Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.25071 del 16/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. BELSAMO Milena – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12717/2014 proposto da:

Saint Gobain Distribuzione Srl, a Socio Unico, in persona legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Due Macelli 66 presso lo studio dell’avvocato Tomassini Antonio che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Modenesi Stefano, giusta procura a margine;

– ricorrente –

contro

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 142/2013 della BARDIA, depositata il 19/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/09/2021 dal consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, conseguenze di legge;

udito per il ricorrente l’avvocato Di Dio Andrea, per delega avvocato Tomassini, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’avvocato Rocchitta Giammario, che ha chiesto il rigetto.

RILEVATO IN FATTO E DIRITTO che:

p.1.1 La Saint Gobain Distribuzione srl con socio unico ha proposto quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 142/43/13 del 19 novembre 2013, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione per imposta proporzionale di registro notificatole dall’agenzia delle entrate in esito a riqualificazione giuridica D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, in termini di cessione di azienda, della seguente operazione:

– 15 settembre 2008, costituzione della Di Trani srl a socio unico da parte della Di Trani srl (ora Saint Gobain Distribuzione srl);

– 28 novembre 2008, delibera di aumento di capitale della neocostituita Di Trani srl, da liberarsi con conferimento in natura di tre rami di azienda;

– 28 novembre 2008, conferimento in essa del proprio ramo d’azienda da parte di Di Trani srl (già socio unico della conferitaria, poi divenuta Sagedi Real Estate srl), di Annatore Real (già Studio srl); Data pubblicazione 16/09/2021;

– 29 dicembre 2008, cessione alla Saint Gobain Distribuzione srl a s.u. delle quote di partecipazione così acquisite nella Di Trani srl da parte delle conferenti Sagedi, Annatore e Gediva. La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che:

– la riqualificazione ex art. 20 cit. era legittima dal momento che, per quanto articolata mediante plurimi atti negoziali, l’operazione in esame doveva ritenersi sostanzialmente unitaria, e con oggetto la cessione dei rami aziendali a favore della Saint Gobain in veste di cessionaria finale delle quote;

– non erano nella specie applicabili le tutele procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, relativo alle sole imposte dirette;

– nel caso di specie, la riqualificazione poteva anche prescindere dalla contestazione di abuso del diritto, posto che l’amministrazione finanziaria si era limitata alla riqualificazione giuridica degli atti sottoposti a registrazione assoggettandoli ad aliquota proporzionale sulla base della stessa base imponibile (non rettificata) indicata dalle parti, perché desumibile dagli atti stessi.

Ha resistito con controricorso l’agenzia delle entrate.

La società ricorrente ha depositato memoria 25 giugno 2019 con la quale ha invocato lo jus superveniens costituito sia dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, (l. di bilancio 2018), sia dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (l. di bilancio 2019); ha allegato inoltre la risposta ad interpello n. 196 del 18 giugno 2019, con la quale la stessa agenzia delle entrate, in fattispecie similare, risultava orientata ad escludere la rilevanza D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, (nella formulazione risultante dal suddetto jus superveniens) di atti collegati ed elementi extratestuali.

Il giudizio è stato sospeso per effetto di ordinanza di questa Corte n. 23549/19 di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, e dunque – all’esito della decisione da quest’ultima resa – riassegnato alla decisione che segue.

La società ricorrente ha depositato ulteriore memoria 26 maggio 2021 con istanza di condanna dell’Amministrazione ex art. 96 c.p.c., stante il mancato annullamento in autotutela della pretesa, secondo quanto dalla stessa società più volte sollecitato.

Il Procuratore Generale, con conclusioni del 7 luglio 2021, ha chiesto accogliersi il ricorso.

p. 1.2 Con il primo motivo di ricorso la società lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dal momento che questa norma consentirebbe all’amministrazione finanziaria di riqualificare il solo atto presentato alla registrazione, non anche gli atti a questo esterni, ed asseritamente collegati (imposta d’atto); inoltre l’ordinamento tributario escluderebbe espressamente (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3) che operazioni quali quella in esame possano concretare abuso del diritto perché finalizzate al mero risparmio fiscale.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della stessa norma sotto il profilo che, nella specie, si trattava di operazione rispondente a reali esigenze di riorganizzazione aziendale attraverso atti che si mantenevano soggettivamente, oggettivamente e finalisticamente distinti ed autonomi; inoltre, la riqualificazione ex art. 20 muoveva testualmente dalla considerazione dei soli effetti “giuridici” dell’atto, non anche di quelli “economici”, invece presi in esame dall’amministrazione finanziaria nell’avviso opposto.

Con il terzo e il quarto motivo di ricorso si deduce violazione di legge con riguardo al principio del contraddittorio L. n. 212 del 2000, ex artt. 6 e 12, L. n. 4 del 1929, art. 24, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, ed al principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.. Per non avere la Commissione Tributaria Regionale rilevato che l’avviso di liquidazione in oggetto non era stato preceduto dalla elevazione di un verbale di constatazione della condotta abusiva; né, ad ogni modo, dall’instaurazione di un contraddittorio preventivo in attuazione di un principio che doveva ritenersi immanente nell’ordinamento tributario, anche in conformità alla giurisprudenza CGUE in materia. Neppure, infine, l’amministrazione finanziaria aveva osservato le garanzie procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4 e 5.

p. 2.1 Sono fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso (suscettibili di trattazione unitaria stante l’identità sostanziale della questione posta) con assorbimento dei motivi residui.

Come si è anticipato, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, è stato fatto oggetto – nel corso del presente giudizio – di modificazioni di diretta e fondamentale incidenza sul caso in esame.

La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. A), (cd. Legge di bilancio 2018) ne ha infatti modificato la previgente formulazione (“L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”), la quale trova oggi una più circoscritta definizione normativa.

Ribadito il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l’intervento legislativo di riforma – superando un opposto orientamento applicativo di legittimità – ha ristretto l’oggetto dell’interpretazione al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili. Non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extra-testuali: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Successivamente a questa prima modificazione – ed anche in tal caso a seguito di un diverso avviso di legittimità – il legislatore è nuovamente intervenuto per affermare la natura interpretativa autentica, e dunque retroattiva, della nuova formulazione dell’art. 20, così come risultante dopo la cit. L. n. 205 del 2017.

Il 1 gennaio 2019, infatti, è entrato in vigore la L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, (bilancio di previsione per l’anno 2019), secondo cui: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. A), costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131”.

Dal che si evince come la riformulazione in esame (nel senso della esclusione, dal processo di qualificazione dell’atto, degli elementi extratestuali e di collegamento negoziale) si renda applicabile – fermi i rapporti di registrazione ormai esauriti o coperti dal giudicato – anche agli atti negoziali posti in essere, come quello qui dedotto, prima del 1 gennaio 2018.

Nel presente giudizio, come si è detto, questa corte di legittimità, con l’ordinanza n. 23549/19, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., dell’art. 20, così come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 2017, citato art. 1, comma 87, ed L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, “nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Richiamato il pregresso consolidato orientamento di legittimità sulla rilevanza qualificatoria della causa concreta del contratto e del collegamento negoziale, ed assodato che anche in base alla riforma del 2017 l’interpretazione dell’atto deve rispondere (indipendentemente da finalità antielusive) a criteri di sostanza e non puramente formali e nominali, si è in sintesi ritenuto che l’esclusione, dall’attività di qualificazione, degli elementi extra-testuali e di collegamento negoziale potesse fondatamente incidere sia sul principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), impedendo di cogliere il reale sostrato economico risultante dall’atto presentato alla registrazione (inteso non come documento ma quale complesso negoziale con causa unitaria); sia sul principio di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), sottraendo ad imposizione di registro manifestazioni di forza economica non razionalmente e coerentemente differenziabili sulla base del solo fatto esteriore che le parti abbiano stabilito di attuare il proprio assetto di interessi con un unico atto negoziale piuttosto che con più atti tra loro collegati.

Con la sentenza n. 158/2020 (GU 22/7/2020) la Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto non fondati i dubbi così sollevati, osservando in particolare che:

ferma restando l’insindacabilità da parte del giudice delle leggi della interpretazione evolutiva attribuita dalla Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica, all’art. 20, in parola, siccome riferita alla causa concreta dell’atto ed alla rilevanza del collegamento negoziale, non può dirsi, diversamente da quanto affermato dal giudice remittente, che tale interpretazione sia l’unica costituzionalmente necessitata, essendo infatti compatibili con la Costituzione anche nozioni diverse di “atto presentato alla registrazione” e di “effetti giuridici” in relazione alle quali considerare la capacità contributiva espressa;

la scelta del legislatore del 2017 di discrezionalmente escludere ogni rilevanza agli elementi extra-testuali ed ai negozi collegati (salvo che negli specifici casi desumibili da e diverse disposizioni dello stesso TU Registro) deve ritenersi non arbitraria, ed anzi coerente con i principi ispiratori dell’imposta di registro e, in particolare, sia con la sua natura, storicamente riconosciuta, di ‘imposta d’attò, sia con la tipizzazione tariffaria e per effetti giuridici, non economici, degli atti imponibili;

la tesi dell’interpretazione dell’atto incentrata sulla nozione di causa reale non appare coerente con la sopravvenuta introduzione nell’ordinamento della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, poiché “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea)”.

La stessa questione di legittimità costituzionale già esaminata da C. Cost. 158/20 è stata sollevata, con ordinanza di rimessione 13 novembre 2019, anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna la quale ha altresì sottoposto al vaglio del giudice delle leggi, in via subordinata, la diversa ed ulteriore questione della legittimità costituzionale della L. 30 dicembre 2018, n. 145, cit. art. 1, comma 1084, in forza del quale la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), “costituisce interpretazione autentica” del censurato D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.

A detta della CTP (che ha sollevato la questione ex artt. 3,81,97,101,102,108 e 24 Cost.) l’attribuzione testuale di carattere interpretativo autentico alla norma innovativa (escludente il collegamento negoziale dall’attività di qualificazione dell’atto ex art. 20) sarebbe unicamente finalizzata a sancire la retroattività della novella (effetto tipico, appunto, delle norme di interpretazione autentica), e ciò in presenza di tre profili di irragionevolezza:

– la mancanza di un preesistente contrasto interpretativo, stante il consolidato orientamento di legittimità (poc’anzi riportato) secondo cui, al contrario, l’atto da registrare andrebbe qualificato anche in virtù del suo collegamento causale con atti ed elementi esterni;

– la non prevedibilità da parte degli operatori della innovazione apportata, costituente una sorta di ‘forzaturà del legislatore rispetto ad un quadro interpretativo che, sebbene in senso opposto, doveva ritenersi del tutto certo e non necessitante di chiarimenti;

– l’insussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” giustificanti l’adozione eccezionale di una norma retroattiva, come tale destinata ad interferire anche sui procedimenti in corso e sulla “parità delle armi” tra i contendenti (art. 6 CEDU).

Ulteriori dubbi di legittimità sono poi stati dedotti sotto il profilo della menomazione delle ragioni di bilancio, della indebita ingerenza del legislatore nella sfera di autonomia del potere giudiziario, della violazione del diritto di difesa dell’amministrazione finanziaria nei giudizi da questa già radicati sulla base della precedente lettura dell’art. 20.

Orbene, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 39/21 (GU 17/3/21), ha richiamato – quanto alla legittimità in sé del nuovo testo dell’art. 20 – il convincimento di infondatezza della questione così come già emerso con la menzionata sentenza n. 158/20; ha quindi dichiarato inammissibili (ex artt. 24,81,97,101,102 e 108 Cost.), ovvero infondati (ex art. 3 Cost.), gli ulteriori dubbi di legittimità costituzionale sulla retroattività “per interpretazione autentica” della nuova disciplina.

In ordine a quest’ultimo profilo, ha in particolare osservato la Corte che:

– non è irragionevole attribuire efficacia retroattiva ad un intervento che abbia carattere di sistema come quello inciso, posto che il legislatore ha in tal modo “certamente fissato uno dei contenuti normativi riconducibili, più che all’ambito semantico di una singola disposizione, a quello dell’intero impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro, dove la sua origine storica di imposta d’atto non risulta superata dal legislatore positivo (sentenza n. 158 del 2020)”; nemmeno, l’intervento può dirsi irragionevole quando esso sia determinato “dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche di legittimità) che si è sviluppata in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore (sentenza n. 402 del 1993)”, fermo restando che l’interpretazione di legittimità dell’art. 20 non risultava comunque del tutto monolitica, trovando anche forte dissenso nella dottrina;

– non può dirsi che la modificazione legislativa fosse a tal punto “imprevedibile” da palesarsi irragionevole (neppure nella sua attribuita efficacia retroattiva), ponendosi invece essa su un piano di rispettata “coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”, secondo quanto già osservato con la sentenza 158/20;

– quanto alla asserita violazione del principio di uguaglianza, valgono i principi già evidenziati in quest’ultima pronuncia sul fatto che la disciplina del 2017 non leda l’art. 3 (e neppure l’art. 53 Cost.), dovendosi qui aggiungere (per quanto concerne lo specifico aspetto della retroattività) che “nella giurisprudenza sovranazionale si riconosce che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona “contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione e non viceversa”.

p. 2.2 All’esito dell’evoluzione interpretativa così sinteticamente riassunta, il ricorso deve trovare accoglimento.

E’ infatti indubbio – costituendo ciò il nucleo fondamentale e caratterizzante della pretesa impositiva – che nella specie si verta proprio di collegamento negoziale (secondo lo schema ricorrente su riportato) e non di mera riqualificazione “per intrinseco” del solo atto presentato per la registrazione.

Il che appare oggi necessario e sufficiente ad escludere il legittimo ricorso, da parte dell’amministrazione finanziaria, all’istituto ex art. 20 cit..

Obietta l’agenzia delle entrate che, pur dopo questa complessa evoluzione interpretativa, residuerebbe in capo all’amministrazione finanziaria il potere – dovere di procedere al recupero della maggiore imposta in forza del collegamento negoziale, vertendosi di comportamento chiaramente abusivo. Soggiunge inoltre che quanto in proposito affermato dalla Corte Costituzionale nelle su menzionate pronunce – sulla necessità di armonizzare e rendere coerente il sistema impositivo di registro a seguito del sopravvenire della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, unica disposizione oggi invocabile dal Fisco per far valere l’ipotesi del collegamento negoziale quale manifestazione elusiva e di abuso del diritto non può trovare applicazione in tutte quelle fattispecie accertative (ancora sub judice) che, come la presente, si siano originate ben prima dell’introduzione dell’art. 10 bis cit., così da lasciare la pretesa impositiva praticamente sguarnita di ogni tutela e possibilità di realizzazione (sia ex art. 20 cit. perché oggi da diversamente interpretarsi anche per il passato, e sia ex art. 10 bis cit. perché non applicabile ratione temporis al caso in esame).

Questo argomentare non può trovare accoglimento, dal momento che la situazione che è venuta così a determinarsi non può essere risolta sul piano interpretativo.

Ciò in considerazione del fatto che l’azione accertativa qui intrapresa dal Fisco si basava su una determinata riqualificazione giuridica unitaria dell’operazione nel suo complesso – dunque considerando, quale elemento essenziale e distintivo, la concatenazione degli atti negoziali – a prescindere da qualsivoglia connotato abusivo e di elusività; connotati che già la pregressa giurisprudenza di legittimità in materia prevalentemente riteneva, del resto, del tutto estranei alla struttura ed alla ratio dell’art. 20, posto a base della maggiore liquidazione.

Per altro verso, se è vero che oggi il collegamento negoziale rileva ex art. 10 bis cit., altrettanto indubbio è che tale rilevanza si associa alla prescrizione normativa di tutta una serie di garanzie, sostanziali e procedurali, che nella specie non sono state applicate, e che non potrebbero in alcun modo essere recuperate a posteriori; a tacer d’altro, per l’evidente lesione che altrimenti si determinerebbe, in pregiudizio del contribuente, dei principi di certezza e determinatezza che devono presiedere all’azione impositiva.

Quanto appena osservato conferma dunque l’inaccoglibilità dell’eccezione mossa sotto questo ultimo profilo dall’agenzia delle entrate, la cui posizione processuale non denota tuttavia gli estremi dell’invocata responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., neppure sotto lo specifico aspetto del mancato annullamento in autotutela degli atti impositivi dedotti in causa, e della conseguente ulteriore resistenza in giudizio nella presente sede di riassunzione dopo la pronuncia del giudice delle leggi.

Si tratta infatti di contegno processuale di per sé non pretestuoso né ispirato da dolo o colpa grave, quanto piuttosto conseguente alle oggettive incertezze applicative residuanti dal complesso iter ricostruttivo di cui si è dato conto, ancora prive di un completo e specifico vaglio giurisprudenziale.

Ne segue, in definitiva, l’accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e, con decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., l’accoglimento del ricorso introduttivo e l’annullamento degli atti impositivi opposti.

Da tale annullamento deve scaturire la richiesta pronuncia di rimborso di quanto medio tempore versato all’amministrazione finanziaria, per i titoli di causa, dalle società ricorrenti.

Il già rassegnato contesto evolutivo nel quale è maturata la lite rende evidenti i presupposti per la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

– accoglie il ricorso;

– cassa la sentenza impugnata e decide nel merito con accoglimento del ricorso originario di parte contribuente ed annullamento degli atti impositivi impugnati;

– dispone il rimborso di quanto medio tempore corrisposto da parte contribuente all’amministrazione finanziaria per i titoli di causa, oltre accessori di legge;

– compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 9 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021

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