Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.25562 del 21/09/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3598-2019 proposto da:

P.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato FABIO MARIA SARRA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA, *****, MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, *****, MINISTERO DELLA SALUTE *****, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4247/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO ROSSETTI.

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2014 P.L. convenne dinanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, il Ministero della Salute ed il Ministero dell’economia, esponendo che:

-) dopo avere conseguito la laurea in medicina, si era iscritto ad una scuola di specializzazione;

-) durante il periodo di specializzazione non aveva percepito alcuna remunerazione o compenso da parte della scuola stessa;

-) le direttive comunitarie n. 75/362/CEE e 75/363/CEE, così come modificate dalla Direttiva 82/76/CEE, avevano imposto agli Stati membri di prevedere che ai frequentanti le scuole di specializzazione fosse corrisposta una adeguata retribuzione;

-) l’Italia aveva dato tardiva e parziale attuazione a tali direttive solo con la L. 8 agosto 1991, n. 257.

Concluse pertanto chiedendo la condanna delle amministrazioni convenute al risarcimento del danno sofferto in conseguenza della tardiva attuazione delle suddette direttive.

2. Con sentenza 7.9.2017 n. 16771 il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo prescritto il diritto.

La suddetta sentenza fu appellata dal soccombente.

3. Con sentenza 20.6.2018 n. 4247 la Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame.

Ritenne la Corte d’appello che il credito vantato dall’attore, pur esistente, fosse soggetto al termine di prescrizione decennale decorrente dall’entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 372, avvenuta il 27.10.1999, in applicazione dei principi stabiliti da questa Corte con la sentenza Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6606 del 20/03/2014.

3. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.L., fondato su due motivi.

Ha resistito con controricorso la presidenza del Consiglio dei Ministri. Ambo le parti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente, pur formalmente prospettando il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e quello di violazione di legge, nella sostanza deduce che la sentenza impugnata sarebbe immotivata, perché estremamente stringata e perché si limita “a richiamare pedissequamente la sentenza della Corte di cassazione 6606/14”.

1.1. Il motivo è infondato.

La motivazione della sentenza impugnata è chiarissima: il credito vantato dall’attore è prescritto perché la prescrizione ha iniziato a decorrere dall’entrata in vigore della L. n. 370 del 1999.

Resta solo da aggiungere, da un lato, che costituendo nel caso di specie l’exordium praescriptionis una questione di diritto e non di fatto, è addirittura inconcepibile il vizio di motivazione, dal momento che per le questioni di diritto quel che rileva è la correttezza del dispositivo, non l’esaustività della motivazione; e dall’altro lato che l’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1 consente che la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali possa limitarsi al riferimento a precedenti conformi.

2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2935 c.c. nonché, generalmente, “della direttiva comunitaria 2005/36”. Nella illustrazione del motivo si deduce, in buona sostanza, che erroneamente la Corte d’appello avrebbe ravvisato l’exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno da tardiva attuazione della direttiva comunitaria 82/76 dall’entrata in vigore della L. n. 370 del 1999.

Deduce che il diritto risarcitorio ha iniziato a prescriversi solo dal momento in cui è cessato l’inadempimento dello Stato agli obblighi imposti dalle direttive sul reciproco riconoscimento dei diplomi di specializzazione; che tale obbligo è cessato soltanto quando le direttive sono state abrogate; che quelle direttive sono state abrogate dalla direttiva 2005/36 del 7 settembre 2005, entrata in vigore il 20 ottobre 2007.

Secondo il ricorrente, pertanto, solo da tale data il suo diritto al risarcimento ha iniziato a prescriversi.

2.1. Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., alla luce del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui “il diritto al risarcimento del danno da tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno – realizzata solo con il D.Lgs. n. 257 del 1991 – delle direttive n. 751362/ CEE e n. 821761 CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, si prescrive, per coloro i quali avrebbero potuto fruire del compenso nel periodo compreso tra il 1 gennaio 1983 e la conclusione dell’anno accademico 1990-1991, nel termine decennale decorrente dalla data di entrata in vigore (27 ottobre 1999) della L. n. 370 del 1999, il cui art. 11 ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore di quanti, tra costoro, risultavano beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo” (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16452 del 19/06/2019, Rv. 654419 – 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3010 del 9.2.2021; Sez. L, Ordinanza n. 18961 del 11/09/2020; Sez. 6 L, Ordinanza n. 14112 del 07/07/2020; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13281 del 1/07/2020; Sez. 3 -, Ordinanza n. 1589 del 24/01/2020; Sez. 3 -, Ordinanza n. 13758 del 31/05/2018, Rv. 649044 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 23199 del 15/11/2016, Rv. 642976 -01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6606 del 20/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 16104 del 26/06/2013, Rv. 626903 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17868 del 31/08/2011, Rv. 619357 – 01).

2.2. Il ricorso prescinde del tutto dal suddetto orientamento, non si fa carico delle motivazioni poste a fondamento di esso, e non spende alcun argomento per superarle.

E’ opportuno in ogni caso aggiungere, a fronte di talune erronee affermazioni contenute nel ricorso (ad esempio, quella secondo cui il suddetto orientamento giurisprudenziale sarebbe “irragionevole” perché farebbe decorrere la prescrizione “dalla percezione dell’adempimento, quindi da un elemento incerto non a carattere oggettivo bensì di estrazione tipicamente soggettiva”) che l’inadempimento dello Stato all’obbligo di prevedere la remunerazione dei frequentanti le scuole di specializzazione non fu mai né dubitabile, né incerto.

Come noto la (allora) Comunità Europea nel 1975 volle dettare norme uniformi per “agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servii di medico”, e lo fece con due direttive coeve: la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE, ambedue del 16.6.1975.

La prima sancì l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere l’efficacia giuridica dei diplomi rilasciati dagli altri Stati membri per l’esercizio della professione di medico; la seconda dettò i requisiti minimi necessari affinché il suddetto riconoscimento potesse avvenire, tra i quali la durata minima del corso di laurea e la frequentazione a tempo pieno di una “formazione specializzata”. L’una e l’altra di tali direttive vennero modificate qualche anno dopo dalla Direttiva 82/76/CEE del Consiglio, del 26 gennaio 1982.

L’art. 13 di tale ultima direttiva aggiunse alla Direttiva 75/363/CEE un “Allegato”, contenente le “caratteristiche della formazione a tempo pieno (..) dei medici specialisti”.

L’art. 1, comma 3, ultimo periodo, di tale allegato sancì il principio per cui la formazione professionale “forma oggetto di una adeguata remunerazione”.

La direttiva 82/76/CEE venne approvata dal Consiglio il 26.1.1982; venne notificata agli Stati membri (e quindi entrò in vigore) il 29.1.1982, e venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n. L43 del 15.2.1982; l’art. 16 della medesima direttiva imponeva agli Stati membri di conformarvisi “entro e non oltre il 31 dicembre 1982”.

Dinanzi ad un quadro normativo così limpido, mai si sarebbe potuto dubitare che:

(a) l’ordinamento comunitario. attribuì ai medici specializzandi il diritto alla retribuzione in modo chiaro ed inequivoco a far data dal 29.1.1982 (e dunque la direttiva era un c.d. acte claire);

(b) altrettanto chiara ed inequivoca era la previsione secondo cui gli Stati membri avevano tempo sino al 31.12.1982 dello stesso anno per dare attuazione al precetto comunitario;

(c) che lo Stato italiano non avesse rispettato tale obbligo, pertanto, era questione non dubitabile, non discutibile, non opinabile, e risultante per di più prima facie.

Del resto, la Corte di giustizia dell’Unione Europa già ventuno anni fa, e 14 anni prima dell’introduzione del primo grado del presente giudizio, aveva inequivocabilmente stabilito che “l’obbligo di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione (..) dei medici specialisti (…) è incondizionato e sufficientemente preciso” (Corte giust. CE, 3.10.2000, Goua, in causa C371/97, p. 34).

E’ dunque insostenibile la tesi invocata dal ricorrente, secondo cui in subiecta materia egli non avrebbe potuto sapere né di avere un diritto scaturente dall’ordinamento comunitario, né che quel diritto venne violato dallo Stato italiano.

3. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) condanna P.L. alla rifusione in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 5.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 6 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472