LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12831/2015 proposto da:
T.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati SABRINA TEODORA CONTE, e CINZIA DE GIORGI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI NARDO’;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2780/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 08/01/2015 R.G.N. 1661/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2021 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’
Stefano, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Lecce, respingendo l’appello principale e incidentale proposti avverso la sentenza del Tribunale della stessa città, ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato la nullità dei contratti di lavoro a termine, intercorsi nel periodo tra il 12 dicembre 2002 e il 5 gennaio 2009, tra il Comune di Nardò e T.A., aveva rigettato la domanda di conversione a tempo indeterminato di tali rapporti e aveva condannato il Comune al risarcimento del danno in favore del lavoratore, quantificato nella misura corrispondente a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
2. Avverso questa sentenza T.A. ha proposto tre motivi di ricorso per cassazione, illustrati da successiva memoria. Il Comune di Gallipoli, pur ritualmente evocato, è rimasto intimato.
3. Il P.M. ha depositato memoria scritta, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, come conv. nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, e ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Sintesi dei motivi.
4. Il ricorrente denuncia:
5. con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 2, in combinato disposto con la direttiva comunitaria CEE 1999/97. Assume l’insussistenza di ragioni idonee a differenziare il pubblico impiego dal lavoro privato, sotto il profilo della conversione del rapporto e sottolinea che i contratti a termine stipulati con il Comune erano stati stipulati in esito al superamento di pubbliche selezioni;
6. con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, in combinato disposto con l’art. 2126 c.c.. Asserisce che il risarcimento del danno avrebbe dovuto essere liquidato in misura pari a tutti gli stipendi maturati dalla data di cessazione del rapporto a quella di effettiva riammissione;
7. con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo, ossia la mancata valutazione della domanda di riconoscimento del diritto al risarcimento del danno all’immagine e perdita di chances ai sensi dell’art. 1226 c.c..
Esame dei motivi.
8. Il primo motivo è infondato.
9. Il divieto di conversione dei rapporti di lavoro a termine in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nell’ambito dell’impiego pubblico “privatizzato” è stato costantemente affermato da questa Corte, senza condizioni, in plurime pronunce nel corso del tempo, con orientamento poi confermato al massimo livello di nomofilachia (Cass. S.U. 15 marzo 2016, n. 5072) e successivamente ancora costantemente reiterato (tra le molte, in progressione temporale, Cass. 2 agosto 2016, n. 16095; Cass. 6 aprile 2017, n. 8927; Cass. 19 febbraio 2019, n. 4801); non può quindi ritenersi che l’isolato precedente di Cass. 15 ottobre 2018, n. 25728 (invocato dal ricorrente nella memoria), in cui si argomenta sulla possibilità che anche nel pubblico impiego vi sia conversione 3 tempo indeterminato, nel caso in cui all’illegittimità del termine si associ un’originaria assunzione per il tramite di un concorso o di una selezione ad esso assimilabile, possa considerarsi l’incipit di una nuova riflessione sulla questione.
10. Ancora più di recente si e’, del resto, ribadito (Cass. 8671/2019, Cass. 4801/2019), che “nel rapporto di pubblico impiego a tempo determinato l’eventuale violazione delle norme sul contratto a termine non può mai tradursi nella conversione del rapporto per espressa disposizione legislativa (art. 97 Cost. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36)”.
11. Si rende in proposito utile richiamare la decisione di questa Corte n. 8671/2019, cit., la quale ha riepilogato e approfondito i tratti fondamentali delle ragioni che escludono, a diritto vigente, la possibilità di conversione a tempo indeterminato, nel pubblico impiego, dei rapporti a tempo determinato, pur quando si determini un’abusiva reiterazione di contratti a termine, muovendo dal diritto Eurounitario.
12. L’ordinanza innanzi richiamata osserva che all’interno di esso, sulla base di un’intensa elaborazione giurisprudenziale, sono stati ormai fissati chiari parametri generali, che definiscono l’ambito delle misure che gli Stati membri sono tenuti ad adottare al fine di assicurare che le norme sostanziali limitative del ricorso abusivo a contratti a termine adottate in attuazione dell’art. 5 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE (e consistenti in almeno una fra le ipotesi elencate in tale disposizione attinenti, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi) siano assistite da un apparato sanzionatorio non solo proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme stesse (Corte Giustizia 12 dicembre 2013, Papalia, punti 19 e 20; Corte di Giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, punto 49); tali parametri possono essere così sintetizzati:
13. ammissibilità di una normativa interna che riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (Corte di Giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, punto 48);
14. inammissibilità di una normativa interna che preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto, allorquando sia esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e quando il diritto a detto risarcimento sia subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione (Corte Giustizia 12 dicembre 2013, Papalia);
15. ammissibilità di una normativa interna che, pur non consentendo la conversione a tempo indeterminato, preveda la concessione di un’indennità (…), accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di Giustizia 7 marzo 2018, Santoro).
16. Il giudice interno, nella propria massima espressione nomofilattica, aveva già precedentemente affermato che il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è “presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente” (poi fissato dalla medesima pronuncia, senza vincoli di oneri probatori sul danno, nella misura di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, salvo dimostrazione anche dell’eventuale maggior pregiudizio) ” anche da disposizioni al contorno, che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine”, sicché deve ritenersi che “l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato;
17. Ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale” (Cass. S.U. 5072/2016 cit.), con orientamento ora avallato anche dalla Corte costituzionale, che nei respingere la questione di legittimità inerente al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, ha fatto espressamente leva sulla compatibilità Eurounitaria delle statuizioni contenute nella citata sentenza delle S.U. (Corte costituzionale 27 dicembre 2018, n. 248);
18. Pertanto, il combinarsi della giurisprudenza Eurounitaria, con il citato intervento delle Sezioni Unite e della Corte costituzionale, consentono di ritenere legittimo un sistema che, in caso di abusiva reiterazione di contratti a termine, preveda quale conseguenza, nell’ambito del rapporto di diritto privato tra lavoratore e datore di lavoro, il riconoscimento di un’indennità nella misura di cui all’art. 32 cit.;
19. Quello sopra ricostruito (divieto di conversione assistito da misure pecuniarie caratterizzate da automatismi risarcitori) è del resto, come innanzi evidenziato, il sistema vigente rispetto ai rapporti di lavoro a tempo determinato con la Pubblica Amministrazione presso la quale, secondo quanto affermato dalla già citata Cass. 4801/2019 cit., “l’eventuale violazione delle norme sul contratto a termine non può mai tradursi nella conversione del rapporto per espressa disposizione legislativa”(cfr. anche Cass. 8671/2019).
20. Cass. 8671/2019, con specifico riguardo al diritto positivo ha osservato, poi, che la norma secondo cui “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”, salvo affinamenti mediante aggiunte inerenti la responsabilità dirigenziale, è rimasta invariata, pur nei mutamenti della sua collocazione, fin dalla prima introduzione di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 22, fino poi a confluire nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, al comma 2, divenuto ad oggi l’attuale comma 5.
21. La ricostruzione innanzi richiamata è del tutto condivisibile, posto che, come in essa rilevato, il disposto letterale non lascia adito a dubbio alcuno ed è perentorio nel disporre che “in ogni caso” (tradotto da Cass. 4801/2019 in quell’evocativo “mai” di cui si è detto) dalle violazioni delle norme sul contratto a termine possa derivare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni.
22. Questa Corte (Cass. S.U. 5072/2016 cit.) ha, poi, chiarito ulteriormente e definitivamente (punto 5) come la norma sia da considerare speciale e certamente sopravvissuta all’entrata in vigore (in allora) del D.Lgs. n. 368 del 2001 e sul punto non vi è ragione di tornare.
23. La radice di tale divieto di conversione è tradizionalmente riportata alla necessità che, per espressa previsione costituzionale (art. 97 Cost., comma 3) l’assunzione presso le Pubbliche Amministrazioni avvenga mediante pubblico concorso, salva la possibilità di derogare per legge a tale principio solo nei casi in cui (Cass. 30 marzo 2018, n. 7982) ciò risulti maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondente a straordinarie esigenze d’interesse pubblico individuate dal legislatore in base ad una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza (vedi, per tutte, Corte costituzionale 19 maggio 2017, n. 113; 12 maggio 2014, n. 134; 13 settembre 2012, n. 217; 27 marzo 2003, n. 89).
24. Ciò vale ad escludere a priori che si possa ragionare di conversione allorquando l’assunzione non sia avvenuta mediante concorso o selezione ad esso assimilabile e da qui il costante richiamo in tal senso di tutta la giurisprudenza, ma non significa che, a fronte di assunzioni a tempo determinato mediante concorso o selezione ad esso assimilabile, ne possa derivare, in caso di illegittimità del termine, la conversione a tempo indeterminato.
25. Va osservato che la Corte Costituzionale, nell’escludere che il divieto di conversione in ambito di pubblico impiego fosse illegittimo, proprio perché caratterizzato dalla necessità del concorso, ha precisato che tale affermazione veniva svolta “limitando l’esame al solo profilo genetico del rapporto, che nella specie viene in considerazione” (Corte Costituzionale 27 marzo 2003, n. 89), “con ciò lasciando apertamente trapelare come la questione sulla conversione a tempo indeterminato investisse ambiti ben più ampi rispetto, appunto, a quello “genetico” del rapporto, ovverosia attinente alle modalità di selezione dei dipendenti” (così Cass. 8671/2019, cit.).
26. Al contempo si osserva che la Corte Costituzionale (Corte Costituzionale 17 giugno 1996, n. 205), ha dichiarato l’illegittimità di una normativa regionale siciliana che prevedeva la stabilizzazione di borsisti di ricerca a termine, sul presupposto che l’ampliamento e rideterminazione erano stati disposti da tale normativa “in assenza di una qualsiasi istruttoria e quindi in mancanza di una preventiva acquisizione di dati di conoscenza”, in violazione della “necessità che le piante organiche non vengano ampliate e nuovo personale non venga assunto nei ruoli, se non a seguito di una rilevazione dei carichi di lavoro”, con sostanziale infrazione “del canone generale del buon andamento, di cui all’art. 97 Cost.”.
27. Tali principi evidenziano che il divieto di trasformazione in rapporti a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi affondi più ampiamente le proprie radici all’interno dell’art. 97 Cost., sicché è limitante la prospettiva che faccia riferimento soltanto, quale espressione del buon andamento ed imparzialità di cui al comma 1, di tale norma costituzionale, al pubblico concorso ed al comma 3, della stessa norma.
28. Muovendo dal diritto positivo, è palese come l’architettura del D.Lgs. n. 165 del 2001, si fondi su un sistema di programmazione e piani di fabbisogno (art. 6), poi richiamati come base per il reclutamento del personale (art. 35, comma 4), che palesemente verrebbe alterato dalla possibilità di conversione a tempo indeterminato di rapporti a termine, sulla sola base di meri comportamenti, inevitabilmente eccentrici rispetto ad una programmazione rigorosa quale quella prevista dalla normativa, di reiterazione illegittima di contratti a tempo determinato.
29. Come già osservato da questa Corte (Cass. 8671/2019, cit.) quell'”in ogni caso”, di cui all’art. 36, va dunque collocato in questa prospettiva, rispettosa del principio di buon andamento, richiamato da Corte costituzionale 205/1996 cit..
30. Una diversa posizione, che intendesse alterare quel quadro, sulla base di un’indiscriminata equazione tra illegittimità del termine e conversione a tempo indeterminato del rapporto, oltre a non risultare, come detto, necessitata sulla base della disciplina Eurounitaria, finirebbe altresì, derogando senza presupposto all’art. 36 cit., ed alle citate norme (artt. 6 e 35) che con esso fanno sistema, per interferire indebitamente anche con il principio di cui dell’art. 97, comma 1, prima parte, sulla base del quale l’organizzazione della Pubblica Amministrazione è destinata a muoversi solo “secondo disposizioni di legge”.
31. D’altra parte, come già affermato da questa Corte (Cass. 8671/2019, cit.), l’attuale formulazione dell’art. 36, prevede, tra l’altro, che “per prevenire fenomeni di precariato le amministrazioni pubbliche nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per i concorsi pubblici a tempo indeterminato” e ciononostante ribadisce (attraverso il richiamo al “rispetto delle disposizioni del presente articolo”, tra cui quindi anche quella del divieto di conversione), l’impossibilità di ogni forma di conversione, sicché anche l’evoluzione della norma (l’obbligo di individuare i destinatari del rapporto a termine fra i vincitori e gli idonei di concorsi per posti a tempo indeterminato risale alla L. n. 125 del 2013, di conversione del D.L. n. 101 del 2013, art. 4) conferma che il fondamento del divieto di conversione va ricercato, oltre che nel principio del pubblico concorso, anche nei principi di efficienza e buon andamento della Pubblica Amministrazione, che impediscono la conversione, in caso di illegittimo ricorso al rapporto a termine, anche nell’ipotesi in cui il destinatario del contratto di lavoro flessibile sia stato dichiarato idoneo all’esito di una procedura concorsuale bandita per posti a tempo indeterminato.
32. Tale dato normativo, pur successivo alla disciplina concreta applicabile ratione temporis alla presente fattispecie, viene tuttavia ad attestare un principio già sotteso alla precedente normativa ed in particolare al mai mutato testo del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1.
33. In continuità con la sopra citata giurisprudenza di questa Corte, va, in conclusione, ribadito il principio per il quale “in materia di impiego pubblico contrattualizzato nel caso di utilizzazione di contratti di lavoro flessibile, che deve sempre avvenire D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 1, nel rispetto delle procedure di reclutamento di cui dal citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, la regula iuris secondo la quale, in ipotesi di violazione da parte delle pubbliche amministrazioni di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, non può in ogni caso comportare, ai sensi dell’originario comma 2 e poi del comma 5 dell’art. 36 del richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato non ammette eccezioni e riguarda anche l’ipotesi in cui l’individuazione del lavoratore assunto a termine, o con altre forme di lavoro flessibile, è avvenuta all’esito delle procedure di reclutamento sopra richiamate o utilizzando le graduatorie di procedure concorsuali”.
34. Il secondo motivo è infondato.
35. A prescindere dal rilievo che l’impossibilità di convertire il rapporto impedisce il riconoscimento di importi di cui si ipotizza il perdurare fino al momento della riammissione in servizio, le questioni agitate trovano comunque regolazione nel principio, qui condiviso, sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13).
36. Da ciò consegue che, mentre va escluso, perché incongruo, il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto” e risultando altresì configurabile un danno da “perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore” (Cass., S.U., 15 marzo 2016, n. 5072).
37. Il terzo motivo è inammissibile in quanto le censure sono estranee al perimetro del mezzo impugnatorio delineato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che, nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modd. in L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis (la sentenza impugnata è stata pubblicata l’8 gennaio 2015), consente di denunciare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo (Cass. Sez. Un. 34476/2019, Cass. sez. Un. 33679/2018, Cass. Sez.Un. n. 9558/2018).
38. Le censure, ove pure ricondotte, al vizio di omessa pronuncia sulla domanda risarcitoria correlata al danno all’immagine e per perdita di chances, risultano infondate perché la Corte territoriale ha preso in esame tali domande e le ha rigettate, spiegando le ragioni della statuizione.
39. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
40. Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di legittimità in quanto il Comune di Nardò non ha svolto alcuna attività difensiva (e’ rimasto intimato).
41. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
PQM
La Corte;
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021