LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22454/2019 proposto da:
A.E., elettivamente domiciliato in PAVIA, CORSO MAZZINI 3, presso lo studio dell’avvocato LUCA ANGELERI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
SIENA NPL 2018 SRL, in qualità di cessionaria del credito della MPS GESTIONE CREDITI BANCA SPA, rappresentata da JULIPET SPA, che rappresentata e difesa dall’avvocato RENATO ZANFAGNA, ed elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA VECCHIA 691, presso lo studio dell’avvocato MARCO FABIO LEPPO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1627/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 11/04/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/05/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.
RILEVATO
che:
A.E. propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti – in qualità di fideiussore della Maedil s.r.l. – ad istanza di MPS Gestione Credito s.p.a., per l’importo di 361.520,00 Euro, oltre interessi;
dedusse di non aver mai rilasciato la fideiussione azionata in via monitoria e disconobbe l’autenticità delle sottoscrizioni presenti sui documenti prodotti in copia dalla Banca;
l’opposta si costituì in giudizio proponendo istanza di verificazione delle sottoscrizioni disconosciute e producendo l’originale della fideiussione;
il documento, custodito nella cassaforte della Cancelleria, andò smarrito e non venne più reperito, di talché la c.t.u. grafica venne disposta sulla copia degli atti;
all’esito della consulenza (che aveva accertato l’autografia delle sottoscrizioni con un grado di certezza del 70%) e tenuto conto di “ulteriori indizi”, il Tribunale rigettò l’opposizione e confermò il d.i. opposto;
pronunciando sul gravame dell’ A., la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, affermando che:
non erano ammissibili i nuovi documenti prodotti dall’ A. in sede di appello, costituiti da un certificato di residenza anagrafica storico dell’opponente e da una dichiarazione (datata 30.11.2016 ed asseritamente trasmessa al legale dell’appellante con raccomandata ricevuta il 6.12.2016) con cui il co-fideiussore Q. si autoaccusava di avere falsificato la sottoscrizione dell’ A.; quanto al primo, perché il certificato avrebbe potuto essere prodotto in primo grado qualora l’opponente avesse voluto contestare la ricezione delle raccomandate inviategli dalla Banca; quanto al secondo, perché non era provato che si trattasse di un documento di formazione successiva e/o comunque pervenuto nella disponibilità dell’appellante successivamente alla sentenza di primo grado (giacché quanto prodotto comprovava che il difensore dell’ A. aveva ricevuto una raccomandata di cui era mittente il Q., ma non anche che la stessa avesse come contenuto proprio la dichiarazione autoaccusatoria);
non era in discussione l’ammissibilità della consulenza espletata sulla copia delle scritture da verificare, in difetto della disponibilità degli originali, né era in dubbio il minor grado di attendibilità del parere del consulente (stante la non rilevabilità sulla copia del “dato pressorio” della grafia), mentre era controversa la valenza di altri coesistenti indizi, ritenuti dal Tribunale tali da colmare il minor grado di attendibilità della c.t.u. grafica;
al riguardo, le contestazioni dell’appellante non erano idonee a scalfire le conclusioni del Tribunale, in quanto:
l’ A. non era insorto per contestare la qualità di fideiussore dopo aver ricevuto la missiva di messa in mora del 21.9.2010, spedita alla sua allegata residenza anagrafica;
ricevuto il decreto ingiuntivo, l’opponente si era limitato a disconoscere l’autografia della sua firma, senza contestare il ricevimento delle missive precedenti l’ingiunzione e senza nemmeno chiedere di provare che il giorno della sottoscrizione della fideiussione egli si trovava altrove, come pure allegato nell’atto di opposizione;
né l’ A. aveva reiterato in sede di appello la richiesta di rimessione in termini per articolare mezzi di prova, che era stata avanzata in primo grado (dopo che era stata disposta la consulenza sulla copia degli atti) e che era stata rigettata dal Tribunale;
in conclusione, “la coerente valutazione di questi aspetti, in aggiunta alle condivisibili conclusioni dell’elaborato peritale, porta(va) a ritenere con ragionevole certezza la sussistenza della qualità di fideiussore in capo all’appellante”;
ha proposto ricorso per cassazione l’ A., affidandosi a quattro motivi; ha resistito la Siena NPL 2018 s.r.l. (in qualità di cessionaria del credito nei confronti dell’ A.), rappresentata dalla Juliet s.p.a.;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..;
il ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
il primo motivo denuncia, “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 214,215,216 e 217 c.p.c., nonché dell’art. 2179 c.c.” e “omesso esame delle contestazioni in punto di CTU calligrafica e dunque di un fatto decisivo per il giudizio”;
premesso che la sentenza si basa, in primis, sugli esiti della consulenza grafica, il ricorrente censura la Corte per avere affermato che non era in discussione l’ammissibilità ed esperibilità di una consulenza su copie fotostatiche delle scritture da verificare ed assume che sul tema erano state svolte contestazioni sia nell’atto di appello che nella comparsa conclusionale depositata in secondo grado; aggiunge che la consulenza non avrebbe potuto essere effettuata che sugli originali, secondo il consolidato orientamento di legittimità, e che la stessa Corte si era contraddetta là dove – per un verso – aveva ritenuto ammissibile la consulenza e – per altro – aveva affermato che la c.t.u., proprio perché eseguita su una fotocopia, era caratterizzata da un minor grado di attendibilità;
il motivo è inammissibile, in quanto:
il ricorrente non deduce di avere dedotto l’inammissibilità della consulenza nel corso del giudizio di primo grado, come avrebbe dovuto fare nella prima udienza successiva alla sua ammissione, ai sensi dell’art. 157 c.c., comma 2; il che rende la doglianza priva di decisività;
né può sottacersi che la stessa sentenza sottende un atteggiamento di acquiescenza dell’odierno ricorrente per avere egli stesso prodotto una relazione di parte effettuata sulle copie;
la censura imperniata sull’art. 2719 c.c., risulta carente di una sia pur minima illustrazione in punto di avvenuto espresso disconoscimento della conformità della copia all’originale;
infine, non risulta identificato il fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame, a prescindere dall’inammissibilità – a monte, ex art. 348 ter c.p.c., comma 5 – della deduzione del vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, atteso che la sentenza impugnata ha confermato quella di primo grado e il ricorrente non ha dimostrato che le due decisioni siano fondate su ragioni di fatto tra loro diverse;
il secondo motivo deduce “violazione e/o erronea applicazione degli artt. 2697,2719 e 2729 c.c., nonché degli artt. 115,116,216 e 345 c.p.c.; conseguente omesso esame della comunicazione a firma di Q.M. in quanto decisiva per il giudizio”;
il ricorrente censura la Corte per avere ritenuto inammissibile, ex art. 345 c.p.c., la dichiarazione autoaccusatoria del Q., rilevando che la stessa risultava tanto più necessaria a fronte della inammissibilità e, comunque, della inattendibilità della consulenza grafica; aggiunge che, espunto tale elemento palesemente inutilizzabile, la Corte di Appello avrebbe dovuto basarsi su un quadro indiziario meno debole di quello considerato, tenuto anche conto che la garanzia fideiussoria del 2001 (precedente a quella azionata) era stata disconosciuta senza che la controparte ne avesse chiesto la verificazione; che l’unico residuo elemento indiziario, costituito dalla mancata presa di posizione dell’ A. rispetto alla comunicazione di messa in mora da parte della Banca, non era idoneo a essere sussunto nel paradigma dell’art. 2729 c.c.; che alla violazione dell’art. 115 c.p.c. e artt. 2719 e 2729 c.c., era conseguita anche la violazione delle regole sul riparto dell’onere probatorio; che, infine, l’assunto che l’opponente non avesse fornito prove per dimostrare di non avere sottoscritto la fideiussione risultava smentito dalla circostanza che, dopo l’ammissione della consulenza sulle fotocopie, l’ A. aveva formulato istanza di rimessione in termini per l’articolazione di istanze istruttorie, benché non ne fosse onerato;
il motivo e’, sotto tutti i profili, inammissibile, poiché:
la censura relativa alla violazione dell’art. 345 c.p.c., investe in modo marginale la ratio della decisione, limitandosi a contestare la pertinenza di un richiamo giurisprudenziale compiuto dalla Corte e a sottolineare la necessità di esaminare la dichiarazione del Q. a fonte della inattendibilità della consulenza grafica; non censura, invece, il rilievo – fondante – della mancanza di prova circa il fatto che il documento fosse di formazione successiva alla sentenza di primo grado o, comunque, che fosse pervenuto nella disponibilità dell’appellante dopo tale decisione;
la violazione dell’art. 2729 c.c., non risulta dedotta nei termini indicati da Cass. S.U. n. 1785/2018 (non massimata), a mente della quale:
“quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta”;
“essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza”;
“la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza. Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi”;
nel caso in esame, il difetto di una siffatta attività argomentativa comporta l’inammissibilità della censura, non risultando a tal fine sufficiente l’assunto che la Corte abbia considerato un unico elemento indiziario (cfr. Cass. n. 24550/2020);
il motivo è inammissibile anche in relazione alla censura di violazione dell’art. 115 c.p.c., giacché la stessa non risulta dedotta in conformità ai parametri individuati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 11892/2016; Cass., S.U. n. 16598/2016, in motivazione; Cass. n. 27000/2016; Cass. S.U. n. 20867/2020); infatti, un’eventuale erronea valutazione del materiale istruttorio non determina, di per sé, la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., che ricorre solo allorché si deduca che il giudice di merito abbia posto alla base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali (salva la possibilità di ritenere provati i fatti non specificamente contestati e di far ricorso alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza);
il motivo presenta, infine, palesi violazioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6, ragionando di una mancata rimessione in termini in modo del tutto generico e sorvolando sul rilievo della Corte territoriale circa la mancata reiterazione dell’istanza in sede di appello (pag. 7 della sentenza);
col terzo motivo, il ricorrente denuncia – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – l’omesso esame della relazione di consulenza grafica di parte opponente (che aveva concluso per la falsità della sottoscrizione), censurando la Corte per non averla minimamente presa in considerazione;
il motivo è inammissibile – per quanto detto in relazione al primo motivo- ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5; non potendosi, peraltro, sottacere come la censura sia dedotta in modo del tutto generico, atteso che quanto riproduce del contenuto dell’appello sollecitatorio dell’esame della consulenza di parte risulta inidoneo ad evidenziare la rilevanza e la decisività della doglianza;
il quarto motivo denuncia la “violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2 e art. 1421 c.c., per mancata declaratoria della nullità del contratto di fideiussione del 13.7.2005”: premessa la possibilità di sollevare per la prima volta in sede di legittimità la questione di nullità di un contratto, il ricorrente assume che “la fideiussione 13.7.2005 per cui è causa è nulla poiché contenente clausole (si tratta di quelle contenute nei suoi artt. 2, 6 e 8) ritenute e dichiarate nulle dalla Banca d’Italia quale Autorità Garante della Concorrenza, in quanto inserite in uno schema predisposto dall’Associazione Bancaria Italiana (…) integrante un’intesa restrittiva della concorrenza”;
il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dato che omette completamente di riprodurre le clausole di cui discorre; e ciò al di là del fatto che non indica neppure dove e come i fatti integratori della pretesa nullità fossero stati introdotti nel processo e sarebbero stati rilevabili;
all’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali;
sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
PQM
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021
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