità ictu oculi della contraffazione e mira, inammissibilmente, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. 34476 del 27/12/2019).
2.1. Con il secondo motivo si denuncia il vizio di contraddittoria motivazione in relazione alle richieste istruttorie formulate dalla parte ricorrente. La ricorrente sostiene che il giudice del gravame avrebbe errato nel ritenere le richieste istruttorie formulate dalla parte appellante come non coltivate in appello, perché le stesse erano state reiterate esplicitamente nel corso del giudizio all’udienza del 15/3/2016 ed implicitamente alla successiva udienza, mediante il richiamo al libello introduttivo della società.
2.2. Il motivo è inammissibile.
Come già affermato da questa Corte “La parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione. Tale principio deve essere esteso anche all’ipotesi in cui sia stato il giudice di appello a non ammettere le suddette richieste, con la conseguenza che la loro mancata ripresentazione al momento delle conclusioni preclude la deducibilità del vizio scaturente dall’asserita illegittimità del diniego quale motivo di ricorso per cassazione” (Cass. n. 5741 del 27/02/2019) e tale onere non è assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle (sole) richieste – istruttorie e di merito – definitivamente proposte (Cass. n. 19352 del 03/08/2017).
Il ricorrente non indica i termini in cui le richieste istruttorie sarebbero state ribadite e non fa alcun cenno alla loro riproposizione nelle conclusioni: il motivo, pertanto, non rispetta il pur necessario requisito dell’autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c..
3. In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, (Cass. S.U. n. 23535 del 20/9/2019).
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.300,00=, oltre Euro 100,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15%, ed accessori di legge;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021