LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI IASI Camilla – Presidente –
Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –
Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21993-2018 proposto da:
RTA REALIZZAZIONE TURISTICHE ALBERGHIERE SPA, IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona dei commissari liquidatori, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 21, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO GIUSEPPE ILARDO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI CATANIA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 261/2018 della COMM.TRIB.REG.SICILIA SEZ.DIST.
di CATANIA, depositata il 19/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/07/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.
RILEVATO
CHE:
l.La società Realizzazioni turistiche alberghiere (R.T.A.) S.p.a. impugnava l’avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni con il quale l’Agenzia delle entrate recuperava l’imposta di registro relativo alla registrazione della sentenza del tribunale di Catania n. 430/2013, non allegata all’atto impositivo, con la quale, decidendo sull’opposizione allo stato passivo della contribuente, proposta dalla Sicilcassa s.p.a. – la quale chiedeva il riconoscimento della natura privilegiata assistita da garanzia – accoglieva parzialmente, l’opposizione proposta ammettendo al passivo parte del credito al rango ipotecario e riconoscendo che il credito già ammesso al privilegio era assistito da garanzia ipotecaria. La sentenza, in particolare, riconosceva in parte un maggior credito della società Sicilcassa per lire 8.891.423.050, mentre, per il resto, mutava qualitativamente i diritti patrimoniali già ammessi al passivo, espungendo dal provvedimento di ammissione al passivo la condizione della escussione delle fideiussioni prestate. La C.T.P. di Catania accoglieva parzialmente il ricorso, annullando l’imposta nella misura dello 0,50% in relazione alle fideiussioni enunciate nella sentenza del tribunale di Catania, e riducendo l’importo delle somme sulle quali trovava applicazione la tassa di registro nella misura dell’1%. La società interponeva gravame avverso la sentenza di prime cure. La C.T.R. della Sicilia respingeva l’impugnazione principale proposta dalla contribuente e quella incidentale avanzata dall’amministrazione finanziaria. La società Realizzazioni turistiche alberghiere (R.T.A.) S.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 261/2018, emessa dalla C.T.R. della Sicilia, svolgendo due motivi, illustrati nelle memorie ex art. 380 bis c.p.c.. L’Agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva.
CONSIDERATO
CHE:
2.Con il primo motivo si lamenta la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 241 del 1990, art. 3, del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 2 bis e art. 54, dell’art. 111 Cost., comma 6 e art. 24 Cost. nonché dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 36, comma 2, nn. 2 e 4, artt. 49 e 61, ex art. 360 c.p.c., n. 3); motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., n. 4), per avere il giudicante ritenuto insussistente il deficit motivazionale pur avendo l’Agenzia omesso di allegare all’avviso la sentenza del tribunale di Catania sottoposta a registrazione.
Sostiene la ricorrente, al riguardo, che ai fini della idoneità motivazionale dell’atto impositivo non è sufficiente l’indicazione del numero della sentenza registrata, occorrendo indicare sui quali si fonda la pretesa tributaria. In aggiunta, sostiene che la motivazione dei giudici di appello risulterebbe incongrua rispetto alla doglianza di appello e si porrebbe dunque in contrasto con il disposto dell’art. 118 disp att. c.p.c..
3. La seconda censura prospetta l’omessa pronuncia o motivazione apparente o insussistente, nonché la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, art. 118 disp att. c.p.c., dell’art. 111 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dell’art. 8, lett. c), d) ed e) della tariffa prima parte all. al predetto D.P.R. n. 131 del 1986, oltre alla violazione degli artt. 55,96,113 bis, 117 della l.f. e del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 26, ex art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il giudicante ritenuto infondata la censura relativa all’applicazione dell’aliquota proporzionale dell’1% per la parte di credito per il quale è stato mutato il grado di ammissione al passivo e per la parte del credito per il quale è stata eliminata la condizione sospensiva. Assume che ai sensi dell’art. 8 cit. in rubrica l’imposta non è dovuta per i crediti già ammessi per effetto del decreto del giudice delegato, mentre il riconoscimento della natura privilegiata del credito impone l’applicazione dell’imposta in misura fissa, incidendo la decisione solo sul profilo qualitativo del credito, determinandone esclusivamente un mutamento nella graduatoria ai fini del riparto.
Inoltre, si afferma che il credito ammesso con riserva o condizionatamente è un credito già ammesso al passivo, con la conseguenza che la sentenza che si limita ad espungere la condizione del credito non contiene alcun accertamento di natura patrimoniale.
4.La prima censura è priva di fondamento.
L’obbligo di motivazione, che afferisce all’individuazione della base imponibile e dell’aliquota tariffaria applicata dall’Ufficio, non si soddisfa mediante l’allegazione del provvedimento giudiziario tassato essendo l’allegazione medesima adempimento superfluo laddove – come accade di regola – il provvedimento giudiziario sia conosciuto o comunque conoscibile da parte del contribuente.
Come da ultimo affermato da questa Corte, in tema di imposta di registro relativa a sentenza civile, l’Amministrazione finanziaria è esonerata dall’obbligo di allegare all’avviso di liquidazione la sentenza su cui esso si fonda, in quanto trattasi di atto di cui il contribuente, parte del relativo giudizio, è a conoscenza; diversamente tale incombente si risolverebbe in un adempimento superfluo ed ultroneo che, da un lato, determinerebbe un eccessivo aggravamento degli oneri connessi all’esercizio della potestà impositiva e, dall’altro, non varrebbe a fornire elementi utili e significativi per la tutela del diritto di difesa nei confronti della pretesa tributaria, ponendosi così in contrasto con i canoni generali della collaborazione e della buona fede.(Ordinanza n. 21713 del 08/10/2020; n. 239 del 12/01/2021).
In particolare, è stato sostenuto che l’avviso di liquidazione emesso D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 54, comma 5, in relazione a un atto giudiziario deve contenere l’indicazione dell’imponibile, dell’aliquota applicata e dell’imposta liquidata, ma non deve necessariamente recare, in allegato, la sentenza o il suo contenuto essenziale rispondendo l’obbligo di motivazione di cui all’art. 7 St. contr. all’esigenza di garantire il pieno e immediato esercizio delle facoltà difensive del contribuente, senza costringerlo ad attività di ricerca, e non riguardando perciò atti o documenti da lui conosciuti o conoscibili, sempre che il contenuto delle informazioni fornite garantisca la conoscenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa fiscale e si tratti di informazioni facilmente intellegibili (Cass. n. 9344/2021).
L’allegazione materiale dell’atto giudiziario assoggettato ad imposizione – che non ha la finalità di procurarne, oltre alla conoscenza legale, anche la disponibilità documentale – è necessaria tutte le volte in cui l’avviso non riproduca o non menzioni le enunciazioni o le statuizioni soggette ad imposta di registro, sempre che il contribuente si sia trovato nell’incolpevole impossibilità di averne conoscenza, potendo peraltro l’avviso di liquidazione limitarsi anche ad indicare solamente la data e il numero della sentenza civile laddove sia certo o presumibile che il contribuente ne abbia avuto pregressa conoscenza e purché sia garantita in ogni caso l’agevole intellegibilità dei valori imponibili, delle aliquote applicate e dell’imposta liquidata (v. Cass. n. 13402/2020).
5. La seconda censura merita accoglimento.
5.1 In primo luogo, occorre evidenziare come la riforma fallimentare del 2006 non trovi applicazione al caso in esame.
La dichiarazione di fallimento risale ad epoca antecedente al 1999, tant’e’ che nel ricorso per cassazione l’insinuazione al passivo del creditore viene fatta risalire all’anno 1999 e ad essa trova pertanto applicazione l’art. 95 della L. Fall., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, il quale prevedeva, al comma 2, l’ammissione con riserva dei crediti condizionali e di quelli per i quali non fossero ancora stati presentati i documenti giustificativi. La disposizione in esame riconosce al giudice il potere di adottare il decreto di ammissione con riserva che ha natura di provvedimento cautelare atteso che, nel periodo di tempo necessario per la realizzazione della condizione, della definizione del giudizio ovvero dell’acquisizione del documento, si tutelano le ragioni del creditore tramite la previsione della formazione di “quote di accantonamento” a suo favore nell’ambito di riparti parziali e del riparto finale. Il provvedimento in esame ha l’effetto di differire la cognizione del giudice alla realizzazione dell’evento che ha imposto l’apposizione della riserva destinato ad essere sostituito, all’atto dello scioglimento della riserva stessa, da un provvedimento che costituisce il risultato dell’esercizio di un’attività di cognizione, sia pure solo “endofallimentare”, e che non sarebbe in alcun modo vincolato dalla precedente valutazione relativa all’ammissione del credito al passivo fallimentare con riserva. Prima della menzionata riforma, il procedimento in questione (il procedimento di accertamento del passivo nel fallimento) era regolato come procedimento giurisdizionale, ma senza contraddittorio, essendo il contraddittorio posticipato alla fase successiva ed eventuale dell’opposizione. Sulla domanda di ammissione al passivo, pertanto, il giudice si pronunciava direttamente, ancorché con l’assistenza del curatore, ammettendo in tutto o in parte i crediti. La dottrina era concorde nel riconoscere al procedimento di formazione e verificazione dello stato passivo carattere giurisdizionale in ogni sua fase, evidenziandone in particolare la tendenza a ricalcare lo schema del processo di cognizione ordinario, sia pure con gli adattamenti imposti dalla specificità del rito. Ciò che distingueva i decreti di ammissione al passivo fallimentare era il riconoscimento della loro natura meramente endofallimentare, mentre era opinione comune che le sentenze del tribunale fossero idonee a produrre i loro effetti anche al di fuori della procedura, in modo pressoché equivalente al giudicato sul diritto sostanziale di credito ritenuto esistente nei confronti del fallito. Tutto ciò non era esente da ricadute sul piano fiscale: al regime di non imponibilità secondo alcuni, o di imponibilità in misura fissa secondo altri, del decreto di esecutività dello stato passivo si contrapponeva il regime di tassazione proporzionale delle sentenze rese all’esito dei giudizi di impugnazione, in armonia con la tesi che attribuiva efficacia extra fallimentare all’accertamento in esse contenuto.
Queste ultime erano destinate a scontare l’aliquota dell’uno per cento, propria degli atti di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale, in luogo di quella del tre per cento applicabile ai provvedimenti di condanna (Ris. Agenzia entrate 17 dicembre 2008, n. 479/F; Cass., 18 febbraio 2000, n. 1849; Cass., 5 luglio 2011, n. 14816).
La posizione delle parti, nel successivo giudizio di opposizione, era pertanto genericamente paragonabile a quello che esse assumono nell’opposizione ad un provvedimento assunto inaudita altera parte, in cui deve assicurarsi – per la prima volta – la pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa. In tale quadro, l’opposizione introduce(va) un giudizio a tutti gli effetti di primo grado, trattandosi di pronuncia emessa in esito ad un giudizio contenzioso di cognizione, che contiene l’accertamento, nei confronti della procedura fallimentare, dell’esistenza e dell’efficacia del credito, con l’effetto di consentire al contribuente la partecipazione al concorso, con possibile soddisfazione in sede di riparto.
Il giudizio di opposizione allo stato passivo costituisce, dunque, un procedimento strettamente connesso alla procedura fallimentare e, come tale, inteso ad accertare il credito ai fini dell’ammissione al passivo. In particolare, l’opposizione al passivo deve ritenersi ammissibile a beneficio dei creditori ammessi con riserva o sotto condizione, ove, all’esito di un raffronto tra il tenore letterale della domanda di insinuazione presentata e il tenore formale della corrispondente decisione giudiziale, esista un divario – fra l’aspirazione del creditore a un quid pluris, costituito dall’ammissione immediata e incondizionata del suo credito allo stato passivo, e il provvedimento di ammissione con riserva adottato – da apprezzarsi in termini di soccombenza, In altri termini, il giudizio di opposizione la funzione di escludere la condizione o confermarla, ponendo il credito sul medesimo piano degli altri crediti ammessi senza riserva o sotto condizione (Cass. 5847 del 2021; n. 27902/2020). 5.3 Tanto premesso, l’imposta di registro è dovuta in misura proporzionale ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. e) della Tariffa, parte prima, del Tur, il quale prevede l’applicazione dell’aliquota dell’1% agli atti dell’autorità giudiziaria “…di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale…”. La base imponibile per la tassazione della sentenza del Tribunale è rappresentata dell’intero credito ammesso allo stato passivo del fallimento. La questione controversa concerne la natura accertativa o meramente ricognitiva della sentenza che definisce il giudizio di opposizione laddove si limiti ad eliminare la riserva o la condizione apposta dal giudice delegato. Come reiteratamente statuito da questa Corte, l’accoglimento dell’opposizione allo stato passivo che riconosca la natura privilegiata di un credito fatto valere nella procedura fallimentare, e già ammesso in via chirografaria dal giudice delegato, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. d), della parte I della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131: essa, infatti, incide esclusivamente sul profilo qualitativo del credito, determinando un mutamento della sua posizione nel concorso, in quanto l’ammontare ed il titolo, che rappresentano gli unici aspetti rilevanti ai fini dell’imposta in esame, risultano già determinati per effetto del decreto di ammissione; d’altronde, essendo quest’ultimo assoggettato ad imposta in misura proporzionale, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. e), di detta tariffa, l’applicazione della medesima disposizione, ovvero di quella di cui all’art. 9 della tariffa, alla sentenza in questione, comporterebbe una duplicazione dell’imposta, in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e capacità contributiva, oltre che con la funzione dell’imposta di registro, che nella specie assume la natura di corrispettivo per il servizio complesso della registrazione (Cass. n. 22253 del 14/10/2020, n. 14146/2013; n. 21310/2013).
5.4 Ipotesi dissimile è quella regolata dall’art. 95 l.f. il quale riconosce al giudice il potere di adottare il decreto di ammissione con riserva o sotto condizione, decreto che ha natura di provvedimento cautelare atteso che, nel periodo di tempo necessario per la realizzazione della condizione, della definizione del giudizio ovvero dell’acquisizione del documento, si tutelano le ragioni del creditore tramite la previsione della formazione di “quote di accantonamento” a suo favore nell’ambito di riparti parziali e del riparto finale. Il provvedimento in esame ha l’effetto di differire la cognizione del giudice alla realizzazione dell’evento che ha imposto l’apposizione della riserva destinato ad essere sostituito, all’atto dello scioglimento della riserva stessa, da un provvedimento che costituisce il risultato dell’esercizio di un’attività di cognizione, sia pure solo “endofallimentare”, e che non sarebbe in alcun modo vincolato dalla precedente valutazione relativa all’ammissione del credito al passivo fallimentare con riserva.
5.5 Nella giurisprudenza di legittimità, costituisce principio ormai consolidato quello secondo cui – nella vigenza del testo anteriore alla riforma del 2006 – l’ammissione di un credito al passivo fallimentare con riserva non dispensa il creditore dall’onere di proporre opposizione allo stato passivo, la quale costituisce l’unico mezzo per ottenere lo scioglimento o l’eliminazione della riserva, non essendo sufficiente a tal fine il mero deposito dei documenti nella cancelleria del giudice delegato o rinvio degli stessi al curatore, successivamente all’emissione del decreto di esecutorietà dello stato passivo, poiché ciò comporterebbe l’elusione del controllo degli altri creditori e quindi dell’onere, incombente all’istante, di fornire la prova del proprio credito in contraddittorio (cfr. Cass., Sez. 1, 19 giugno 2008, n. 16657; 25 agosto 2004, n. 16859; 16 aprile 2003, n. 6010). Non potendosi consentire l’elusione del controllo degli altri creditori e dunque dell’onere incombente sul creditore istante di fornire la prova del proprio credito in contraddittorio (Cass. n. 268/2020).
Laddove il creditore abbia chiesto l’ammissione al passivo puramente e semplicemente ed il giudice delegato abbia disposto l’ammissione con riserva o sotto condizione, si verifica una situazione di soccombenza, che legittima il creditore ad impugnare immediatamente il provvedimento, trattandosi, ai sensi dell’art. 98, comma 2, L. Fall., di un’ipotesi di accoglimento soltanto parziale della domanda.
Nel caso in esame, proposta opposizione allo stato passivo, l’esclusione della condizione ha inciso esclusivamente sul profilo qualitativo del credito, in quanto l’ammontare ed il titolo, che rappresentano gli unici aspetti rilevanti ai fini dell’imposta in esame, risultano già determinati per effetto del decreto di ammissione; d’altronde quest’ultimo è assoggettabile ad imposta in misura proporzionale, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. e), di detta tariffa. L’applicazione della medesima disposizione, ovvero di quella di cui all’art. 9 della tariffa, alla sentenza in questione, comporterebbe una duplicazione o una triplicazione dell’imposta, in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, capacità contributiva e difesa giurisdizionale, oltre che con la funzione dell’imposta di registro, che nella specie assume la natura di corrispettivo per il servizio complesso della registrazione.
Alla stregua della L. Fall., art. 93, comma 1, nella domanda di ammissione al passivo il creditore deve assumere come oggetto della sua dichiarazione tre distinti fenomeni: la somma pretesa, il titolo della pretesa e le eventuali ragioni della prelazione. Il primo oggetto costituisce il profilo quantitativo del credito, mentre gli altri due oggetti sono determinativi, sotto distinti profili, della sua qualità. E’ ben evidente che la somma che può essere pretesa dal creditore e che, data l’accertata insolvenza dell’imprenditore fallito, può essere iscritta al passivo senza alcuna certezza di effettiva soddisfazione, è identica a prescindere, non solo dalla specie del titolo del credito, ma anche dalla forza che deriva dalle eventuali garanzie del suo adempimento. In questo senso la quantità del credito che sia iscritto al passivo è indipendente dalla sua qualità. Ciò che costituisce indice della capacità contributiva al fine di questa specifica imposta indiretta, è l’accertamento dell’esistenza del credito di un determinato ammontare, valutata nella sua potenzialità, e non nella sua effettività adempitiva. Ne deriva che l’atto giudiziale a contenuto patrimoniale, rilevante ai fini della determinazione di tutti gli elementi che compongono la struttura dell’imposta di registro, è il decreto del giudice delegato che ammette al passivo un credito di un dato ammontare e che è basato sulla quantità del credito e su quel solo suo profilo qualitativo che è costituito dal titolo del credito. Questi due aspetti del credito sono gli unici rilevanti ai fini dell’imposta di registro e sono rilevanti nel duplice senso della loro necessità e della loro sufficienza per determinare la qualità del contenuto dell’imposta, cioè l’imposta di registro, e la qualità dell’oggetto dell’imposta, cioè il credito a contenuto patrimoniale. Al contrario, la sentenza che definisce il giudizio di opposizione si è limitata ad escludere la sussistenza del beneficium excussionis, senza incidere né sul titolo né sul quantum della pretesa creditoria, confermando l’accertamento del giudice delegato senza produrre effetti traslativi ulteriori.
Tuttavia, la CTR non solo non ha chiarito se già il decreto di ammissione era stato sottoposto a registrazione in misura proporzionale, ma non si è attenuta ai suddetti principi, essendo rilevante, ai fini della determinazione dell’imposta dovuta per la registrazione delle sentenze che decidono sull’opposizione allo stato passivo, la circostanza che sia stata pagata o meno l’imposta di registro relativa al decreto di ammissione del credito al passivo (v. Cass. n. 22353/2020, in motiv).
In tal modo mostrando di non aver colto la ratio dei principi di diritto nel loro complesso, che richiedono il pagamento dell’imposta di registro in misura fissa purché però sia stata già pagata quella in misura proporzionale relativamente al decreto di ammissione del credito allo stato passivo.
Ritenuto dunque fondato il secondo motivo di impugnazione, il ricorso va conseguentemente accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nell’adunanza plenaria della Corte di cassazione, il 1 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021