LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 33979-2019 proposto da:
C.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FABIO MASSIMO N. 60, presso lo studio dell’avvocato MARCO MARASCA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO LAROSA;
– ricorrente –
contro
CR.TA., V.B., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TOMMASO SALVAI 25, presso lo studio SANTINI & PARTNERS, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO CARLI BALLOLA;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 5600/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/09/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/04/20:’ dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIETTA SCRIMA.
RILEVATO
che:
Cr.Ta. e V.B. citarono in giudizio C.O. e, premesso di aver acquistato da quest’ultimo un immobile sito nel comune di *****, chiesero l’accertamento dell’inadempimento del venditore ex art. 1477 c.c. per omessa consegna del certificato di abitabilità di tale immobile al momento della vendita e la condanna dello stesso al risarcimento del danno per la somma quantificata in Euro 57.000,00;
espletata l’istruttoria, and e a mezzo di una consulenza tecnica, il Tribunale di Tivoli rigettò la domanda, condannando gli attori alla refusione delle spese di lite, ritenendo che: 1) non risultava provato che gli attori non fossero a conoscenza della mancanza del certificato in questione, mancanza che non aveva impedito al notaio di stipulare l’atto di compravendita e alla Banca di Roma S.p.a. di concedere agli acquirenti il mutuo all’uopo richiesto; 2) tanto escludeva l’applicabilità dell’art. 1477 c.c., non risultando che il venditore avesse assunto alcun obbligo di consegna del certificato in parola agli acquirenti; 3) il C.T.U. aveva accertato che la domanda per il rilascio dell’atto in parola era stata presentata dal costruttore, S.S., il 2 maggio 2005, relativamente ad entrambi i fabbricati di cui alla concessione in sanatoria espressamente richiamata nel contratto di compravendita e la relativa pratica poteva essere proseguita dai singoli proprietari degli immobili e, quindi, anche dagli attori, essendo gli immobili in possesso dei requisiti necessari; 4) il costo da sostenere per l’acquisizione della documentazione mancante e necessaria per il completamento della pratica era stato quantificato dall’ausiliare in complessivi Euro 5.500,00 circa, importo che ben poteva essere stato considerato in sede di trattativa per la determinazione del prezzo dell’immobile, avendo gli acquirenti dichiarato di ben conoscere ed accettare lo stato di fatto e di diritto in cui l’appartamento si trovava; avverso la sentenza di primo grado Cr.Ta. e V.B. interposero appello;
la Corte d’Appello di Roma, ritenuto sussistente l’inadempimento del venditore in relazione all’obbligazione di consegna del certificato di abitabilità del quale avrebbe dovuto curare la richiesta e sostenere le spese di rilascio, in riforma della sentenza di prime cure, condannò il C. al risarcimento del clf3nno nella misura complessiva di Euro 7.371,00 (pari alla spesa da sostenere per il rilascio del certificato in parola), oltre interessi e rivalutazione, nonché alla rifusione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio;
avverso detta sentenza C.O. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi;
hanno resistito con controricorso illustrato da memoria Cr.Ta. e V.B.;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo il ricorrente, deducendo la “violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.”, sostiene che in primo grado gli attori avevano domandati il risarcimento del danno in ragione della pretesa incommerciabilità dell’immobile acquistato, e che, in sede di gravame, avrebbero introdotto una domanda fondata su fatti costitutivi diversi, consistente nella richiesta di indennizzo per le sole spese necessarie ad ottenere il certificato di abitabilità;
il primo motivo è infondato la giurisprudenza di legittimità ha precisato che esorbita dai limiti di una consentita emendatio libelli il mutamento della causa petendi che consista in una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella precedente (Cass. 12/12/2018, n. 32146; Cass., ord., 23/07/2020, n. 15730);
al contrario, la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi e, quindi, una mutatio libelli, integrando, invece, una mera emendatio libelli, come tale ammissibile sia nel corso del giudizio di primo grado che in, grado di appello (Cass. 19/04/2010, n. 9266);
nel caso di specie, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la domanda articolata in seconde cure non si fonda su fatti costitutivi diversi rispetto a quella proposta con l’atto di citazione introduttivo del giudizio, né sono stati introdotti fatti nuovi atti a modificare la domanda già proposta ed esaminata in primo grado, pertanto, la domanda proposta in appello non ha inserito un nuovo tema di indagine, sul quale non si sia formato il contraddittorio (Cass., ord., 27/09/2018, n. 23415), come peraltro ampiamente evidenziato dalla Corte territoriale (v. sentenza impugnata, p. 4 e 5);
con il secondo motivo di ricorso il ricorrente deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver ritenuto la Corte d’appello, in relazione all’eccezione di novità della domanda proposta dalle controparti, che essa fosse “una mera puntualizzazione di quanto si è verificato nel giudizio di primo grado e della posizione giuridica degli odierni appellanti, considerando che il petitum sostanziale risulta essere corrispondente”, nonché che “la prospettazione di vizi e difetti, costituiva il parametro ai soli fini di quantificazione del deprezzamento, con la conseguenza che l’individuazione dei costi reali (…) altro non è che un diverso parametro di quantificazione”;
ad avviso del ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, in tale parte, contraddittoria, in quanto la Corte di merito ha ritenuto che le domande articolate in primo e secondo grado si fondino sui medesimi fatti costitutivi e l’iter logico seguito dalla medesima Corte sarebbe gravemente viziato;
il secondo motivo è inammissibile, in quanto l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012, individua un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e. abbia carattere decisivo (Cass. n. 27415/2018; Cass. n. 16703/2018; Cass., Sez. un., n. 8053/2014);
nella specie, con le censure formulate nell’illustrazione del motivo all’esame, il ricorrente, lungi dal proporre delle doglianze che rispettano il paradigma legale cui all’art. 360 c.p.c., novellato n. 5 non individua alcun fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso da parte della Corte territoriale e ripropone, come peraltro chiaramente indicato già nella rubrica del motivo all’esame, inammissibilmente lo stesso schema censorio del n. 5 nella sua precedente formulazione, inapplicabile ratione temporis;
con il terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 91 c.p.c., per avere la corte d’appello posto le spese di prime cure a suo carico, benché le difese svolte nel giudizio abbiano determinato un accoglimento parziale della domanda attorea;
il motivo all’esame è inammissibile, in quanto in tema di spese processuali, il sindacato delle Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass., ord., 17/10/2017, n. 24502; Cass., ord., 4/08/2017, n. 19613; Cass. 4/06/2007, n. 12963);
nel caso di specie, la Corte territoriale non ha violato il divieto di porre le spese a carico della parte vittoriosa, valutandosi la soccombenza dall’esito complessivo della lite, rispetto alla quale l’odierno ricorrente è rimasto soccombente;
alla luce di quanto sopra evidenziato, il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3 della Corte Suprema di Cassazione, il 27 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021