LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10356/2018 proposto da:
SKY ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio degli avvocati ROBERTO PESSI, MAURIZIO SANTORI, ANDREA MORDA’, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
G.U.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ASIAGO, 9, presso lo studio dell’avvocato GIACOMO SUMMA, rappresentato e difeso dagli avvocati MARIO ANTONIO FEZZI, MAURIZIO BORALI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1430/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/10/2017 R.G.N. 492/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/04/2021 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.
RILEVATO
Che:
Il Tribunale di Milano rigettava le domande proposte da G.U.L. nei confronti di Sky Italia s.p.a. volte a conseguire l’accertamento della natura subordinata e a tempo indeterminato del rapporto intercorso fra le parti dal 21/4/2011 al 30/6/2014 in relazione alla attività di assistente di studio formalmente sussunta nella forma di una pluralità di contratti di lavoro autonomo a tempo determinato, l’accertamento della illegittima interruzione del rapporto e la condanna della convenuta alla riammissione in servizio ed al risarcimento del danno;
detta pronuncia veniva riformata dalla Corte distrettuale che accertava l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a far tempo dall’aprile 2011 con inquadramento nel IV livello c.c.n.l. emittenti radiotelevisive; ordinava alla società di ripristinare il rapporto conferendo al ricorrente le medesime mansioni in precedenza espletate o altre equivalenti; condannava l’appellata al pagamento della indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 45, nella misura di otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
avverso tale decisione la Sky Italia s.p.a. interpone ricorso per cassazione sostenuto da unico motivo al quale l’intimato oppone difese con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
1. con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2728 c.c., art. 14 preleggi, D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69;
si deduce che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte territoriale confliggono con i principi in tema di ripartizione dell’onus probandi e di applicazione delle presunzioni, oltre che con i dettami di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69; in particolare si stigmatizza l’applicazione da parte del giudice del gravame, della presunzione legale sancita dalla disposizione in rubrica, oltre il caso in essa considerato;
“dando ingresso ad una valutazione di merito sulla correttezza o meno del nomen juris” la Corte d’Appello avrebbe espresso un giudizio che si collocava al di là della ipotesi normativa disciplinata dalla summenzionata disposizione, giacché il rapporto di lavoro scrutinato non era in alcun modo riconducibile alla fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c. e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61.
2. il motivo è privo di fondamento;
nel proprio iter argomentativo il giudice di seconda istanza ha scrutinato la fattispecie non trascurando il nomen juris del contratto – che rappresenta solo uno degli elementi di valutazione per qualificarne la natura – ma formulando il proprio giudizio all’esito di un’ampia ricognizione delle testimonianze raccolte, così pervenendo alla qualificazione del rapporto in termini di collaborazione coordinata e continuativa disciplinata dagli artt. 61-69 D.Lgs. 2003;
nel procedere al giuridico inquadramento del rapporto sulla base delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, la Corte di merito si è conformata all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in base al quale “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l’iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen iuris non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l’accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista”;
tale principio si applica anche nel caso in cui il rapporto trovi la sua origine in una legge che ne abbia previsto o favorito l’instaurarsi, dovendosi anche in tale ipotesi accertare se il rapporto, pur sorto in base ad una volontà che, dando attuazione alla legge, ne abbia recepito anche la qualificazione, abbia poi avuto una esecuzione che, per la sua diversità dalla previsione normativa, esprima una nuova sopravvenuta volontà negoziale, la quale conferisca nuovo contenuto al rapporto” (vedi Cass. 27/10/2003 n. 16119, Cass. 21/10/2014 n. 22289); in tal senso, il procedimento ermeneutico cui rimandano i ricordati dicta, è stato ritenuto applicabile anche alla ipotesi di contratto di lavoro a progetto, normativamente delineato come forma particolare di lavoro autonomo, ai sensi del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 61 (cfr. Cass. cit. n. 22289/2014 Cass. 25/6/2013n. 15922);
di tutto ciò ha tenuto conto la Corte d’appello la quale, all’esito dello scrutinio delle acquisizioni probatorie, è pervenuta al convincimento che le caratteristiche del rapporto di lavoro erano maggiormente confacenti alla nozione della parasubordinazione, avendo l’appellante svolto prestazioni lavorative inserite in un’ampia organizzazione “caratterizzata nel caso in esame da una chiara continuità nel tempo e nella messa a disposizione delle energie lavorative”;
nel riferirsi al progetto di lavoro, ha evidenziato che esso non appariva enunciato nel contratto sottoscritto dalle parti, onde rinveniva applicazione la sanzione della conversione automatica in rapporto di lavoro subordinato D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, comma 1;
in tal senso si è conformata all’orientamento di questa Corte secondo cui ammettere la conversione di una mera collaborazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato, in mancanza di progetto, non contraddice principi superiori né costituzionali; si tratta di realizzare una parificazione di disciplina, di garantire uno standard di trattamento minimo per rapporti continuativi (in mancanza di progetto) e connotati da una comune subordinazione di tipo economico; e ciò rientra nella potestà del legislatore oltre ad apparire giustificato, in ragione della comune appartenenza all’area della “dipendenza economica” e della connessione funzionale delle stesse prestazioni lavorative continuative con l’impresa altrui (in ragione cioè della esistenza della para-subordinazione in capo al co.co.co);
l’assenza del progetto prevista dell’art. 69, comma 1 (da interpretare, in base alla L. n. 92 del 2012, art. 24, nel senso che “l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato), concretizza il venir meno dell’elemento costitutivo della fattispecie legale, che si caratterizza proprio in virtù dell’esistenza di uno specifico progetto con i requisiti e le caratteristiche dettati dalla legge;
e tale ipotesi ricorre sia quando non sia stata provata mediante la produzione del contatto o l’espletamento delle prove ammissibili la pattuizione di alcun progetto (così come nella specie), sia quando il progetto effettivamente pattuito non sia conforme alle sue caratteristiche, difettando gli elementi di specificità ed autonomia che sono ritenuti necessari (vedi sul punto Cass. 29/3/2017 n. 8142);
al cospetto di tale strutturato iter motivazionale, conforme a diritto per quanto sinora detto, la articolata censura, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, degrada in parte verso la richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34476, Cass., Sez. Un., 17/12/2019, n. 33373);
la complessiva censura traligna, in parte qua, dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, senza autenticamente confrontarsi con la ratio decidendi,; ma l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito;
il giudizio di cassazione è infatti un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa;
ne consegue che la parte non può limitarsi – come nella specie – a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata con riferimento alla reale natura del rapporto, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (vedi Cass. 6/3/2019 n. 6519);
in tale prospettiva deve ritenersi che il Collegio del merito, all’esito del vaglio del complessivo quadro istruttorio, abbia congruamente sussunto la fattispecie scrutinata nella disposizione normativa di riferimento e che la formulata critica con la quale ci si duole della applicazione “dell’art. 69, comma 1 oltre il caso in esso considerato”, sia destituita di fondamento;
in definitiva, alla luce delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto;
le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021