LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al NRG 10444-2016 proposto da:
F.G., in proprio e quale erede di S.A., nonchè F.F.M., F.M.A. e F.P., quali eredi di S.A., rappresentati e difesi dagli Avvocati Alberto Capello, e Camillo Ungari Trasatti, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Arno, n. 88;
– ricorrenti –
contro
FI.Ce., rappresentato e difeso dagli Avvocati Alessandro Botti, Quirino Ghisio Erba e Manuela Rosso, con domicilio eletto presso lo studio degli Avvocati Alessandro Botti e Quirino Ghisio Erba in Roma, via Giuseppe Ferrari, n. 4;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Torino n. 1871/2015 pubblicata il 26 ottobre 2015;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti.
FATTI DI CAUSA
1. – Pronunciando sulle contrapposte domande, principale degli attori F.G. e S.A. e riconvenzionale del convenuto Fi.Ce., il Tribunale di Cuneo, con sentenza in data 26 giugno 2012, accogliendo la domanda principale, ha dichiarato trasferito, in favore degli attori, in forza del contratto preliminare del 12 gennaio 2010, ai sensi dell’art. 2932 c.c., l’immobile sito in *****, subordinandone gli effetti al pagamento, a cura della parte acquirente, del residuo prezzo, quantificato in Euro 221.440, tenuto conto degli acconti versati dagli acquirenti e di quelli in parte già loro restituiti dal venditore, e ha respinto la domanda riconvenzionale, con cui il convenuto aveva chiesto accertarsi la legittimità del recesso già operato e l’intervenuta risoluzione del contratto per fatto e colpa dei promissari acquirenti, con il conseguente diritto a trattenere la caparra confirmatoria.
2. – La Corte d’appello di Torino ha deciso il gravame principale del F. e della S. e il gravame incidentale del Fi. con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 ottobre 2015.
Con tale sentenza la Corte d’appello, in riforma della pronuncia di primo grado, ha così provveduto: ha eliminato la statuizione di trasferimento dell’immobile per cui è causa, di cui al contratto preliminare in data 12 gennaio 2010, non trascritto, a favore del F. e della S., e ogni conseguente statuizione (e ciò, ricorrendo una condizione ostativa alla pronuncia di trasferimento del bene, rappresentata dal fatto che il nuovo preliminare, trascritto in data 8 marzo 2011, aveva già avuto piena esecuzione tra il Fi. ed il terzo acquirente, con il rogito notaio A. in data 18 dicembre 2013); ha dichiarato risolto il contratto preliminare per fatto e colpa del promittente venditore Fi.; ha condannato il Fi. alla restituzione in favore dei promissari acquirenti della caparra di Euro 20.800, oltre ad interessi legali dalla domanda al saldo; ha dato atto dell’avvenuta e incontestata restituzione ai promissari acquirenti degli acconti versati e ha respinto la domanda di restituzione in favore degli appellanti principali della ulteriore somma di Euro 15.000.
2.1. – Per quanto qui ancora rileva, la Corte di Torino, in relazione alle somme pagate dai promissari acquirenti in acconto e ancora dovute in restituzione dal Fi. a seguito della dichiarata risoluzione, ha premesso che il calcolo e il totale di tali somme, esposti dagli appellanti in via principale, coincidono solo parzialmente con quanto risulta in atti, e ha ritenuto pacifico, per averlo attestato lo stesso appellato, che gli attori hanno versato al Fi. sia la caparra confirmatoria di Euro 20.800, sia successivi acconti per complessivi Euro 52.000.
Tanto premesso, la Corte d’appello ne ha desunto che tutti gli acconti indicati versati dal F. e dalla S., per Euro 52.000, con l’operata detrazione della fattura n. ***** di Euro 21.560, non contestata, e pertanto per la residua somma di Euro 30.440, sono stati debitamente restituiti ai promissari acquirenti dal Fi. con la comunicazione, del 17 febbraio 2011, recante l’esercizio del diritto di recesso.
La Corte territoriale ha escluso di potere accedere alla tesi degli appellanti, secondo cui tra gli acconti da considerare e da restituire vi sarebbe anche la somma di Euro 15.000 versata in due tranche, in contanti, dai promissari acquirenti. Secondo i giudici del gravame, non è sufficiente ad integrare la prova di siffatti versamenti in contanti la testimonianza del figlio degli attori, e ciò non solo sotto il profilo dell’attendibilità del medesimo, bensì in relazione al fatto che tale pagamento sarebbe da imputare, secondo le dichiarazioni del teste, a costi per lavori aggiuntivi di variante, che sono alla base dell’insorto contrasto e che non risultano affatto dimostrati, all’infuori dell’unica fattura n. ***** di Euro 21.560, già detratta dal Fi. dalle restituzioni operate, e su cui non vi è alcuna contestazione. La Corte d’appello ha poi escluso la verosimiglianza della ricostruzione operata dal teste, secondo cui i pagamenti in contanti indicati deriverebbero dalla monetizzazione di assegni rilasciati al Fi. e via via da questo restituiti agli acquirenti in cambio di pagamenti in nero di pari importo, rilevando che tali circostanze non hanno trovato alcun altro elemento di riscontro, e pertanto non possono ritenersi adeguatamente provate, tenuto conto, sul piano dell’attendibilità, che l’unica conferma di tale ricostruzione proviene da un teste legato da vincoli filiali con gli attori.
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Torino hanno proposto ricorso, con atto notificato il 22 aprile 2016, F.G., in proprio e quale erede di S.A., nonchè F.F.M., F.M.A. e F.P., quali eredi di S.A..
Il ricorso per cassazione è affidato a un motivo di censura.
Fi.Ce. ha resistito con controricorso.
4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con l’unico motivo i ricorrenti lamentano “violazione ed errata applicazione di norme di diritto: art. 1458 c.c.; impossibilità di ricostruzione, razionale, del ragionamento operato dal giudice a quo; lettura rovesciata (errata percezione del contenuto) delle parole costituenti la deposizione del teste F.F.; contraddittorietà ipotizzata: errata applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.; illogicità; omesso esame di circostanze decisive: art. 360 c.p.c., n. 5; errore revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4”.
Con il motivo ci si duole che la Corte d’appello abbia negato la restituzione, in conseguenza della risoluzione del preliminare per inadempimento del contraente infedele, (a) di Euro 15.000 corrisposta dagli attori in contanti nonchè (b) di Euro 21.560 di cui alla fattura n. *****.
1.1. – In ordine alla mancata restituzione della somma di Euro 15.000, i ricorrenti lamentano che la lettura delle dichiarazioni del teste F.F. sarebbe stata “capovolta” e che la Corte territoriale vi avrebbe letto che la somma di Euro 15.000 sarebbe stata versata a fronte dell’esecuzione di lavori extra capitolato, anzichè a titolo di parte del prezzo come predeterminato in sede di stipulazione del contratto preliminare e da corrispondersi in contanti previa consegna di un assegno a garanzia del pagamento del corrispondente importo di Euro 50.000.
Ad avviso dei ricorrenti, il ragionamento seguito dalla Corte d’appello sarebbe viziato dalla supposizione di un fatto la cui verità è esclusa dai documenti di causa e dal mancato esame dei documenti di causa.
Sotto il primo profilo si osserva che il teste F. ha riferito che a fronte del versamento in contanti, il primitivo assegno di Euro 50.000 (quota parte del prezzo pattuito) veniva sostituito da altro assegno (non di “pari” importo, come ritenuto dalla Corte d’appello incorrendo in errore revocatorio, ma) di importo corrispondente al debito residuo. A riprova ed a riscontro della deposizione – deducono i ricorrenti – vi sarebbe in atti l’assegno di parte attrice di Euro 39.000 compilato dal teste F. e consegnato in occasione del versamento della somma in contanti di Euro 11.000 e contestuale restituzione di quello iniziale di Euro 50.000. Tale secondo assegno sarebbe stato restituito in occasione del versamento della somma di Euro 4.000 e contestuale consegna di altro titolo per Euro 35.000.
La “lettura ribaltata” della deposizione del teste F. avrebbe impedito alla Corte territoriale di comprendere anche che i versamenti in contanti (Euro 11.000 e 4.000) non costituivano pagamenti per lavori extra capitolato, ma erano parte del prezzo convenuto al momento della sottoscrizione del preliminare.
1.2. – Quanto alla mancata restituzione della somma di Euro 21.560, che la Corte d’appello ha ritenuto corrispondente a lavori extra contratto eseguiti dallo stesso Fi., i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata si sarebbe discostata dall’orientamento secondo cui la fattura, stante la sua natura partecipativa, non consente da sola di provare l’esecuzione della prestazione in essa descritta. Secondo i ricorrenti, non vi sarebbe “nulla in atti che consenta di arguire che il convenuto abbia eseguito i generici lavori extra capitolato descritti nel documento”; inoltre, vi sarebbe contraddizione nel ragionamento seguito, perchè la Corte d’appello da un lato subordina il pagamento per lavori extra capitolato alla condizione della previa redazione dei relativi preventivi di spesa, dall’altro, pur nella loro assenza, ne afferma la debenza sottraendoli quindi alla restituzione.
2. – La complessiva censura è, sotto entrambi i profili in cui si articola, infondata e, in parte, inammissibile.
3. – Con riferimento alla deposizione del teste F.F.M., in esito alla cui valutazione la Corte piemontese ha escluso la restituzione della somma di Euro 15.000 per averne negato il versamento dalla parte promissaria acquirente, i ricorrenti per cassazione lamentano che i giudici di appello abbiano “capovolto” la lettura delle dichiarazioni rese dal teste.
La Corte territoriale ha preso in esame la questione del fatto decisivo e controverso se “tra gli acconti da considerare e da restituire” vi fosse “anche la somma di Euro 15.000 versata in due tranche, in contanti, dagli acquirenti”, e l’ha risolta negativamente.
Come risulta dalle pagine 33 e 34 della sentenza, la Corte ha così motivato: “non appare sufficiente ad integrare la prova di siffatti versamenti in contanti, la testimonianza di Fi. (recte F.) F., figlio degli attori, non solo sotto il profilo dell’attendibilità del medesimo, bensì in relazione al fatto che tale pagamento sarebbe da imputare, secondo le dichiarazioni del teste, a costi per lavori aggiuntivi di variante, che sono alla base dell’insorto contrasto, e che non risultano affatto dimostrati… all’infuori dell’unica fattura n. *****… E’ poi da escludere il giudizio di verosimiglianza della ricostruzione operata dal teste…, secondo cui i pagamenti in contanti indicati deriverebbero dalla monetizzazione di assegni rilasciati al Fi. e via via da questo restituiti agli acquirenti in cambio di pagamenti in nero di pari importo. Tali circostanze non hanno però trovato alcuni altro elemento di riscontro, e pertanto non possono ritenersi adeguatamente provate, tenuto conto, sul piano dell’attendibilità, che l’unica conferma di tale ricostruzione proviene da un teste legato da vincoli finali con gli attori”.
Tanto premesso, non risulta innanzitutto configurabile il lamentato capovolgimento della prova sotto il profilo del riferimento all’esecuzione di lavori extra capitolato, che – si assume – non comparirebbe nel testo della deposizione testimoniale.
Invero, risulta dal testo della deposizione, trascritto dai ricorrenti, che il teste F. si è riferito ad un immobile “da costruirsi da parte del Sig. Fi.Ce.”, al “maggiore importo rispetto a quanto indicato nella scrittura privata a titolo di prezzo” e ad un assegno “che sarebbe stato monetizzato in corso d’opera”.
Non sussiste la lamentata contraddizione dell’informazione utilizzata dal giudice ai fini della decisione con la deposizione testimoniale del F., rientrando nella valutazione della prova rimessa al giudice del merito ravvisare, nel riferimento compiuto dal teste alla monetizzazione dell’assegno “in corso d’opera”, un richiamo ai costi per lavori aggiuntivi per un immobile da costruirsi da parte del promittente venditore.
D’altra parte ed in ogni caso, appare dirimente il rilievo che i giudici di appello hanno dimostrato di avere bene compreso il meccanismo riferito dal teste F., secondo cui i pagamenti in contanti indicati deriverebbero dalla monetizzazione di assegni rilasciati al Fi. e via via da questo restituiti agli acquirenti in cambio di pagamenti in nero.
Si tratta di una ricostruzione che si appalesa corrispondente alla deposizione testimoniale, nella quale, con riguardo all’assegno di Euro 50.000, “relativo al maggiore importo rispetto a quanto indicato nella scrittura privata a titolo di prezzo dell’immobile”, il teste riferì che “l’impegno assunto in quella occasione era che l’importo portato da quell’assegno da Euro 50.000 sarebbe stato monetizzato in corso d’opera attraverso la consegna di contanti da parte degli acquirenti previa restituzione di quel titolo ed emissione di altri assegni per la differenza non pagata in contanti”.
Ed è proprio avuto riguardo a detta ricostruzione, concernente l’effettuazione di versamenti in contanti, che la Corte d’appello – procedendo ad una ponderata valutazione di merito, qui non ulteriormente sindacabile – ha escluso la “verosimiglianza” di quanto dichiarato dal teste: sia perchè le circostanze riferite “non hanno… trovato alcun altro elemento di riscontro”; sia perchè, “sul piano dell’attendibilità”, “l’unica conferma di tale ricostruzione proviene da un teste legato da vincoli filiali con gli attori”.
Ora, i ricorrenti si dolgono che la Corte di Torino, discorrendo di assegni via via restituiti dal Fi. agli acquirenti “in cambio di pagamenti in nero di pari importo”, sia incorsa in un errore di apprezzamento comportante la “revocazione della sentenza” ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4), “per essere la decisione della Corte territoriale fondata sulla supposizione di un fatto (restituzione di assegno di pari importo rispetto al corrispondente quantitativo di denaro consegnato in contanti) incontestabilmente escluso dai documenti di causa che certificano invece che l’assegno restituito non fosse di importo pari al versamento in contanti ma di importo corrispondente al residuo debito della quota parte del prezzo da corrispondersi in contanti”.
Sennonchè, una censura così articolata non può trovare ingresso, giacchè, qualora una parte assuma che la sentenza di secondo grado, impugnata con ricorso ordinario per cassazione, è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti del giudizio di merito, il ricorso è inammissibile, essendo denunziato un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere, sussistendone i presupposti, solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall’art. 395 c.p.c. (Cass., Sez. III, 27 maggio 2005, n. 11276; Cass., Sez. III, 27 aprile 2010, n. 10066; Cass., Sez. VI-Lav., 20 aprile 2015, n. 7941).
Per altro verso, i ricorrenti censurano che il ragionamento seguito dalla Corte d’appello sarebbe viziato in radice da un mancato esame dei documenti di causa, giacchè – si sostiene – a riprova ed a riscontro della deposizione vi sarebbero in atti l’assegno di Euro 39.000 (compilato dal F. e consegnato in occasione del versamento della somma in contanti di Euro 11.000 e contestuale restituzione di quello iniziale di Euro 11.000) nonchè l’assegno di Euro 35.000 (consegnato in occasione della restituzione dell’assegno di Euro 39.000 e contestuale versamento della somma di Euro 4.000).
Ma, sotto questo profilo, la doglianza investe la valutazione della risultanza della prova testimoniale e dell’attendibilità del teste, figlio degli attori, e, come tale, involge apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Va qui ribadito che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l’esame delle deposizioni dei testimoni nonchè la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., Sez. lav., 15 luglio 2009, n. 16499; Cass., Sez. li, 23 maggio 2014, n. 11511; Cass., Sez. I, 2 agosto 2016, n. 16056; Cass., Sez. VI-3, 4 luglio 2017, n. 16467; Cass., Sez. VI-5, 7 dicembre 2017, n. 29404).
4. – Quanto alla mancata restituzione della somma di Euro 21.560, la Corte d’appello ha accertato che l’importo non dovesse essere restituito in quanto corrispondente alla fattura n. ***** per i lavori extra contratto eseguiti dallo stesso Fi..
Tale valutazione sarebbe, ad avviso dei ricorrenti: contrastante con l’orientamento che esclude che la fattura sia di per sè sufficiente a fornire la prova dell’esecuzione della prestazione in essa descritta; non coerente con la mancanza di prova circa l’avvenuta esecuzione da parte del Fi. dei generici lavori extra capitolato descritti nel documento; in contraddizione con la constatazione dell’a mancata redazione di preventivi di spesa.
La censura non coglie nel segno.
La Corte d’appello ha sottolineato che sull’unica fattura n. ***** di Euro 21.560, già detratta dal Fi. dalle restituzioni operate, “non vi è alcuna contestazione” (così a pagina 33). Ancora, “l’operata detrazione della fattura n. ***** di Euro 21.560” è “non contestata” (sempre a pagina 33). A pagina 26, la sentenza – dopo aver dato atto che dalla lettura del preliminare si evince che i promissari acquirenti, previo accordo con il venditore costruttore, avrebbero potuto pretendere modifiche interne e variazioni progettuali – evidenzia che “il comportamento successivo delle parti conferma… che tali lavori aggiuntivi esulanti dal preliminare, in parte vi furono, tanto che non è contestata l’emissione della fattura n. *****, il cui importo di Euro 21.560 fu detratto dal Fi. dall’ammontare degli acconti spontaneamente restituiti al F. all’atto della dichiarazione di recesso”. Ancora, a pagina 31 la sentenza ribadisce che l’importo della fattura n. ***** riguarda “lavori extra contratto eseguiti dallo stesso Fi.”.
Quindi, secondo la Corte d’appello, la fattura corrisponde a lavori extra contratto eseguiti dallo stesso promittente venditore e sulla detrazione dell’importo di tale fattura dalle restituzioni operate non vi è alcuna contestazione.
Le censure articolate (sotto il profilo della lamentata assegnazione di valore di prova alla fattura, della mancanza di prova in atti dei generici lavori extra capitolato descritti nel documento e della mancata redazione di preventivi di spesa) non si correlano con la ratio decidendi, tutta protesa a dare rilievo alla non contestazione.
La non contestazione ritenuta dalla Corte territoriale è dai ricorrenti genericamente censurata con il mero riferimento alla contestazione che viceversa sarebbe avvenuta “attraverso la comunicazione attorea 23 febbraio 2011 (documento 8 di parte attrice)”, senza tuttavia nè precisare nè circostanziare il tenore di tale missiva.
Non pertinente si appalesa l’ipotizzata violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c.
Al riguardo, infatti, è sufficiente richiamarsi al principio secondo cui l’eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente numero 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892; Cass., Sez. III, 21 gennaio 2020, n. 1163).
Invero, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867).
Inoltre, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poichè in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova (Cass., Sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313).
Generica si appalesa, infine, la dedotta violazione dell’art. 1458 c.c. La censura, infatti, non si associa alla individuazione di una diversa interpretazione della norma nè alia indicazione dell’applicabilità di una diversa regula iuris, ma si lega ad una, in questa sede inammissibile, diversa ricostruzione del fatto, in ragione della mancata prova che il Fi. abbia eseguito i “generici lavori extra capitolato descritti nel documento”, ossia per non avere il convenuto “offerto prova del diritto che… giustifichi il trattenimento” della somma indicata nella fattura.
5. – Il ricorso è rigettato.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
6. – Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 25 novembre 2020 e, a seguito di riconvocazione, il 22 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021
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