Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.26364 del 29/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

IRTE S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, C.A., M.F., C.C.M., C.E.M., tutti elettivamente domiciliati in Roma, via G.Avezzana n. 8, presso lo studio dell’Avv. Paolo Grassi, che li rappresenta e difende unitamente all’Avv. Massilimiliano Nicodemo, per procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore, pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 5050/46/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 29 settembre 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7 luglio 2021 dal relatore Cons. Roberta Crucitti.

RILEVATO

che:

la Irte s.p.a. e i soci C.E.M., C.A., C.C.M. e M.F. impugnarono, con separati ricorsi, gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate aveva accertato, per l’anno di imposta 2006, maggiore IRES nonché, a carico dei soci, maggiore IRPEF, avendo considerato elusiva l’operazione di vendita, da parte della Irte s.p.a. ai suddetti azionisti, delle quote di partecipazione nella FINET s.r.l., al prezzo di Euro 2.500.000, che, poi, gli stessi quattro azionisti avevano, nel breve termine, rivenduto a una terza Società per Euro 4.417.969.

La Commissione tributaria provinciale di Varese accolse, previa riunione, i ricorsi, annullando gli atti impositivi.

La decisione, appellata dall’Agenzia delle entrate, è stata integralmente riformata, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia (d’ora in poi, per brevità, C.T.R.).

Il Giudice di appello non riteneva validamente provate le ragioni economiche della doppia vendita da parte della Irte s.p.a. ai suoi azionisti, costituiti da un ristretto gruppo familiare, e poi da questi, per un prezzo duplicato rispetto a quello di acquisto, solo tre mesi dopo, ad altra società e rilevava che era mancata la concreta dimostrazione circa la sussistenza di adeguate apprezzabili ragioni economiche, diverse dalla mera aspettativa di benefici fiscali.

Avverso la sentenza la Società e i soci hanno proposto ricorso, su sette motivi, cui resiste con controricorso, l’Agenzia delle entrate.

C.A., M.F., C.C.M. e C.E., premesso di avere aderito alla definizione agevolata dei carichi di cui al D.L. 22 dicembre 2016, n. 193, art. 6, dichiaravano di rinunciare al ricorso principale.

La rinuncia risulta notificata alla controparte e da questa accettata.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis-1 c.p.c..

CONSIDERATO

che:

1. a seguito della rinuncia, debitamente notificata alla controparte, il giudizio nei confronti di C.A., M.F., C.C.M. ed C.E.M. va dichiarato estinto, ai sensi dell’art. 391 c.p.c., mentre le spese restano a carico di chi le ha anticipate come convenuto tra le parti.

2. Il giudizio prosegue, pertanto, solo nell’interesse della Irte S.p.a. la quale, con il primo motivo di ricorso ha dedotto la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 1, laddove la C.T.R. aveva respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate.

2.1 La censura è infondata. Per costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte (v., tra le altre, Cass. n. 28375 del 05/11/2019; id n. 15519 del 21/07/2020) “In tema di contenzioso tributario, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, determinano l’inammissibilità dell’appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi ricavarsi, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni; ciò in quanto l’articolo citato deve essere interpretato restrittivamente, in conformità all’art. 14 preleggi, trattandosi di disposizione eccezionale che limita l’accesso alla giustizia, dovendosi pertanto consentire, ogni qual volta nell’atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione”.

2.2. Nel caso in esame, la sentenza impugnata, nel respingere l’eccezione di inammissibilità dell’appello, si è mossa lungo il solco interpretativo tracciato da questa Corte rimanendo, sul punto, esente da censura.

3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, e si censurano i giudici di appello per non avere adottato, nel ritenere l’operazione elusiva e priva di valide ragioni economiche, quella particolare cautela sollecitata sia dalla giurisprudenza di questa Corte che dalla giurisprudenza unionale.

3.1. La censura è infondata. Questa Corte (v. tra le altre, di recente, Cass.n. 15321 del 06/06/2019) è ferma nel ritenere che, in materia tributaria, integra abuso del diritto, il cui divieto costituisce principio generale antielusivo, l’operazione economica volta al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, ancorché non contrastante con alcuna disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente. Si e’, altresì, specificato (cfr., tra le altre di recente, Cass. n. 2224 del 02/02/2021) che “in tema di redditi d’impresa, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ora sostituito dalla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, non contiene un’elencazione tassativa delle fattispecie abusive, ma costituisce una norma aperta, la quale trova applicazione, alla stregua del generale principio antielusivo rinvenibile nella Costituzione e nelle indicazioni della raccomandazione n. 2012/772/UE, in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l’imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali”. (in precedenza v. Cass.n. 439 del 2015; n. 34595 del 2019; n. 5644 del 2020).

3.2 II Giudice di appello ha diffusamente motivato sul perché l’operazione posta in essere, e rimasta priva di valide ragioni economiche, doveva ritenersi effettuata, nel suo complesso, al solo fine di evitare la vendita diretta delle quote da parte della IRTE alla Towertel che avrebbe comportato la contabilizzazione dell’intera plusvalenza. Le argomentazioni svolte dalla C.T.R. sono in linea con l’orientamento giurisprudenziale nazionale e unionale in materia, laddove, di contro, il mezzo di impugnazione, sotto l’egida della violazione di legge, tende, in realtà, ad una inammissibile, in questa sede, rivisitazione dell’accertamento in fatto compiuto dal Giudice di merito.

4. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

4.1 La censura è inammissibile. Nell’illustrazione del motivo la ricorrente riporta, sostanzialmente, (dalla pagina 23 alla pagina 27) gli scritti difensivi con i quali aveva illustrato al Giudice di merito la cronistoria dell’operazione posta in essere e le vicende societarie, ma non individua, mai, specificamente uno o più “fatti” il cui concreto esame sia stato omesso dalla C.T.R. né tanto meno la loro decisività (nel senso di una diversa possibile soluzione rispetto a quella adottata dal Giudice di merito).

Peraltro, la motivazione della sentenza impugnata, sul punto, è doviziosa di elementi in fatto tanto da far ritenere che il Giudice di appello abbia compiuto l’integrale esame di tutti i fatti rassegnatigli.

5. Con il quarto motivo del ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la sentenza impugnata di nullità o, quantomeno per motivazione apparente laddove, a fronte della doglianza concernente l’utilizzo da parte dell’Ufficio, negli avvisi di accertamento, di una catena di presunzioni al fine di giustificare la pretesa fiscale, il Giudice di appello si era limitato a osservare che gli accertamenti riportano, con precisione e con ampiezza di motivazioni, le argomentazioni di entrambi le parti.

5.1. Con il quinto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione delle norme di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 45, e dell’art. 2727 c.c., sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In subordine al mancato accoglimento del quarto motivo, la ricorrente rileva che, con la scarna motivazione ivi illustrata, la C.T.R. avrebbe violato il divieto di praesumptio de praesumptio.

5.2 Per il rigetto di entrambe le censure è sufficiente leggere integralmente la motivazione della sentenza impugnata in cui la C.T.R. argomenta doviziosamente sugli elementi probatori forniti al suo esame da entrambe le parti e correttamente applica i principi in materia di onere della prova in linea con l’orientamento costante, sul punto, di questa Corte. Si, e’, infatti, ripetutamente statuito che “in tema di presunzioni, la prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni” (v. Cass. nn. 27982/2020; 20748/2019).

6 Con il sesto motivo del ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, censurandosi la sentenza impugnata nel capo in cui il Giudice di appello aveva ritenuto dovute le sanzioni.

7. Con il settimo motivo si censura il medesimo capo di sentenza, prospettando violazione di legge, laddove la C.T.R. non aveva disapplicato le sanzioni, attesa la sussistenza di un’obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis.

8. Le censure, che possono trattarsi congiuntamente in quanto connesse, non trovano accoglimento.

8.1. La prima perché infondata alla luce dei principi reiteratamente affermati da questa Corte (v., di recente, tra le altre, Cass.n. 34750 del 31/12/2019): “in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno l’abuso del diritto”, (conforme Cass. n. 25537 del 2011).

La seconda perché inammissibile. La ricorrente omette, infatti, di indicare come e quando tale questione fosse stata sollevata in giudizio per cui, nel silenzio sul punto della sentenza impugnata, la stessa deve ritenersi nuova e, come tale, inammissibile.

9. In conclusione, il ricorso proposto da Irte S.p.a. va rigettato e la Società, soccombente, condannata al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.

10. Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non trova applicazione in caso di rinuncia al ricorso per cassazione in quanto tale misura si applica ai soli casi – tipici – del rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità e, trattandosi di misura eccezionale, “lato sensu” sanzionatoria, è di stretta interpretazione e non suscettibile, pertanto, di interpretazione estensiva o analogica. (v. Cass. n. 23175 del 12/11/2015).

PQM

Dichiara, ex art. 391 c.p.c., estinto il giudizio nei confronti di C.A., M.F., C.C.M., C.E.M. e compensa, tra queste parti e l’Agenzia delle entrate, le spese.

Rigetta il ricorso proposto da Irte S.p.a.

Condanna Irte S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, alla refusione, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese liquidate in complessivi Euro 7.800 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte di Irte s.p.a. dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

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