Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.26302 del 29/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10417/2019 R.G., proposto da:

C.G.F., (cod. fisc. *****), ammessa al gratuito patrocinio rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’avvocato Daniele Ciuti, del Foro di Roma, presso il cui studio la ricorrente è elettivamente domiciliata, in Roma, Via Pisanelli n. 2;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del consiglio dei Ministri pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata in via del Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Torino n. 1721/2018, pubblicata il 2/10/2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 gennaio 2021 dal Presidente, Dott. Giacomo Travaglino.

PREMESSO IN FATTO

– che la signora C.G.F. ricorre dinanzi a questa Corte per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Torino, la quale – confermando la sentenza del 6 aprile 2016 del Tribunale subalpino – aveva respinto la sua domanda di risarcimento danni proposta contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, fondata “sulla mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione” della Direttiva 2004/80/CE, e segnatamente della norma che imponeva agli Stati membri dell’Unione Europea, dal 1 luglio 2005, di garantire “adeguato” ed “equo” ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali, impossibilitate a conseguire dai propri offensori il risarcimento integrale dei danni subiti;

– che l’odierna ricorrente era stata vittima, in data *****, di un tentativo di omicidio da parte dell’allora compagno, B.S., reato per il quale quest’ultimo veniva condannato, in via definitiva, alla pena di cinque anni di reclusione, oltre al pagamento di una provvisionale di Euro 100.000 in favore della costituita parte civile;

– che ella non aveva, tuttavia, conseguito alcun ristoro dei danni subiti (causa la totale incapienza del reo, privo di sostanze e ristretto in carcere per i delitti commessi), chiedendo pertanto all’adito il Tribunale di affermare la responsabilità civile della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione alla tardiva e, comunque, non adeguata attuazione della suddetta Direttiva unionale;

– che, respinta la domanda dal primo giudice per difetto del presupposto della transnazionalità della vicenda oggetto del giudizio, il giudice di appello aveva a sua volta rigettato il gravame dell’attrice sul rilievo che la Direttiva – da ritenere, comunque, applicabile alle sole situazioni transfrontaliere, come già affermato dal giudice di prime cure – avesse ricevuto attuazione con la L. 7 luglio 2016, n. 122, la quale, pur non avendo distinto tra soggetti residenti in Italia ovvero all’estero, aveva subordinato la possibilità di agire nei confronti dello Stato alla dimostrazione di aver inutilmente escusso il responsabile del reato – presupposto da provarsi, a giudizio della Corte subalpina, da parte dell’attore, trattandosi di fatto costitutivo del diritto azionato;

– che, nel caso di specie, l’appellante, sebbene avesse dimostrato che il B. non risultava proprietario di beni, non aveva comunque offerto elementi perché lo stesso potesse ritenersi incapiente, “non avendo egli fatto domanda di ammissione, nel processo penale a suo carico, al patrocinio a spese dello Stato”.

– che, avverso la sentenza della Corte di Appello piemontese, ha proposto ricorso per cassazione la signora C. sulla base di tre motivi, l’illustrazione dei quali è preceduta da una domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, oltre che dalla proposizione di una questione di legittimità costituzionale;

– che, in relazione alla prima richiesta, la ricorrente si mostra consapevole del fatto che questa Corte – con ordinanza n. 2964 del 31 gennaio 2019 – abbia già provveduto, nell’ambito di un diverso giudizio, a devolvere all’esame della Corte di Lussemburgo la questione se, a seguito dell’adozione della Direttiva in esame, in forza dei principi affermati dalla stessa giurisprudenza della CGUE (in particolare, tra le altre, con le sentenze “Francovich” e “Brasserie du Pecheur e Factortame III”), il diritto unionale imponga di configurare un’ipotesi di responsabilità dello Stato membro anche nei confronti di soggetti non trasfrontalieri – i quali non sarebbero stati destinatari diretti dei benefici derivanti dall’attuazione della direttiva – che, per evitare una violazione del principio di uguaglianza/non discriminazione nell’ambito dello stesso diritto unionale, avrebbero dovuto e potuto (ove la direttiva fosse stata tempestivamente e compiutamente recepita) beneficiare, in via di estensione, dell’effetto utile della direttiva stessa;

– che, nondimeno, nell’ipotesi in cui la CUGE avesse risposto negativamente a tale questione, la ricorrente chiedeva un nuovo rinvio pregiudiziale, avente ad oggetto il differente quesito “se un cittadino dell’Unione che abbia stabilito in altro Stato dell’UE la propria residenza e rimanga ivi vittima di un reato intenzionale e violento (tale essendo la condizione della signora C., cittadina ***** residente in Italia, vittima di un tentativo di omicidio), sia titolare del diritto ad un indennizzo equo e adeguato previsto dalla tutela introdotta dalla direttiva 2004/80/CE”;

– che andava proposta alla Corte di Lussemburgo anche una seconda questione, ovvero “se l’indennizzo stabilito in favore delle vittime dei reati intenzionali violenti dal decreto del Ministro dell’interno 31 agosto 2017 (emanato ai sensi della già menzionata L. n. 122 del 2016, art. 11, comma 3 come modificato dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, art. 6 e dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 593-596) potesse reputarsi “equo ed adeguato”, secondo quanto prescritto dall’art. 12, par. 2, della menzionata direttiva”.

– che, avendo lo Stato italiano, con la L. n. 167 del 2017, reso retroattivamente applicabile, anche a fattispecie come quella in esame, la disciplina di cui alla L. n. 122 del 2016 (che ammette all’indennizzo le vittime di reato pure in mancanza del requisito della “trasnazionalità”), la normativa andava altresì sottoposta a scrutinio di costituzionalità per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., volta che la modesta misura degli indennizzi previsti da tale normativa e le rigide condizioni per la loro fruizione – tra le quali il preventivo infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato – apparivano in contrasto con il principio di eguaglianza e di non discriminazione.

Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – è denunciata violazione dell’art. 12 della Direttiva 2004/80/CE, censurandosi la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che la più volte citata Direttiva tutela solo le vittime di reati intenzionali e violenti commessi in uno Stato diverso da quello di residenza. In ogni caso – si aggiunge – anche a volere ritenere, quale presupposto per l’applicazione della direttiva, la “transnazionalità” del danneggiato, la Corte territoriale avrebbe trascurato la peculiarità della vicenda, che impediva di qualificarla come “meramente interna”, posto che la vittima del reato risultava essere una cittadina ***** residente in Italia.

Il secondo motivo – sempre proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione dell’art. 3 e del considerando 10 della Direttiva 2004/80/CE, oltre che della L. n. 122 del 2016, art. 12, nonché degli artt. 2697 e 2727 c.c. e degli artt. 11 e 12 preleggi.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che anche la direttiva unionale, al pari della legge che vi ha dato attuazione (L. n. 122 del 2016), individuerebbe nella preventiva escussione del responsabile del reato una condizione per l’ammissione del diritto all’indennizzo, avendo la Corte territoriale rigettato la domanda risarcitoria dell’odierna ricorrente anche su tali basi, ritenendo carente la prova della totale incapienza del B., alla luce della soia circostanza per cui il medesimo “non aveva chiesto l’ammissione ai patrocinio a spese dello Stato”.

Osserva, al riguardo, la ricorrente che, avendo proposto una domanda di “accertamento dell’inadempimento dello Stato italiano nel recepimento della Direttiva 2004/80/CE” – domanda rigettata dal primo giudice sul presupposto che l’attrice non rientrasse tra i soggetti destinatari della protezione prevista da tale norma sovranazionale – soltanto con riferimento ad essa (e non a successive norme interne di suo tardivo e incompleto recepimento), occorreva verificare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto ai risarcimento, di tal che, avuto riguardo al contenuto della Direttiva, non era revocabile in dubbio che la stessa non subordinasse affatto il diritto all’indennizzo alla condizione che la vittima del reato violento e intenzionale dovesse “dimostrare l’impossibilità di conseguire il risarcimento dall’autore del reato”, né tantomeno che fosse previsto un “obbligo di preventiva escussione” dello stesso. Pertanto, considerato che, al momento dell’instaurazione del giudizio risarcitorio, non esisteva alcuna normativa – sovranazionale o nazionale – che imponesse simili condizioni, l’applicazione della norma di cui all’art. 12 della sopravvenuta L. n. 122 del 2016 (fermo restando il dubbio sulla legittimità costituzionale di tale disposizione), che aveva subordinato l’indennizzo alla necessità dell’infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del danno, si poneva “in contrasto con il principio di irretroattività della legge, sancito dall’art. 11 preleggi, del principio tempus regit actum regolante il processo civile e dell’art. 6 CEDU e art. 111 Cost.”. Escludere la necessità della preventiva escussione dell’autore del reato, difatti, a detta di parte ricorrente, non equivaleva punto ad affermare – come parrebbe, invece, intendere la sentenza impugnata – che la fruizione dell’indennizzo avvenga “a prescindere dalla possibilità per la vittima di soddisfarsi sul responsabile”, bensì semplicemente ipotizzare che la prova del fatto che costui non possiede le risorse per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni possa essere data anche per presunzioni – donde, allora, la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c.

Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), – denuncia violazione dell’art. 12 della Direttiva 2004/80/CE e della L. n. 122 del 2016, art. 12 nonché degli artt. 10 e 249 del Trattato CE e dell’art. 117 Cost., nonché dei principi che regolano lo ius superveniens.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che lo ius superveniens, costituito dalla L. n. 122 del 2016, art. 12 avrebbe determinato, in ragione della sua efficacia retroattiva, giusta la previsione della L. n. 167 del 2017, il venir meno dell’inadempimento. Si contestano, inoltre, le affermazioni con cui la Corte territoriale ha confutato i due argomenti della ricorrente, tesi invece a dimostrare il persistere dell’inadempimento, vale a dire il carattere “non equo” dell’indennizzo contemplato per reati diversi dall’omicidio e dalla violenza sessuale (peri quali è stabilito, unicamente, il ristoro delle spese mediche ed assistenziali, nella misura di Euro 3.000), nonché la necessità della preventiva escussione del responsabile del reato. Richiamate, in particolare, quanto a quest’ultimo aspetto, le considerazioni già svolte nell’illustrazione del secondo motivo, la ricorrente sottolinea ancora come il persistere dell’inadempimento del legislatore statale sia stato evidenziato da questa stessa Corte di legittimità con la citata ordinanza n. 2964 del 2019 di rinvio pregiudiziale alla CGUE. E ciò, oltre che per aver posto l’accento sull’esiguità degli indennizzi (vere e proprie “elemosine di Stato”, secondo la ricorrente), soprattutto per avere evidenziato l’assenza, nella normativa di diritto interno, di una tutela rimediale per le vittime dell’inadempimento italiano in relazione ai reati occorsi prima dell’entrata in vigore della L. n. 122 del 2016. Nell’ordinanza di rimessione alla Corte di giustizia, infatti, questa stessa sezione aveva osservato come la questione pregiudiziale si presentasse rilevante, nel caso di specie, in quanto la pretesa azionata – come anche, secondo la ricorrente, nel caso odierno – “e’ quella del risarcimento del danno per l’inadempimento statuale all’obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell’Unione”, e “non già la pretesa di conseguire, in base al diritto nazionale, l’indennizzo attualmente stabilito dalla L. n. 122 del 2016”, inadempimento da ritenersi essere “già stato accertato”. D’altra parte, sottolinea ancora parte ricorrente, costituisce principio pacifico nella giurisprudenza della Corte di giustizia (oltre che di quella nazionale di legittimità), quello secondo cui l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione di una Direttiva può incidere, sino ad eliderlo, sul danno da inadempimento dell’obbligo di dare attuazione ai diritto unionale, salvo, però, che “i beneficiari non dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto a suo tempo fruire dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e che dovrebbero essere anch’essi risarciti”.

Ha resistito all’impugnazione la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo la declaratoria di improcedibilità del ricorso in ragione dello ius superveniens costituito dalla già citata L. n. 167 del 2017, ovvero, in subordine, che lo stesso fosse dichiarato inammissibile o rigettato.

Assume parte resistente, in primo luogo, l’inammissibilità della richiesta tanto di disporre rinvio pregiudiziale alla CUGE, quanto di sollevare questione di legittimità costituzionale, poiché, per un verso, la rimessione interpretativa attiene alla specifica fattispecie delle situazioni transfrontaliere (nella specie non rilevante), mentre l’eventuale incidente di costituzionalità sarebbe destinato ad una declaratoria di inammissibilità giacché, per un verso, la determinazione della misura dell’indennizzo costituisce espressione di discrezionalità legislativa, e, per altro verso, nessuna comparazione può essere stabilita con quanto previsto per altre fattispecie di reato, data l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto. Nel merito, infine, la controricorrente reputa i motivi non fondati, il primo, perché la lettera stessa della Direttiva non lascia dubbi sul fatto che l’indennizzo spetti alla vittima di un reato commesso in Stato diverso da quello di residenza della stessa, il secondo, perché la prova dell’inutile escussione del patrimonio dell’autore del reato costituisce un limite del tutto ragionevole imposto al diritto ad essere indennizzati, il terzo, infine, perché, ancora una volta, anche ad ammettere che, pur in presenza dello ius superveniens, persista un profilo di responsabilità dello Stato italiano per inadempimento dell’obbligo di dare attuazione al diritto unionale, ancora una volta esso riguarderebbe una fattispecie, quella cd. “transfrontaliera”, non predicabile nel caso in esame.

Tanto premesso, il collegio:

OSSERVA IN DIRITTO Il ricorso è fondato, sulla scorta dei principi recentemente affermati da questa Corte nella pronuncia adottata all’esito del giudizio in cui venne disposto il rinvio pregiudiziale alla CUGE (Cass. 24 novembre 2020, n. 26757).

In limine, con riguardo all’eccezione di improcedibilità del ricorso per cessazione della materia del contendere avanzata dall’odierna controricorrente, deve ribadirsi come la pretesa azionata in giudizio abbia ad oggetto il risarcimento del danno per l’inadempimento statuale all’obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell’Unione (art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE), e non già il conseguimento, in base al diritto nazionale, dell’indennizzo attualmente stabilito dalla L. n. 122 del 2016, ed applicabile retroattivamente in ragione di quanto stabilito dalla successiva L. n. 167 del 2017.

Come già sottolineato da questa Corte nella pronuncia del novembre 2020 poco sopra ricordata, predicativa di un principio cui il collegio intende senz’altro dare continuità, si tratta di domande aventi ad oggetto distinte causae petendi e distinti petita, l’una relativa ad una prestazione indennitaria stabilita dalla legge come effetto dell’attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all’Unione Europea (e, dunque, una obbligazione ex lege, da assolversi nei confronti degli aventi diritto, individuati dalla stessa disciplina di fonte legale che prescinde dalla ricorrenza degli elementi costitutivi dell’illecito – il quale, nel sistema della responsabilità civile, sia di fonte contrattuale, che aquiliana, si pone come indefettibile presupposto per la liquidazione del danno, ossia delle conseguenze pregiudizievoli da esso scaturenti); l’altra, invece, concernente il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione di direttiva non autoesecutiva da parte del legislatore italiano nel termine prescritto dalla direttiva stessa, che va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, responsabilità che, in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo dello Stato stesso anche sul piano dell’ordinamento interno, nonché della necessità “di ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., dovrà essere inquadrata nella figura della responsabilità contrattuale, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì da un inadempimento ex contractu di un rapporto obbligatorio preesistente”.

A tanto consegue che la (sopravvenuta) possibilità, per l’odierna ricorrente, di fruire della prestazione indennitaria in forza del combinato disposto delle L. n. 122 del 2016 e L. n. 167 del 2017, non determina alcuna cessazione della materia del contendere in relazione alla (già proposta) domanda fondata, per converso, sulla tardiva attuazione della detta direttiva unionale – e ciò anche in considerazione del fatto che i beneficiari della prestazione indennitaria possono legittimamente dimostrare l’esistenza di perdite supplementari patite per il fatto stesso di non avere potuto usufruire nel momento previsto dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e le quali andrebbero, dunque, parimenti risarcite (così, in motivazione, la già citata Cass. n. 26757 del 2020).

Vanno, pertanto, disattese, per difetto di interesse, le preliminari richieste della ricorrente di procedere al rinvio pregiudiziale alla CUGE, ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale, atteso che tutti i profili di criticità, oggetto di tale duplice (ed alternativa) iniziativa, hanno trovato compiuta risposta proprio nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, resa all’esito del già ricordato rinvio pregiudiziale disposto da questa Corte con ordinanza n. 2964 del 31 gennaio 2019 (CGUE 16 luglio 2020, in causa C129/19).

Il giudice sovranazionale, difatti, ha affermato che “il regime di responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro”, per il danno causato dalla violazione del diritto unionale (costituito, nella specie, dal fatto che esso “non ha trasposto in tempo utile l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80”), sussiste anche “nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro nel cui territorio il reato intenzionale violento sia stato commesso”. Per altro verso, la Corte di Lussemburgo ha ulteriormente precisato che “l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 dev’essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito”.

Affermazione, quest’ultima, che sebbene compiuta con riferimento al reato di violenza sessuale, risulta senz’altro di portata generale, e dunque applicabile anche al reato – che viene in rilievo nel caso in esame – di tentato omicidio.

La CGUE, pur premettendo che l’indennizzo “non deve necessariamente corrispondere al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell’autore di un reato intenzionale violento, alla vittima di tale reato” (sicché esso “non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima”), ha, tuttavia, precisato che “lo Stato membro eccederebbe il margine di discrezionalità accordato dall’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 se le sue disposizioni nazionali prevedessero un indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime”, potendo il contributo “essere considerato “equo ed adeguato” se compensa, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte”.

Anche il tema della non adeguatezza di importi che prescindono dalla valutazione delle concrete conseguenze del reato (come quello della illegittimità dell’esclusione dell’indennizzo in caso di vicende cd. “puramente interne”) risulta, pertanto, specificamente affrontato, e risolto, dalla sentenza della Corte di Lussemburgo, rendendo superfluo procedere – anche per le ulteriori ragioni di cui si dirà nel procedere allo scrutinio dei singoli motivi di ricorso – alle iniziative sollecitate dalla ricorrente.

Tanto premesso, il primo motivo di ricorso risulta pienamente fondato.

Non è conforme a diritto, difatti, l’affermazione con cui la Corte territoriale ha condiviso la decisione del primo giudice – secondo cui gli scopi e le finalità della direttiva 2004/80/CE sarebbero stati quelli di prevedere un sistema indennitario per le vittime di reati intenzionali e violenti limitatamente alle cd, “situazioni transfrontaliere”, con esclusione, dunque, di quelle meramente interne.

Sul punto, vale richiamare quanto affermato – come si è già visto – dalla CUGE in risposta al rinvio pregiudiziale disposto da questa Corte, ovvero che l’art. 12, par. 2, della Direttiva deve essere interpretato (come riassuntivamente afferma Cass. 26757/2020) nel senso che la norma “non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma che consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell’indennizzo essendo, quindi, anch’essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell’Unione”.

D’altra parte, specularmente a tale circostanza, ricorreva altresì l’ulteriore requisito – necessario per ravvisare la responsabilità dello Stato legislatore per mancata trasposizione del diritto unionale – costituito dalla violazione “grave e manifesta” dello stesso.

Come, infatti, già osservato da questa Corte, “la portata estensiva” dell’art. 12, par. 2, della Direttiva 2004/80/CE, ovvero la circostanza che esso fosse “applicabile anche nei confronti delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato è stato commesso”, è stata pienamente confermata dalla Corte di giustizia (con inatteso, sostanziale revirement rispetto alle due precedenti pronunce rese in subiecta materia dallo stesso giudice sovranazionale) “in forza di una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze interpretative, non altrimenti palesate) della sola direttiva 2004/80/CE, di per sé ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata” (così Cass. 26757/2020, cit.).

Anche il secondo motivo di ricorso risulta fondato.

Muovendo dal corretto presupposto che l’oggetto della pretesa azionata dall’odierna ricorrente non fosse la fruizione della prestazione indennitaria di cui alla L. n. 122 del 2016 (non prevista, peraltro, al momento della instaurazione del giudizio), bensì il risarcimento del danno da mancata attuazione del diritto unionale, è con riguardo alle condizioni stabilite da quest’ultimo per la fruizione del beneficio da esso previsto – fruizione della quale la signora C. aveva diritto, quantunque vittima “meramente domestica” di reato violento ed intenzionale – che la Corte territoriale avrebbe dovuto confrontarsi.

Non può, conseguentemente, assumere rilievo la circostanza che la legge nazionale abbia richiesto, quale condizione per la fruizione del beneficio, la necessità del preventivo infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato.

Come, infatti, ancora osservato da questa Corte, “il considerando 10 della Direttiva (a mente del quale le “vittime di reato, in molti casi, non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito”) pone in rilievo come la ratio della Direttiva stessa sia rappresentata dalla necessità di ovviare, “alle oggettive “difficoltà”” (e non ad una oggettiva “impossibilità”) che “la vittima di reato intenzionale violento può incontrare nel conseguire il risarcimento del danno patito, in conseguenza di fattori diversi attinenti alla persona del reo (privo di risorse economiche sufficienti, non individuabile ovvero non perseguibile)” (così, ancora una volta, Cass. n. 26757 del 2020, cit.).

Anche sotto questo profilo, dunque, la sentenza risulta non conforme a diritto, volta che il presupposto del richiesto risarcimento, da provarsi da parte dell’attrice, non era il preventivo ed infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato, bensì l’esistenza, appunto, di una “oggettiva difficoltà” nel conseguire il risarcimento, e ciò sulla base di “fattori diversi”, tra i quali anche l’assenza di “risorse economiche sufficienti” in capo al medesimo.

Il terzo motivo deve ritenersi assorbito dalle considerazioni che precedono, poiché la responsabilità per inadempimento dell’obbligo di dare attuazione alla direttiva 2004/40/CE non poteva ritenersi superata dal più volte indicato ius superveniens.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento alla Corte di appello di Torino, che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 17 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

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