LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16667-2020 proposto da:
T.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato MARISA SCISCIO, per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
IMPRESA EDILE “SANTA MARIA”;
– intimata –
avverso la SENTENZA n. 2147/2019 della CORTE D’APPELLO DI BARI, depositata il 17/10/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 29/4/2021 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello che T.M. aveva proposto nei confronti della sentenza con la quale il tribunale lo aveva condannato al pagamento, in favore dell’impresa edile “Santa Maria”, della somma di Euro 51.231,34, oltre iva e interessi, quale differenza tra il valore delle opere realizzate dall’impresa, in qualità di appaltatrice, ed il compenso che lo stesso, in qualità di committente, aveva già pagato, rigettando le domande riconvenzionali, proposte da quest’ultimo, di risoluzione del contratto d’appalto e di conseguente condanna dell’appaltatrice alla restituzione di quanto ricevuto a titolo di corrispettivo ed al risarcimento dei danni.
La corte, in particolare, ha, innanzitutto, escluso che il tribunale avesse accolto una domanda di adempimento che l’attrice non aveva mai proposto, evidenziando che l’indicazione dell’adempimento” costituiva palesemente un mero refuso, avendo il giudice motivato in termini di comparazione della gravità dei rispettivi inadempimenti al fine di pronunciare sulle reciproche domande di risoluzione implicitamente o esplicitamente proposte dalle parti. D’altra parte, anche nel dispositivo, pur mancando una declaratoria di risoluzione, la statuizione sulla condanna, riportata al residuo da pagare, è strettamente connessa ad una risoluzione e non già ad un adempimento mai richiesto. Ed infatti, in caso di risoluzione del contratto di appalto che consegua all’inadempimento del committente e non sia configurabile la restituzione in natura all’impresa appaltatrice della costruzione, parzialmente eseguita, il contenuto dell’obbligo restitutorio a carico della committente va determinato in relazione all’ammontare del corrispettivo originariamente pattuito, sulla cui base l’appaltatrice si è determinata a concludere il contratto, comprensivo dell’importo dovuto per revisione prezzi se pattiziamente previsto, che fa parte del corrispettivo pattuito. Pertanto, ha concluso la corte, sebbene il riferimento al residuo prezzo sia improprio, il parametro attraverso il quale calcolare l’equivalente pecuniario della restitutio in integrum, che spetta all’appaltatore anche nel caso in cui la risoluzione per colpa dello stesso, può ben essere il corrispettivo originariamente pattuito.
La corte, poi, ha osservato che, a fronte di reciproche e contrapposte domande di risoluzione per inadempimento, l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., recede, dovendo il giudice procedere alla comparazione necessaria della gravità dei reciproci inadempimenti dedotti secondo l’ordinario onere della prova. Il giudice, a tal fine, deve stabilire la violazione più grave, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto, per accertare quale di esse si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale. La corte, al riguardo, dopo aver evidenziato, per un verso, che i rilievi esposti nell’atto d’appello a sostegno della gravità dell’altrui inadempimento sono meramente ripetitivi di quanto già sostenuto dal convenuto in primo grado senza che l’appellante abbia formulato specifici e adeguati rilievi o censure a quanto argomentato sul punto dal consulente tecnico d’ufficio, e, per altro verso, che l’affermazione dell’appellante secondo cui lo stesso avrebbe pagato l’80% della somma pattuita non è corretta non avendo considerato che il preventivo di un appalto a misura e quindi suscettibile di modifiche era espressamente indicato al netto di iva e che estata prevista e autorizzata una variante costituita da un piano in più al fabbricato, ha ritenuto che la gravità dell’inadempimento deve essere determinata non solo alla luce del corrispettivo pagato ma anche del rapporto tra quanto già pagato ed il residuo valore dell’opera realizzata, detenuta ed in ogni caso non restituibile: e tale differenza e’, nel caso di specie, pari ad Euro 51.231,34 in favore dell’impresa a fronte di lavori necessari per ripristinare le opere viziate di soli Euro 4.715,00.
T.M., con ricorso notificato in data 9/6/2020, ha chiesto, per tre motivi, la cessazione della sentenza.
L’impresa edile “Santa Maria” è rimasta intimata.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato previsto dall’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di ravvisare il vizio di ultrapetita in cui era incorsa la sentenza di primo grado ritenendo che l’utilizzazione del termine “adempimento” in luogo di “inadempimento” era stato la conseguenza di un mero refuso, senza, tuttavia, considerare che l’attrice non aveva chiesto l’adempimento del contratto ma al contrario la declaratoria della sua risoluzione.
1.2. Il motivo è infondato. Il ricorrente, infatti, senza negare che l’attore avesse richiesto la risoluzione del contratto e non il suo (residuo) adempimento, non si confronta realmente con la sentenza impugnata: la quale, in effetti, lungi dall’accogliere la domanda di adempimento ha, come rilevato dalla corte d’appello (la cui sentenza, in ogni caso, sostituendo la decisione impugnata, colma definitivamente la corrispondente omissione contenuta nella prima), (implicitamente ma inequivocamente), pronunciato la risoluzione del contratto d’appalto, condannando il committente alla restitutio in integrum: solo che, in caso di risoluzione del contratto di appalto che consegua all’inadempimento del committente e non sia configurabile la restituzione in natura all’impresa appaltatrice della costruzione, parzialmente eseguita, il contenuto dell’obbligo restitutorio a carico della committente va determinato, come ha fatto il tribunale, in relazione all’ammontare del corrispettivo originariamente pattuito, sulla cui base l’appaltatrice si è determinata a concludere il contratto, comprensivo dell’importo dovuto per revisione prezzi se pattiziamente previsto, che fa parte del corrispettivo pattuito (in tal senso, Cass. n. 12162 del 2007; Cass. n. 738 del 2007; Cass. n. 15705 del 2013).
2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, a fronte di reciproche e contrapposte domande di risoluzione per inadempimento, l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., recede, dovendo il giudice procedere alla comparazione necessaria della gravità dei reciproci inadempimenti dedotti secondo l’ordinario onere della prova, senza, tuttavia, considerare che, in ipotesi di eccezione d’inadempimento, sia con riferimento al termine di ultimazione dei lavori, non rispettato, sia con riferimento alla realizzazione dei lavori secondo le regole dell’arte, per i numerosi vizi e difformità dell’opera realizzata, l’attore non aveva formulato alcuna controdeduzione né in fatto né in diritto.
2.2. Il motivo è infondato. Anche qui il ricorrente non si confronta con la sentenza impugnata. La corte d’appello, infatti, a fronte delle reciproche e contrapposte domande di risoluzione per inadempimento proposte dalle parti, ha ritenuto che il giudice deve procedere alla comparazione necessaria della gravità dei reciproci inadempimenti dedotti secondo l’ordinario onere della prova e che, a tal fine, deve stabilire la violazione più grave al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti (tenuto conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto), si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale. La corte, così facendo, si è attenuta al principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo il quale, nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche, il giudice di merito è tenuto a formulare un giudizio (incensurabile in sede di legittimità se, come nel caso in esame, correttamente motivato) di comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti (tenuto conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto), si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (Cass. n. 13840 del 2010: Cass. n. 18320 del 2015).
3.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1455 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, a fronte di contrapporte eccezioni di inadempimento, il giudice procedere alla comparazione necessaria della gravità dei reciproci inadempimenti senza, tuttavia, valutare, come imposto dall’art. 1455 c.c., la gravità degli inadempimenti commessi dalle parti. La norma predetta, infatti, subordina espressamente l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto alla sussistenza dell’imprescindibile presupposto, che il giudice deve accertare anche d’ufficio, che l’inadempimento sia rilevante, e cioè tale da compromettere irrimediabilmente l’equilibrio sinallagmatico del rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti.
3.2. Il motivo è infondato. Il ricorrente ancora una volta non si confronta con la sentenza che ha impugnato: la quale, in effetti, dopo aver evidenziato che la gravità dell’inadempimento deve essere determinata non solo alla luce del corrispettivo pagato ma anche del rapporto tra quanto già pagato ed il residuo valore dell’opera realizzata, detenuta ed in ogni caso non restituibile, ha ritenuto, con statuizione rimasta del tutto incensurata, che, nel caso in esame, tale differenza fosse tutta a favore dell’impresa appaltatrice posto che le opere eseguite e non pagate ammontano ad Euro 51.231,34 laddove i lavori necessari per ripristinare le opere viziate sono pari ad Euro 4.715,00.
4. Il ricorso dev’essere, quindi, respinto. Peraltro, poiché il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.
5. Nulla per le spese di lite, in mancanza di attività di difensiva da parte dell’intimata.
6. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 29 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021
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