Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.25857 del 23/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20943/2016 proposto da:

M.A.M., rappresentata e difesa dagli Avvocati VITTORIO DI MEGLIO, e PASQUALE PACIFICO, ed elettivamente domiciliata, presso lo studio del primo, in ISCHIA, VIA delle GINESTRE 28;

– ricorrente –

contro

P.M. e eredi di M.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2837/2015 della CORTE d’APPELLO di NAPOLI pubblicata il 22/06/2015.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 31/03/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 26.6.2001, M.A.M. conveniva in giudizio M.G. esponendo che, con atto per notar B. del 20.5.1982, l’attrice aveva ricevuto in donazione dalla madre A.L. i diritti pari a 500/1000 su un fabbricato di quattro stanze, accessori, balconi e terrazzini antistanti, al primo piano, con la proprietà esclusiva dei corrispondenti lastrici solari, sito in *****; che con atto di divisione fra tutti gli aventi diritto, rogato in pari data, erano stati attribuiti alla medesima gli altri 500/1000 della proprietà, provenienti dalla successione del padre Mi.Gi.; che il fratello dell’attrice, G., in virtù dei medesimi atti, era divenuto a sua volta proprietario del fabbricato attiguo, in parte sottostante al precedente, al piano terra, con ampia corte antistante; che il convenuto aveva realizzato sul terrazzo di sua proprietà un’opera (tettoia) che non rispettava le caratteristiche previste nell’atto di divisione suddetto e che violava le distanze legali di cui all’art. 907 c.c.. L’attrice chiedeva che, previa dichiarazione della sussistenza delle violazioni denunciate, M.G. fosse condannato alla demolizione del manufatto realizzato, con arretramento alla distanza di m. 3 dalla propria veduta, nonché al risarcimento dei danni.

Si costituiva in giudizio M.G., il quale contestava la fondatezza di quanto dedotto; sosteneva che con la divisione del 1982 inter partes queste avevano concordato di derogare alle distanze legali e che i patti di quell’accordo non erano stati violati, in quanto gli stessi erano nulli nella parte in cui prevedevano l’obbligo del convenuto di realizzare opere edilizie in spregio della normativa urbanistica; affermava che l’intervento edilizio era stato assentito dall’attrice, per cui, in caso di eventuale accoglimento della domanda, quest’ultima avrebbe dovuto essere condannata a risarcire i danni consistenti negli esborsi sostenuti per realizzare l’opera contestata e poi provvedere alla sua demolizione.

Espletata CTU, con sentenza n. 442/2009, depositata in data 28.10.2009, il Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, così statuiva: 1) dichiarava che l’opera realizzata dal convenuto al di sotto della proprietà dell’attrice non rispettava le distanze legali di cui all’art. 907 c.c. e, per l’effetto, ordinava al convenuto di demolirla; 2) rigettava le altre domande dell’attrice; 3) rigettava la domanda riconvenzionale del convenuto; 4) condannava il convenuto al pagamento delle spese del giudizio ponendo a carico di quest’ultimo le spese di CTU.

Avverso la suddetta sentenza proponeva appello M.G., il quale chiedeva il rigetto della domanda attorea. Si costituiva M.A.M. chiedendo il rigetto del gravame e proponendo appello incidentale relativo alle spese di lite e alla condanna dell’appellante al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. e alla cancellazione delle espressioni contenute a pag. 6 dell’atto di appello.

All’udienza del 10.10.2014 era dichiarata l’interruzione del processo a seguito del decesso di M.G.. Alla riassunzione della causa provvedeva la stessa M.A.M. con ricorso del 27.10.2014, notificato con pedissequo decreto agli eredi di M.G., collettivamente e impersonalmente presso l’ultimo domicilio del defunto.

Si costituiva in giudizio la vedova P.M., la quale sosteneva di non avere ancora accettato l’eredità, così come i figli M.M., I. e D..

Con sentenza n. 2837/2015, del 22.06.2015, la Corte d’Appello di Napoli rigettava sia l’appello principale sia quello incidentale confermando la sentenza gravata.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione M.A.M. sulla base di tre motivi. Gli intimati non hanno svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi “dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 163 c.p.c.); violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione agli artt. 166 e 167 c.p.c.)”.

1.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell'”art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 460,474,476 e 485 c.c.”.

1.3. – Stante la loro stretta connessione logico-giuridica, i due motivi di ricorso vanno esaminati e decisi congiuntamente.

1.4. – Essi sono inammissibili.

2.1. – In particolare, la Corte territoriale riteneva che la previsione pattizia, interpretata alla luce dello stato dei luoghi e delle attribuzioni (che i condividenti avevano già deciso) delle quote della proprietà originariamente indivisa, fosse volta a porre limiti allo sfruttamento edificatorio della terrazza rientrante nella proprietà esclusiva di M.G., sottoposta all’appartamento e al balcone assegnato ad A.M.. Sicché l’area in questione avrebbe potuto essere edificata non solo avendo cura di lasciare libera una fascia di due metri destinata al passaggio della ricorrente, ma anche in modo da lasciare immutato il diritto di veuduta goduto dall’appartamento della medesima mediante l’estensione della proprietà di quest’ultima al lastrico dell’erigendo manufatto del fratello.

2.2. – Coerentemente, dunque, la Corte di merito convergeva con la conclusione della presenza nella specie di una servitus altius non tollendi a favore dell’appartamento della attrice, perfettamente compatibile con un’utilità di tipo architettonico (Cass. n. 21003 del 2019: secondo cui l’indagine sulla sussistenza, ad opera del proprietario del fondo servente, di atti di violazione o turbativa della servitù va condotta con riferimento all’estensione ed alle modalità di esercizio della servitù medesima, come fissate dal titolo costitutivo, e, pertanto, deve tenere conto anche delle specificazioni che tale titolo contenga in ordine alla utilitas, ove le stesse non abbiano mero valore indicativo, ma valgano a qualificare e delimitare il diritto.).

Peraltro, la domanda dell’attrice era di natura reale e non contrattuale, in quanto con essa M.A.M. aveva inteso ottenere il rispetto di un vincolo reale a favore del proprio appartamento, sia pure costituito in forza di contratto; sicché non si comprendeva per quale ragione avrebbe dovuto instare per l’adempimento del contratto, e cioè per rendere la costruzione del fratello G. conforme a quanto previsto ai fini del rispetto della suddetta servitù. Secondo il CTU la tettoia si palesava quale struttura fissa e come tale idonea a ostacolare stabilmente l’esercizio della inspectio e della prospectio.

Le pattuizioni con le quali vengono poste, a carico di un fondo ed a favore di altri, limitazioni di edificabilità, prevedendo l’imposizione agli acquirenti e loro aventi causa di vincoli, restringono permanentemente i poteri connessi alla proprietà dell’area gravata, attribuendo al fondo vicino un corrispondente vantaggio che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema della servitù, senza che siffatto carattere vanga meno qualora le parti non la menzionino espressamente (Cass. n. 14580 del 2012).

2.3. – Circa l’accettazione dell’eredità da parte della P. (la quale, del resto, era entrata anche nel merito del giudizio) si evidenziava che quest’ultima, nel costituirsi, aveva eccepito di non avere ancora accettato l’eredita e che aveva tempo 10 anni dall’apertura della successione, salvo che l’appellata non si fosse rivolta al Giudice per far assegnare un termine entro il quale rendere la dichiarazione di cui all’art. 481 c.c.. Tuttavia, la medesima aveva insistito sull’impugnazione del de cuius, condividendola nei motivi ed eccependo che l’azione a difesa del diritto di veduta era caduta in prescrizione. L’appellata aveva dimostrato che la P. era da considerare erede pura e semplice, essendoci la prova in atti che si trovava nel possesso dei beni ereditari: infatti, la citazione ex art. 303 c.p.c. e poi l’atto di riassunzione le furono notificati personalmente nell’ultimo domicilio del de cuius.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, per la quale la situazione di possesso di beni ereditari da parte del chiamato, quale prevista dall’art. 485 c.c., richiede solo una mera relazione materiale tra i beni e il chiamato, incombendo su quest’ultimo l’onere di provare la materiale impossibilità di esercitare il possesso dei beni (conf. Cass. n. 7076 del 1995, secondo cui l’onere imposto dall’art. 485 c.c., al chiamato all’eredità che si trovi nel possesso di beni ereditari di fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia di essa condiziona non solo la facoltà del chiamato di accettare l’eredità con beneficio di inventario ex art. 484 c.p.c., ma anche quella di rinunciare all’eredità, ai sensi del successivo art. 519, in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, dovendo il chiamato, allo scadere del termine stabilito per l’inventario, essere considerato erede puro e semplice).

Decisiva era dunque la circostanza che la P. non avesse fornito la prova di aver fatto l’inventario nei tre mesi dal giorno dell’apertura della successione, per cui doveva essere considerata erede pura e semplice. Del resto, la medesima era entrata anche nel merito del giudizio, il che non sarebbe stato nei poteri del chiamato non accettante che non fosse nel possesso di beni ereditari.

3.1. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell'”art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: violazione degli artt. 342,112 e 113 c.p.c., art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione degli artt. 10,12 e 15 c.p.c.; violazione dell’art. 91 c.p.c. e della L. n. 794 del 1942, artt. 9 e 24", poiché la Corte d’appello, a fronte del deposito della nota specifica nel primo grado e della specifica impugnazione dell’attività omissiva del primo Giudice, avrebbe dovuto provvedere a rideterminare gli onorari e i diritti effettivamente spettanti, applicando alle singole voci indicate nella nota gli importi corrispondenti in base alla fascia tariffaria di appartenenza della causa, anziché limitarsi a una conferma della statuizione di primo grado (Cass. n. 21325 del 2005); e ciò analogamente per quanto attiene alle spese.

3.2. – Giova innanzitutto ricordare che la condanna alle spese processuali non trova il suo fondamento in un credito risarcitorio, ma trova la sua ragione nella volontà del legislatore di evitare che le spese sostenute dalla parte vittoriosa gravino su di essa; il legislatore ha quindi individuato nella parte soccombente quella tenuta a sostenere il relativo onere, salvo tuttavia i giusti motivi di cui all’art. 92 c.p.c., che costituiscono l’applicazione di un principio di equità risalente nel tempo.

Per costante orientamento di questa Corte, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese.

Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di Cassazione e’, pertanto, limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa (fenomeno che non si è verificato nel caso in esame), con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass. n. 19613 del 2017; cfr. ex plurimis Cass. n. 18128 del 2020).

Peraltro, anche il giudizio sulla sussistenza dei giusti motivi per la compensazione delle spese processuali, è rimesso al giudice di merito ed è di norma incensurabile in sede di legittimità, a meno che la motivazione che lo sorregge non sia illogica, tautologica, inesistente o meramente apparente (Cass. n. 17186 del 2019).

Ritenuto dunque che ai fini della condanna alle spese di giudizio la valutazione di soccombenza vada sempre rapportata all’esito finale della lite (Cass. n. 17854 del 2020; Cass. n. 18125 del 2017), nel caso di specie, il ricorrente non ha neppure prospettato che i limiti massimi di quantificazione delle spese siano stati superati, ritenendo la liquidazione, seppure irrazionale, comunque “aderente agli importi indicati dalla cennata normativa” (Cass. n. 21325 del 2005).

Nel sistema di regolamento delle spese processuali previgente alla sostituzione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, ad opera della L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2 (applicabile, per effetto della proroga, disposta dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, art. 39-quater, convertito con la L. 23 febbraio 2006, n. 51, del termine inizialmente fissato al 1 gennaio 2006, ai procedimenti instaurati successivamente alla data del 1 marzo 2006, mentre nel caso di specie l’atto introduttivo del giudizio di primo grado è stato notificato il 26.06.2001), che ha introdotto la previsione dell’obbligo di esplicitazione dei “giusti motivi” sui quali si fonda la compensazione delle spese, trova applicazione il principio secondo il quale la relativa statuizione è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione di legge, quale si verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al divieto stabilito dall’art. 91 c.p.c., le stesse venissero poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 24495 del 2006); che la valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella della sussistenza di giusti motivi, e il giudice può compensare le spese processuali per giusti motivi senza obbligo di specificarli, atteso che l’esistenza di ragioni che giustifichino la compensazione va posta in relazione e deve essere integrata con la motivazione della sentenza e con tutte le vicende processuali, stante l’inscindibile connessione tra lo svolgimento della causa e la pronuncia sulle spese medesime, non trovando perciò applicazione in tema di compensazione per giusti motivi il principio sancito dall’art. 111 Cost., comma 6; che dunque esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 2149 del 2014; Cass. n. 15317 del 2013).

4. – Il ricorso va quindi rigettato. L’oggettiva opinabilità delle questioni affrontate e l’oscillante soluzione ad esse data nel corso del giudizio integra la nozione dei giusti motivi (connessa al particolare atteggiamento soggettivo tenuto da entrambe le parti quali fratello e sorella, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che li hanno indotti ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento (26.6.2001) in cui la lite è stata introdotta (Cass. sez un. 2572 del 2012; Cass. n. 2883 del 2014)) consente di compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 31 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

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