LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15755/2019 proposto da:
VILLA DEI FIORI S.R.L., in persona dell’Amministratore delegato, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 16/B, presso lo studio dell’avvocato EGIDIO PAOLUCCI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
REGIONE CAMPANIA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POLI 29, presso lo studio l’Ufficio di rappresentanza della Regione, rappresentata e difesa dagli avvocati FABRIZIO NICEFORO, e FERNANDA SPERANZA;
– controricorrente –
e contro
ASL NAPOLI *****, e SPV PROJECT 1505 S.R.L.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 5296/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 20/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/05/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO.
FATTI DI CAUSA
1. La Villa dei fiori s.r.l. convenne in giudizio la ASL ***** Napoli nord e la Regione Campania, davanti al Tribunale di Napoli, chiedendo che fossero condannate in solido o, in via subordinata, ciascuna in misura diversa, al pagamento della somma complessiva di Euro 3.395.755,06.
A sostegno della domanda espose di essere ente accreditato all’erogazione di prestazioni sanitarie di pronto soccorso sul territorio regionale, suddivise in tre categorie: prestazioni di ricovero ordinario c.d. in elezione, prestazioni di pronto soccorso senza successivo ricovero e prestazioni di pronto soccorso seguito da ricovero. Specificò che nell’anno 2011 essa aveva erogato prestazioni per la somma complessiva di Euro 33.357.255,26, di cui Euro 15.917.930,38 per ricoveri ordinari, Euro 17.439.324,88 per attività in regime di emergenza ed Euro 2.820.240 per pronto soccorso non seguito da ricovero. L’ASL aveva provveduto al pagamento della somma di Euro 30.380.000 a titolo di prestazioni conseguenti a ricovero (sia in elezione che per emergenza, senza specifica imputazione) ed Euro 2.400.000 per prestazioni di pronto soccorso non seguite da ricovero, per cui residuava a suo favore un credito pari alla somma oggetto della domanda. Aggiunse la società attrice che per le attività svolte in regime di pronto soccorso (con relativi ricoveri) non potevano ritenersi esistenti i tetti di spesa applicabili per i soli ricoveri c.d. in elezione; e che comunque essa attrice aveva diritto al pagamento del credito residuo in base ai principi di correttezza e buona fede o, comunque, a titolo di indebito arricchimento.
Si costituirono in giudizio entrambe le parti convenute, chiedendo il rigetto della domanda.
Nel corso del giudizio intervenne la s.r.l. SPV Project, in qualità di cessionaria di parte del credito della società attrice, insistendo per l’accoglimento delle stesse conclusioni rassegnate dalla società Villa dei fiori.
Il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese di lite.
2. La pronuncia è stata impugnata dalla società attrice soccombente e la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 20 novembre 2018, ha rigettato l’appello, ha confermato la sentenza impugnata e ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado.
2.1. Ha premesso la Corte territoriale che la Delibera 25 febbraio 2005, n. 285, della Giunta regionale della Campania non aveva, al contrario di quanto sostenuto dall’appellante, natura regolamentare, bensì di sola autorizzazione all’esercizio delle funzioni di pronto soccorso. Conseguiva da ciò che quel decreto non poteva essere considerato sovraordinato rispetto ai successivi accordi intervenuti tra le parti, fra i quali quello del 21 luglio 2011. Quest’ultimo, avente “natura pattizia e finalità sostanzialmente transattiva”, doveva quindi essere ritenuto valido anche in relazione ai limiti della spesa complessiva rimborsabile.
Ciò detto, la Corte di merito ha sostenuto che la pretesa avanzata dalla società appellante doveva essere esaminata alla luce del suindicato accordo del 21 luglio 2011, mentre il Decreto 4 agosto 2011, n. 61, non appariva determinante né a favore né contro la società attrice, posto che si limitava a fare un sostanziale rinvio all’accordo del 21 luglio citato.
2.2. Così inquadrati i termini della vicenda, la sentenza ha considerato “determinanti” ai fini della decisione i punti 2, 3 e 4 del menzionato accordo, che ha integralmente trascritto. Nel punto 2 era indicato il limite massimo di fatturato rimborsabile per i ricoveri (Euro 30.380.000), relativo a tutte le prestazioni erogate, cioè sia per i ricoveri c.d. in elezione che per quelli conseguenti agli interventi in pronto soccorso. Il punto 3 regolava, poi, i limiti di spesa a forfait per i compensi relativi all’attività di pronto soccorso, da intendere “per le sole prestazioni non seguite da ricovero”. Le quote fisse erano quelle di cui alle lettere a) e b) del punto 3, mentre la successiva lettera c) indicava il limite di Euro 2.400.000, con fissazione del compenso di Euro 90 per ciascun intervento. Da questi elementi la sentenza ha tratto la conclusione per cui non poteva ritenersi che la remunerazione di cui alla lettera c) costituisse un compenso “per l’organizzazione indipendente dallo svolgimento delle prestazioni mediche”. Il riferimento ad un tetto unico di spesa, costituito dalla somma tra i compensi di cui al punto 2 e quelli di cui al punto 3 lettera c) lasciava intendere “il collegamento tra le prestazioni (ricovero conseguente ad accesso in pronto soccorso)”.
La sentenza ha quindi affermato che dal testo di quell’accordo risultava in modo chiaro che gli interventi di pronto soccorso erogati dalla struttura non dovevano essere sempre ammessi al rimborso. In ordine agli interventi che comportano le immediate dimissioni dei pazienti, infatti, il compenso di cui al punto 3, lettere a) e c), era stato pattuito a forfait; e comunque era evidente la natura transattiva dell’accordo nella sua globalità, come emergeva dalla premessa nella quale si riconosceva espressamente il desiderio di dirimere ogni controversia relativa alla remunerazione dell’attività svolta. In ordine, invece, agli interventi seguiti da ricovero, la Corte d’appello ha affermato che il tetto di spesa era comunque unico, dato che la struttura ben poteva ridurre i ricoveri c.d. in elezione (non obbligatori) a mano a mano che aumentavano i ricoveri conseguenti alle prestazioni di pronto soccorso (obbligatori), in modo da non superare il tetto massimo di spesa rimborsabile.
Ha poi spiegato la Corte napoletana che le remunerazioni oggetto del presente giudizio erano “soltanto quelle per le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso non seguito da ricovero e quelle di ricovero in elezione o in regime di emergenza-urgenza”, per le quali operano i limiti di Euro 2.400.000 e 30.380.000. Quanto, poi, all’imputazione delle somme già versate dalla ASL, la sentenza ha affermato che essa doveva “necessariamente coprire interamente le prestazioni erogate a seguito di accesso in pronto soccorso e solo parzialmente quelle riguardanti i ricoveri in elezione, per i quali, una volta superato il tetto di spesa, nulla è dovuto”. D’altra parte, ha aggiunto la Corte, era pacifico nella specie che fosse stato superato il tetto di spesa, per cui il vero problema da risolvere consisteva solo nello stabilire se, ai fini dell’eventuale sforamento, dovessero essere o meno incluse le prestazioni erogate in pronto soccorso o per ricoveri conseguenti all’accesso in pronto soccorso.
La sentenza, infine, ha affermato che dalla ricostruzione complessiva della vicenda derivava l’infondatezza anche della domanda avanzata ai sensi dell’art. 2041 c.c.; pur volendo prescindere, infatti, dalla sussistenza o meno di un effettivo arricchimento in capo alla P.A., appariva difficile sostenere che tale arricchimento fosse voluto, posto che nel contratto era “espressamente stabilito che le prestazioni eccedenti gli importi fissati non sarebbero state remunerate”.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli propone ricorso la Villa dei fiori s.r.l. con atto affidato a quattro motivi e affiancato da memoria.
Resiste la Regione Campania con controricorso.
Le altre parti non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), violazione e falsa applicazione dell’art. 1193 c.c., adducendo presunti errori nell’imputazione dei pagamenti.
Osserva la società ricorrente che la sentenza impugnata, con motivazione insufficiente o addirittura in assenza di motivazione, avrebbe imputato il pagamento della somma di Euro 30.380.000, a titolo di corrispettivo per le prestazioni da ricovero eseguite nel 2011, prima di tutto a copertura delle prestazioni rese in regime di urgenza-emergenza e poi a copertura parziale di quelle relative ai ricoveri ordinari, in tal modo riducendo il rimborso di queste ultime entro il tetto di cui all’accordo del 21 luglio 2011. Tale decisione violerebbe l’art. 1193 c.c., per come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità. Richiamati i criteri ivi stabiliti, la ricorrente rileva che nel caso in esame il pagamento della somma di Euro 30.380.000 è certamente non satisfattivo; per cui, avendo la casa di cura dato rendiconto di prestazioni rese in regime di urgenza per la somma di Euro 17.439.324,88 e di prestazioni rese in regime di non urgenza per la somma di Euro 15.917.930,38, l’ASL ha pagato la somma di Euro 30.380.000 senza ulteriori specificazioni. Ne consegue, secondo la società Villa dei fiori, che legittimamente essa creditrice ha provveduto, nell’atto di citazione, ad imputare il pagamento per le sole prestazioni da ricovero ordinario, rimanendo quindi parzialmente rimborsate le spese sostenute per i ricoveri in urgenza-emergenza; per cui la domanda oggetto del giudizio avrebbe legittimamente ad oggetto il pagamento solo di queste ultime. Si vuol sostenere, in altri termini, che, in assenza di un’imputazione del pagamento da parte del debitore, tale imputazione sarebbe stata eseguita dal creditore con l’atto di citazione; per cui la Corte di merito avrebbe violato l’art. 1193 cit. non dando conto delle ragioni dell’imputazione da essa compiuta. Senza dimenticare che, nel dubbio, il pagamento avrebbe dovuto essere imputato proporzionalmente ai singoli crediti.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito nella specie dal decreto n. 61 del 4 agosto 2011 della Regione Campania e dal paragrafo 1 dell’Accordo allegato del 21 luglio 2011.
La censura lamenta che la sentenza avrebbe limitato l’esame soltanto alla Delib. 25 febbraio 2005, n. 285, della Giunta regionale della Campania ed ai paragrafi 2, 3 e 4 dell’Accordo del 21 luglio 2011, tralasciando i due atti suindicati. La Corte d’appello, dichiarando espressamente l’irrilevanza del Decreto 4 agosto 2011, n. 61, della Regione Campania, ne avrebbe trascurato il contenuto, che sarebbe invece decisivo. Dopo averne trascritto in parte il testo, la società ricorrente osserva che l’Accordo del 21 luglio 2011 considerato dalla Corte d’appello aveva un oggetto diverso da quello dell’odierno giudizio, perché doveva risolvere “un contenzioso insorto sulla tariffazione delle prestazioni di non emergenza, che, nella specie, la Casa di cura avrebbe voluto che fossero remunerate secondo la tariffa di cui all’Allegato B del decreto della Giunta n. 8707 del 1994”. In definitiva, l’Accordo del 21 luglio 2011 era destinato a regolare soltanto “le prestazioni sanitarie da ricovero rese in regime di non-urgenza mentre quelle da ricovero rese in regime di urgenza, oggetto di causa, continuavano a rimanere regolamentate dalla Delib. Giunta Regionale n. 285 del 2005”.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e degli artt. 1362 c.c. e segg., per aver attribuito all’Accordo del 21 luglio 2011 un significato in contrasto con le regole di interpretazione.
Osserva la società ricorrente che la sentenza avrebbe erroneamente stabilito che l’Accordo del 21 luglio 2011 avesse natura derogatoria rispetto alla Delib. Giunta regionale n. 285 del 2005. L’Accordo e la Delib., infatti, avevano entrambi natura negoziale e dovevano essere interpretati secondo le regole generali previste nel codice civile. L’Accordo del 21 luglio avrebbe potuto essere correttamente interpretato solo alla luce del Decreto 4 agosto 2011, n. 61. Secondo la ricorrente, l’errore risiede nel fatto che la sentenza impugnata abbia inteso “cumulare sotto il vincolo della spesa tutte le prestazioni da ricovero e, quindi, sia quelle di urgenza che quelle in elezione”; la corretta interpretazione, invece, avrebbe imposto di rilevare “che l’Accordo aveva voluto dirimere la sola controversia insorta sulla (ri)quantificazione dei corrispettivi delle prestazioni non urgenti”. In altri termini, la tesi della società ricorrente è nel senso che i tetti di spesa di cui si discute avrebbero ad oggetto le sole prestazioni rese non in urgenza, mentre per quelle rese in urgenza – che continuano ad essere regolate dal Decreto n. 285 del 2005 – non sarebbe sussistente alcun limite di spesa.
4. I motivi ora indicati, benché tra loro differenti, devono essere esaminati congiuntamente, stante l’intima connessione tra loro esistente.
4.1. Tali motivi, inammissibili in relazione ad alcuni profili, sono comunque privi di fondamento.
4.2. E’ opportuno premettere che questa Corte ha già avuto modo di occuparsi in più occasioni dei c.d. tetti di spesa fissati per le strutture sanitarie in regime di accreditamento con le Regioni.
Tali limiti devono essere ricondotti alle esplicite previsioni di cui del D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 8-quinquies e 8-sexies, entrambi aggiunti nel testo originario da parte del D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, con l’evidente obiettivo di fissare all’erogazione della spesa sanitaria un limite di spesa compatibile con le esigenze di bilancio del nostro Paese. L’art. 8-quinquies, comma 2, cit., dispone che le Regioni e le Unità sanitarie locali “definiscono accordi con le strutture pubbliche ed equiparate, comprese le aziende ospedaliero-universitarie, e stipulano contratti con quelle private e con i professionisti accreditati”, il cui obiettivo è quello di fissare il volume massimo delle prestazioni che tali strutture si impegnano ad assicurare e il corrispettivo preventivato; e l’art. 8-sexies, comma 1, cit. stabilisce che le strutture che erogano prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale “sono finanziate secondo un ammontare globale predefinito negli accordi contrattuali di cui all’art. 8-quinquies”.
Anche la Corte costituzionale, d’altra parte, ormai non pochi anni fa ebbe a porre in luce come “si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario. In questo modo si è temperato il predetto regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione propri delle Regioni e la stipula di appositi “accordi contrattuali” tra le USL competenti e le strutture interessate per la definizione di obiettivi, volume massimo e corrispettivo delle prestazioni erogabili” (cfr. art. 8-quinquies cit.; sentenza n. 200 del 2005).
I limiti di spesa, quindi, sono previsti dalla legge; non a caso, infatti, la più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato il principio dell’insuperabilità dei tetti di spesa, trattandosi del rispetto di obblighi ai quali la P.A. è vincolata (così, tra le altre, le sentenze 29 ottobre 2019, n. 27608, e 6 luglio 2020, n. 13884, nonché l’ordinanza 31 ottobre 2019, n. 27997). In tali pronunce si è detto, in piena sintonia con la concorde giurisprudenza del Consiglio di Stato, che: 1) il limite dei tetti di spesa e’, appunto, un vincolo ineludibile, tanto che è giustificata la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extra budget (in considerazione del vincolo delle risorse disponibili); 2) solo il mancato superamento dei limiti di spesa dà diritto alla struttura accreditata di chiedere la remunerazione integrale delle prestazioni erogate (sentenza n. 27608 del 2019); 3) la struttura privata accreditata non è obbligata all’erogazione delle prestazioni oltre il tetto di spesa, a differenza di quella pubblica (sentenza n. 27608 del 2019); 4) il fondamento di tale limite sta, come si è detto, nella legge (D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 8-quinquies e 8-sexies), e la fissazione del tetto è rimessa ad un atto autoritativo e non ad una fase concordata e convenzionale, per cui gli operatori sanitari rimangono liberi di valutare se sia o meno conveniente, per loro, continuare ad operare in regime di accreditamento (sentenza n. 13884 del 2020).
Altre pronunce, in coerenza con questo inquadramento, hanno stabilito che il superamento del tetto di spesa rileva come fatto impeditivo dell’obbligo di remunerazione, con conseguente onere della prova a carico della parte debitrice, cioè l’ASL (v. le ordinanze 13 febbraio 2018, n. 3403, 2 marzo 2021, n. 5661, e 16 aprile 2021, n. 10182).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato in più di un’occasione che il regime dell’accreditamento è di natura concessoria (sentenze 14 gennaio 2015, n. 473, e 18 giugno 2019, n. 16336) e hanno attribuito alla giurisdizione del giudice ordinario le cause aventi ad oggetto il pagamento dei corrispettivi eccedenti i limiti di spesa a condizione che sia stato preventivamente annullato in sede giurisdizionale il provvedimento che stabiliva il c.d. tetto (ordinanza 16 ottobre 2019, n. 26200). Solo dopo l’eliminazione di quel provvedimento, infatti, la causa non involge più l’esercizio di un potere autoritativo della P.A. e si fonda sul diritto soggettivo all’esatto adempimento di un’obbligazione.
4.3. Fatta questa premessa ricostruttiva, può procedersi all’esame dei primi tre motivi di ricorso.
La sentenza impugnata – è opportuno ricordarlo – deve essere letta nella sua globalità, senza poterne estrapolare un’unica frase (come sembra fare la società ricorrente alla p. 13 del ricorso). La Corte d’appello, come si è detto, ha prima di tutto rilevato che la decisione della causa doveva avvenire alla luce dell’Accordo del 21 luglio 2011, senza dare un particolare rilievo al decreto n. 61 del 4 agosto 2011, ritenuto non determinante in quanto non relativo al regime dei tetti di spesa operanti tra la Regione e la Casa di cura oggi ricorrente. Si tratta, come facilmente è comprensibile, di una valutazione del materiale probatorio rimessa al giudice di merito, il quale ha dato conto in modo coerente e logico della propria decisione; consegue da ciò che il secondo e il terzo motivo di ricorso sono, almeno in parte, inammissibili, in quanto sollecitano una diversa lettura degli atti di causa che è incompatibile col giudizio di legittimità.
Dopo di ciò, il Collegio rileva che la Corte napoletana ha letto l’Accordo del 21 luglio 2011 e ha evidenziato il limite di cui al punto 3, lettera c). La sentenza ha posto in luce come in base a tale previsione, da leggere in modo coordinato con quella del punto 2 (che fissa il tetto di spesa di Euro 30.380.000 per l’esercizio 2011), “la sommatoria del tetto di cui al precedente punto 2 e di quello stabilito nella presente lettera c) del punto 3 costituiscono un tetto unico di remunerazione”. Nella motivazione la Corte d’appello ha spiegato che nel punto 2 sono definiti i limiti per le prestazioni di ricovero ospedaliero senza precisazione (per cui sia in regime di pronto soccorso che in regime di ricoveri liberi, che la sentenza chiama ricoveri in elezione); mentre il punto 3 riguarda le prestazioni in pronto soccorso, dove viene fissata la somma di Euro 90 per ogni accesso non seguito da ricovero, con il tetto massimo di Euro 2.400.000. La chiave di volta, per così dire, della motivazione della sentenza in esame sta nei passaggi successivi, dove la Corte d’appello spiega che, essendo unico il tetto massimo dato dalla sommatoria tra il punto 2 e il punto 3, lettera c), è onere della casa di cura ridurre i ricoveri in elezione a mano a mano che aumentano quelli conseguenti agli accessi in pronto soccorso, proprio al fine di evitare lo sforamento del tetto. In altri termini, posto che la Casa di cura non può, evidentemente, rifiutare un ricovero se il malato è transitato per il pronto soccorso e c’e’ un’urgenza, diventa suo onere di attenzione quello di ridurre i ricoveri in elezione, che non sono obbligatori e possono, quindi, essere legittimamente rifiutati. Questo è il senso complessivo, chiarissimo, della decisione in esame.
4.4. La società ricorrente tenta di scardinare tale articolato ragionamento (soprattutto nel primo motivo) con una censura che è suggestiva, ma del tutto priva di fondamento.
Essa sostiene, come si è detto, che, in mancanza di una previsione contrattuale circa l’imputazione del pagamento da parte del debitore, dovrebbe applicarsi l’art. 1193 c.c.; tale imputazione, pertanto, sarebbe stata eseguita dal creditore con l’atto di citazione, destinando le somme ricevute a rimborso delle prestazioni rese in regime di ricovero ordinario, di modo che residuerebbe, intatto, il diritto al rimborso delle spese sostenute per i ricoveri in urgenza-emergenza (tesi, questa, che è ribadita anche nel terzo motivo di ricorso).
Ma questo ragionamento vanifica integralmente il regime dei tetti di spesa e l’accordo sottoscritto in esecuzione degli obblighi di legge. Se così fosse, infatti, la casa di cura accreditata potrebbe scegliere dove indirizzare le somme ricevute e, come nella specie tenta di sostenere, destinare i rimborsi ottenuti a compenso totale delle prestazioni erogate in regime di ricoveri di elezione, cioè liberi; per poi pretendere il pagamento integrale – sforando perciò il limite del tetto di spesa – delle prestazioni erogate in regime di pronto soccorso. E’ corretta, invece, la ricostruzione compiuta dalla Corte napoletana la quale, come si è detto, ha osservato che la casa di cura è tenuta a ridurre i ricoveri in elezione a mano a mano che ci si avvicina al tetto massimo; quei ricoveri, infatti, possono essere legittimamente rifiutati, mentre altrettanto non è sostenibile in relazione ai ricoveri conseguenti alle urgenze dei pazienti transitati per il pronto soccorso. Il che significa che il regime dei tetti di spesa deve anche concretamente orientare le scelte imprenditoriali delle case di cura accreditate. Nessuna violazione dell’art. 1193 c.c., pertanto, è ravvisabile nella decisione impugnata.
Ritiene la Corte, infine, di dover spendere qualche ulteriore considerazione sull’argomento.
Il sistema dei tetti di spesa non è funzionale soltanto al contenimento della spesa pubblica sanitaria. Le case di cura accreditate, infatti, subiscono sì il limite dei rimborsi massimi erogabili, ma godono anche del vantaggio che deriva loro dallo status, per così dire, di casa di cura accreditata. In altri termini, è indubbio che le strutture di questo genere, pur subendo un limite al loro diritto ai rimborsi, vengano ad ottenere un ritorno economico rappresentato dalla notorietà e dalla credibilità che deriva dal fatto stesso di essere una casa di cura accreditata. Questo ritorno in termini di immagine, se così si può dire, va a costituire un contrappeso al regime dei tetti di spesa; per cui le case di cura che intendono accreditarsi sono tenute a compiere una valutazione economica che è globale e, in caso negativo, sono libere di proseguire la loro attività in regime esclusivamente privatistico.
5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 2041 c.c., per avere la sentenza escluso l’esistenza di un indebito arricchimento della P.A. con una motivazione assente o comunque insufficiente.
La società ricorrente lamenta che la sentenza in esame abbia escluso l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento senza considerare che nella specie sussisterebbero sia l’esecuzione di una prestazione in favore della P.A. sia il conseguente depauperamento di chi la esegue. Richiamati i principi giurisprudenziali in argomento, il motivo in esame rileva che la sentenza avrebbe errato nel far discendere la non esperibilità dell’azione in questione dalla inconsapevolezza dell’Amministrazione. L’azione di cui all’art. 2041 cit., al contrario, sarebbe proponibile proprio in relazione a prestazioni “materialmente rese oltre le pattuizioni contrattuali”, per cui la motivazione della sentenza risulterebbe errata o insufficiente.
5.1. Il motivo non è fondato.
La questione posta è stata già esaminata da questa Corte in pronunce precedenti, alcune delle quali sono state richiamate, che devono ricevere ulteriore conferma nella sede odierna.
Il punto di partenza è costituito dalla nota sentenza 26 maggio 2015, n. 10798, delle Sezioni Unite di questa Corte la quale, innovando rispetto al passato, ha stabilito che il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ai sensi dell’art. 2041 c.c., nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”. Alla luce di questa pronuncia emerge, contrariamente a quanto l’odierna parte ricorrente sostiene, la possibilità che acquisti rilevanza il carattere non voluto o inconsapevole di tale arricchimento a favore dell’ente pubblico.
Dando seguito a tale impostazione, alcune successive pronunce hanno escluso che il superamento dei tetti di spesa imposti a carico delle case di cura accreditate possa legittimare queste ultime ad agire ai sensi dell’art. 2041 c.c., per ottenere la differenza. Giova richiamare, in proposito, l’ordinanza 24 aprile 2019, n. 11209, e le già citate sentenze n. 27608 del 2019 e n. 13884 del 2020. Queste due ultime pronunce, in particolare, ricollegandosi alla complessa problematica esaminata a proposito dei primi tre motivi, hanno affermato che la sussistenza di un tetto di spesa – che nel caso odierno era inserito nell’Accordo del 21 luglio 2011 – dimostra che l’azienda sanitaria ha già manifestato implicitamente il proprio rifiuto di una spesa superiore. Il che viene a significare che l’eventuale arricchimento conseguito dalla ASL in conseguenza delle prestazioni fornite dalle case di cura accreditate determina il carattere “imposto” di tale arricchimento, per cui l’azione prevista dall’art. 2041 cit., non può essere ammessa. E’ appena il caso di aggiungere, del resto, che se così non fosse l’intero sistema dei tetti di spesa ne verrebbe vanificato, potendo la parte privata ottenere attraverso uno strumento giuridico diverso esattamente quello che la legge non intende riconoscerle.
6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 20.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 20 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021
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