Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.25320 del 20/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27461-2019 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 59, presso lo studio dell’avvocato ARTURO BONSIGNORE, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.I., M.B.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 482/2019 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 07/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE.

RILEVATO

– che con sentenza del 7 agosto 2019, n. 1280, la Corte d’appello di Perugia, in riforma della decisione del Tribunale della stessa città del 14 giugno 2016, ha accolto la domanda di condanna al pagamento della somma di Euro 4.735,00, oltre accessori, proposta contro l’ex socio accomandante S.A., per le sopravvenienze passive emerse dopo il trasferimento, con contratto del 6 maggio 2010, della quota pari al 50% del capitale sociale della DS Consulting Service s.a.s. di D.I., del valore nominale di Euro 44.000,00, ceduta da S.A. per il 25% ad D.I. e per il 25% del capitale sociale a M.B.;

– che la corte territoriale ha, invece, respinto l’appello incidentale, con il quale lo S. aveva chiesto l’accoglimento della domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, per essere la cessione avvenuta a prezzo inferiore, in ragione dell’occultamento di una posta attiva, ad essa antecedente, costituita da crediti verso terzi;

– che avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione il soccombente, sulla base di quattro motivi;

– che non svolgono difese gli intimati.

RITENUTO

– che i motivi di ricorso vanno come di seguito riassunti:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 645 c.p.c., perché la corte territoriale ha invertito l’onere probatorio, affermando come l’onere di provare il pagamento da parte sua dei debiti pregressi fosse in capo all’alienante, e non quello di provare la loro esistenza in capo agli acquirenti; inoltre, egli aveva, quale fatto impeditivo della pretesa, allegato come nessun debito emerso fosse stato, di fatto, pagato dalle controparti, onde non è fondata la domanda di restituzione della metà di detto importo; infine, il c.t.u., rispondendo a quesito postogli, ha anche accertato che l’azienda aveva un valore superiore al prezzo pattuito, con la conseguenza che non si poteva parlare di un danno per gli acquirenti;

2) violazione o falsa applicazione dell’art. 24 Cost., degli artt. 116 e 132 c.p.c., per esporre la sentenza impugnata una motivazione apparente o inesistente, laddove essa ha affermato che la c.t.u. aveva imputato alla situazione patrimoniale al momento della cessione della quota le poste attive e passive dedotte dalle parti: con ciò reputando, quindi, insussistenti le sopravvenienze;

3) omesso esame di fatto decisivo, consistente nella circostanza che l’acquirente era il socio accomandatario ed amministratore della società, e che lo stesso c.t.u. ha tratto ogni informazione dal medesimo, come riferito nella relazione peritale, mentre almeno sette dei debiti pretesi sopravvenuti erano stati, invece, già considerati nella situazione patrimoniale di riferimento al momento della cessione;

4) omesso esame di fatto decisivo e motivazione contraddittoria, che diviene in fatto assente, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., con riguardo alla domanda riconvenzionale proposta dal ricorrente, perché l’avere il c.t.u. accertato un effettivo maggior valore del patrimonio, sebbene inferiore a quanto lamentato dal ricorrente, non avrebbe potuto condurre al rigetto dell’appello incidentale;

– che la corte d’appello, per quanto qui rileva, ha ritenuto che: a) la c.t.u. espletata nel corso del giudizio di appello – sulla base dei debiti della società, risultanti documentalmente, per tributi, i.v.a. e contributi lavorativi – ha quantificato in Euro 9.471,01 quelli sorti per competenza nel periodo anteriore alla cessione della quota sociale, onde la metà di tale importo, pari ad Euro 4.735,00, va corrisposta agli acquirenti; b) non vi è prova dell’esistenza di crediti anteriori, emersi dopo la cessione, avendo il c.t.u. valutato il patrimonio netto della società, al momento della cessione, in Euro 92.140,00, di poco superiore a quello di Euro 88.000,00, determinato tra le parti a tale data ed avendo comunque la clausola 8 del contratto menzionato solo le sopravvenienze passive;

– che costituisce principio consolidato quello secondo cui la partecipazione sociale costituisce un “bene di secondo grado”, oggetto diretto del negozio di cessione, onde i beni compresi nel patrimonio della società possono essere considerati solo un oggetto indiretto: ciò comporta che, pur non potendo applicarsi in sé alla quota sociale le garanzie della vendita, con riguardo alla minore consistenza del patrimonio o dell’azienda sociali, di cui all’art. 1490 e ss. c.c., è possibile tuttavia che le parti prevedano espresse clausole in cui l’alienante garantisca l’effettiva consistenza del patrimonio o dell’azienda sociale, quale assunzione del rischio di sopravvenienze non considerate, ma preesistenti, facendosi carico delle differenze; in tal caso, potrà essergli richiesto il pagamento delle somme risultanti mancanti (cfr. Cass. 24 luglio 2014, n. 16963; Cass. 19 luglio 2007, n. 16031; Cass. 9 settembre 2004, n. 18181);

– che dal principio esposto deriva, altresì, come l’avvenuto adempimento dei debiti pregressi in favore dei terzi creditori non sia elemento condizionante l’obbligazione risarcitoria de qua;

– che, ciò posto, il primo motivo è manifestamente infondato, risultando dalla sentenza impugnata – la cui tecnica espositiva carente rende, invero, più difficoltosa la sua interpretazione, onde non è strano che il ricorrente possa averne in parte frainteso il contenuto – che la corte territoriale non ha invertito l’onere della prova, in violazione dell’art. 2697 c.c.: essa infatti, ha affermato che è stata raggiunta la prova documentale dei debiti gravanti sulla società, sorti in un momento anteriore alla cessione, ed ha, altresì, seguendo le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, distinto tra i debiti effettivamente considerati nella situazione patrimoniale di riferimento, per i quali non è dovuto rimborso, e quelli, invece, costituenti sopravvenienze, per le quali doveva operare la garanzia prevista al contratto, art. 8;

– che, in sostanza, la corte d’appello ha ritenuto provate – tramite i documenti in atti – le poste passive non dichiarare per Euro 9.471,01, in quanto sorte per competenza nel periodo anteriore alla cessione della quota sociale, onde la metà di tale importo, pari ad Euro 4.735,00, dovesse rientrare nella garanzia contrattuale; né, secondo il principio richiamato, ha rilievo che non fossero stati pagati ancora dalla società i debiti de quibus, circostanza su cui il ricorrente invano dunque insiste ancora in questa sede;

– che il secondo motivo è manifestamente infondato, equivocando esso ancora il contenuto della sentenza impugnata, la quale non afferma affatto quanto il motivo pretende, ma unicamente come l’imputazione dei debiti dovesse rispettare il “principio di competenza” delle poste in bilancio: principio generale, desumibile dall’art. 2423-bis c.c., comma 1, n. 4, secondo cui “si deve tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo”, a sua volta tratto dai riconosciuti principi contabili, dalla disposizione resi giuridici;

– che il terzo motivo è inammissibile, in quanto esso deduce un fatto nuovo – la qualità di amministratore dell’avente causa, quale causa ostativa del richiesto risarcimento – che non risulta dedotto tra i motivi di appello, avendo il ricorrente, in violazione dell’art. 366 c.p.c., mancato di indicare il luogo ed il tempo della precedente deduzione: invero, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – sia stata del tutto ignorata dal giudice di merito, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudi7io precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Corte di controllare de visti la veridicità di tale asserzione (cfr. Cass. 24 gennaio 2019, n. 2038; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 2 aprile 2014, n. 7694; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 31 agosto 2007, n. 18440), in quanto i motivi del ricorso per cassazione devono investire a pena di inammissibilità questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, di modo che è preclusa la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi o introducano, comunque, piste ricostruttive fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli allegati nelle precedenti fasi processuali (cfr. Cass. 13 aprile 2004, n. 6989);

– che neppure la seconda parte del motivo coglie nel segno, dal momento che la corte territoriale ha appunto distinto, tra le poste passive dedotte dagli acquirenti, quelle già ricomprese nell’ambito della situazione patrimoniale di riferimento, non rese, quindi, dalla corte oggetto dell’obbligo di garanzia;

– che il quarto motivo e’, invece, manifestamente fondato, dal momento che la corte territoriale ha, da un lato, affermato l’esistenza di un’effettiva maggior consistenza del patrimonio sociale, sia pure per importo inferiore a quanto preteso, rilevante per il patto c.d. sulla garanzia nella compravendita, e, dall’altro lato, ha respinto tout court la domanda riconvenzionale: invece che quantificare con esattezza la posta attiva e compensarla con quelle passive, scaturendo da esse reciproci crediti, al fine della corretta applicazione della clausola contrattuale;

– che, in accoglimento del quarto motivo, la sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio alla corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, al fine di provvedere a tali valutazioni;

– che ad essa si demanda anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, respinti il primo ed il secondo ed dichiarato inammissibile il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021

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