LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. G. S. – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 2476/2016 proposto da:
D.G.T., rappresentata e difesa dall’Avv. Arnaldo Del Vecchio, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Viale Giuseppe Mazzini, n. 73, giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione;
– ricorrente –
e G.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Loredana Menicucci, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Piazza dei Prati degli Strozzi, n. 33, in virtù di delega a margine del controricorso;
– resistente-
e nei confronti di:
I.N.P.S., nella persona del legale rappresentante pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4515/2015 della Corte di appello di ROMA, pubblicata il 23 luglio 2015, non notificata, soggetta a correzione con provvedimento del 15 ottobre 2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 settembre 2021 dal Consigliere Caradonna Lunella.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 320/2012 depositata il 14 maggio 2012, aveva attribuito a G.M., coniuge divorziata del defunto A.V., il 70% della pensione di reversibilità e al coniuge superstite D.T., contumace nel giudizio, la restante quota del 30%.
2. La Corte d’appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha rigettato l’appello proposto dalla D., affermando che della dedotta convivenza con l’ A. fin dal 1988 non vi era prova in atti e che, dunque, si doveva tenere conto della durata dei matrimoni, 34 anni il primo, pochi mesi il secondo e che, anche alla stregua della condizione patrimoniale delle parti, la ripartizione della pensione, come effettuata nella sentenza di primo grado, appariva congrua; né era influente la produzione documentale prodotta in sede di conclusioni sull’invalidità dell’appellante che non risultava avere avuto alcuna incidenza sulla condizione reddituale da lavoro, anche tenuto conto della di gran lunga favorevole situazione economica.
3. D. ha proposto ricorso per cassazione, con atto affidato a quattro motivi.
4. G.M. ha resistito con controricorso.
5. L’I.N.P.S. non ha svolto difese.
6. La ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. Con il primo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c. e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, non avendo la Corte d’appello ammesso l’interrogatorio formale richiesto con l’atto di appello, diretto alla confessione di circostanze decisive per il giudizio.
1.1 Il motivo è inammissibile perché non censura il duplice iter argomentativo della Corte territoriale, laddove afferma in primo luogo che non è stata oggetto di specifica eccezione da parte dell’appellante la regolarità della notifica del giudizio di primo grado e l’asserita impossibilità di costituirsi per motivi di salute, peraltro priva di riscontro probatorio (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) e laddove mette in evidenza, in secondo luogo, la superfluità di ulteriori accertamenti istruttori, alla luce della ininfluenza della documentazione prodotta dalla D. sulla sua condizione di invalidità e della situazione economica della stessa, di gran lunga più favorevole.
1.2 Ciò senza prescindere dalla circostanza che l’art. 345 c.p.c., comma 3, nella formulazione applicabile al caso in esame (prima della modifica operata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, essendo stata la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado depositata il 14 maggio 2012, prima del trentesimo giorno successivo a quello dell’11 settembre 2012, data di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, di conversione del D.L. n. 83 del 2012, cfr. Cass., 14 marzo 2017, n. 6590; Cass., 9 novembre 2017, n. 26522), dunque nel vecchio testo recante le parole “(…salvo) che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero…”, comunque richiede che la parte dimostri di non avere potuto proporre nuovi mezzi di prova o produrre nuovi documenti nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (Cass. Civ., 15 giugno 2018 n. 15762; Cass., 9 novembre 2017, n. 26522), onere non assolto nel caso in esame.
2. Con il secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo, non avendo la Corte d’appello motivato sulla mancata ammissione dell’interrogatorio formale articolato nell’atto di appello e ribadito in comparsa conclusionale e sull’ammissibilità e rilevanza dei capitoli di prova dedotti con l’interrogatorio formale.
2.1 Il motivo è inammissibile, perché l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede l'”omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, come riferita ad un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152).
Inoltre, il vizio dedotto non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511); né la Corte di cassazione può procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 7 gennaio 2014, n. 91; Cass., Sez. U., 25 ottobre 2013, n. 24148).
3. Con il terzo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, perché la Corte d’appello, pur avendo richiamato dei “criteri correttivi”, aveva attribuito rilievo preponderante al criterio temporale della durata dei matrimoni, non tenendo conto degli ulteriori criteri correttivi, oltre che dei periodi di convivenza more uxorio.
4. Con il quarto motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, perché la Corte d’appello aveva fatto ricorso ai criteri correttivi dei redditi e delle proprietà delle parti, solo in modo apparente, erroneo e carente, avendo ignorato il periodo di assistenza fisica e morale svolta dalla D. nei confronti dell’ A.; i gravi problemi di salute della D. e l’ammontare dell’assegno divorzile inferiore rispetto alla quota della pensione di reversibilità attribuita alla G.; la Corte d’appello, poi, avrebbe potuto/dovuto disporre consulenza tecnica d’ufficio contabile e/o accertamenti diretti alla ricostruzione delle condizioni economiche e reddituali della parti, ovvero valutare la condotta della G. che aveva depositato solo il modello 730/2013 ai sensi dell’art. 116 c.p.c..
4.1. I motivi, che vanno trattati unitariamente perché strettamente connessi, sono inammissibili perché diretti a censurare la ricostruzione delle risultanze probatorie al fine di ottenere dal giudice di legittimità l’avallo della diversa prospettazione in fatto in senso favorevole alla domanda della ricorrente.
In tale prospettiva questa Corte non può che ribadire che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa (Cass., 3 ottobre 2019, n. 24738Cass., 28 novembre 2014, n. 25332).
4.2 Tanto premesso, la Corte territoriale si è attenuta ai principi elaborati in tema di determinazione della quota della pensione di reversibilità da questa Corte che ha affermato che la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale” (Cass., 26 febbraio 2020, n. 5268; Cass., 7 dicembre 2011, n. 26358).
Ai fini, poi, della ripartizione del trattamento di reversibilità vanno considerati pure l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali, senza mai confondere, però, la durata delle convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso (Cass., 21 settembre 2012, n. 16093; Cass., 21 giugno 2012, n. 10391).
E tuttavia, il giudice – che pure deve tenere conto dell’elemento temporale (durata del matrimonio), la cui valutazione non può in nessun caso mancare e che, al contempo, non può divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, che deve tenere conto di ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, da individuare facendo riferimento all’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge ed alle condizioni economiche dei due, nonché alla durata delle rispettive convivenze prematrimoniali – può non valutare in egual misura tutti i suddetti elementi, rientrando nell’ambito del prudente apprezzamento del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Corte Cass., 30 marzo 2004, n. 6272; Cass., 7 dicembre 2011, n. 26358; Cass., 15 ottobre 2020, n. 22399).
Va pure ricordato che questa Corte, nell’esaminare la questione attinente alla identificazione del “rapporto” della cui durata deve essere tenuto conto e se la locuzione normativa rinviasse alla durata legale del rapporto matrimoniale, piuttosto che al periodo della effettiva convivenza tra i coniugi, ha affermato che l’espressione normativa richiama la durata effettiva della comunione materiale e spirituale tra il coniuge divorziato e quello superstite e, più precisamente, “la durata del periodo legale del matrimonio tra i detti coniugi e più specificamente che la quota della pensione di reversibilità spettante a ciascuno dei coniugi non può che essere data dal rapporto tra la durata legale del suo matrimonio con l’ex coniuge e la misura costituita dalla somma dei due periodi matrimoniali. Vale a dire che deve essere determinata sulla base di una frazione che ha, quale denominatore, il numero corrispondente alla somma degli anni dei due (o più, nel caso di più divorzi) periodi matrimoniali e, quale numeratore, il numero corrispondente alla durata del suo periodo matrimoniale” (Cass., Sez. U., 12 gennaio 1998, n. 159).
Nello stesso senso, anche la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 23 del 24 gennaio 1991, con la quale ha dichiarato l’infondatezza della eccezione di incostituzionalità del criterio di ripartizione dell’indennità di fine rapporto dettato nella L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, nella parte in cui non lo rapporta alla sola durata della convivenza, dopo avere sottolineato che il riferimento alla “durata legale” del matrimonio costituisce un elemento che caratterizza in modo essenziale tutti gli istituiti riguardanti la determinazione delle posizioni patrimoniali dei coniugi a seguito del divorzio, ha osservato che il contributo dato dall’altro coniuge non può non avere rilievo determinante perché “e’ evidente che quel contributo non cessa con la separazione legale o di fatto” e perché “e’ del tutto ragionevole che il legislatore, una volta fatta la scelta di attribuire la quota dell’indennità in una percentuale predeterminata, abbia preferito ancorarsi ad un dato certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza: non solo perché questa è di non facile accertamento in caso di separazione di fatto, ma perché anche in quella legale essa è soggetta a fasi di reversibilità”.
4.3. Nello specifico, la Corte territoriale, alle pagine 4 e 5 della sentenza impugnata, ha tenuto conto della durata legale dei matrimoni e della situazione reddituale e patrimoniale di entrambi i coniugi, evidenziando che la situazione economica della D. era di gran lunga molto più favorevole, dell’entità dell’assegno divorzile percepito dalla G. pari ad Euro 608,00 mensili e finanche delle condizioni di salute della ricorrente, precisando da un lato che la stessa usufruiva della Casagit per malattia e che, in ogni caso, la condizione di invalidità della stessa non aveva avuto alcuna incidenza sulla condizione reddituale da lavoro.
4.4 I giudici di secondo grado hanno, poi, espressamente affermato, con una ragione del decidere non adeguatamente censurata dalla ricorrente, che della dedotta convivenza, fin dal 1988, della D. con l’ A., non vi era prova in atti (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
In proposito, senza prescindere dal divieto di introdurre nuovi mezzi di prova in appello di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3, va affermato che i capitoli di prova dedotti con l’interrogatorio formale non attengono minimamente alla prova della convivenza della D. con l’ A. e che il contenuto dei documenti richiamati a pagina 27 del ricorso per cassazione (all. 4, doc. n. 12 31), in violazione del principio di autosufficienza, non è stato nemmeno riportato e trascritto nel ricorso, con conseguente inammissibilità della censura svolta (cfr. Cass., 4 ottobre 2018, n. 24340).
4.6 Ancora va rilevato che il diniego di esercizio del potere officioso di disporre indagini sui redditi e sui patrimoni delle parti non è censurabile in sede di legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori (Cass., 18 giugno 2008, n. 16575), come è accaduto nel caso in esame, dove la Corte territoriale espressamente ha ritenuto del tutto superflui ulteriori accertamenti istruttori (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
In ultimo, le Sezioni Unite di questa Corte, di recente, hanno affermato che “in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” (Cass., Sez. U., 30 settembre 2020, n. 20867).
5. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021
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