LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28404/2016 proposto da:
P.G. S.P.A., elettivamente domiciliata in Torino Corso Lecce n. 13, presso lo studio dell’avv.to DANIELE MICHELETTA TITA’, che la rappresenta e difende unitamente all’avv.to RODOLFO UMMARINO;
– ricorrente –
contro
MA SRL;
– intimata –
avverso la sentenza n. 995/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/05/2021 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.
FATTI DI CAUSA
1. La P.G. s.p.a. conveniva in giudizio dinanzi il Tribunale di Torino la MA s.r.l. per sentirla condannare alla restituzione dell’importo di Euro 11.532,05 a titolo di maggior somma percepita non dovuta, con ulteriore declaratoria di nulla dovere in relazione alla somma di Euro 16.721,23 richiesta dalla convenuta in via riconvenzionale. L’attrice asseriva di aver intrattenuto rapporti con la convenuta alla quale aveva affidato lavorazioni di materiale proprio, da effettuarsi con macchinario fornito in uso, con l’intesa che i prezzi non avrebbero subito variazioni rispetto ai fornitori che avevano in precedenza intrattenuto rapporti con l’attrice.
La P.G. s.p.a., dopo aver provveduto al pagamento di alcune fatture, aveva emesso una nota di credito per somme asseritamente pagate in eccesso rispetto agli accordi e, pertanto, non aveva onorato le ulteriori fatture emesse dalla società MA per i lavori eseguiti per un importo di Euro 16.721,23.
1.1 Si costituiva la società MA che, in via riconvenzionale, chiedeva il pagamento del saldo delle prestazioni di cui alle fatture non onorate per la somma di Euro 16.721,23.
2. Il Tribunale, dopo aver invitato le parti a prendere posizione circa la natura giuridica del rapporto controverso, lo qualificava quale contratto di subfornitura, riteneva nullo il contratto per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam, respingeva le domande avanzate dall’attrice e, in accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta, in applicazione della L. n. 192 del 1998, art. 2, condannava la P.G. s.p.a. al pagamento dell’importo di Euro 16.721,23, oltre interessi e ad Euro 5837,45 per spese legali e ad ulteriori Euro 5837,45 ex art. 96 c.p.c., comma 3.
3. La P.G. S.p.A. proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
4. La Corte d’Appello di Torino rigettava l’impugnazione. Il giudice del gravame evidenziava che il Tribunale aveva accolto la riconvenzionale in forza del disposto della L. n. 192 del 1978, art. 2, che prevedeva, in caso di nullità del rapporto per carenza di forma scritta, il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto. La norma, in caso di nullità del rapporto per carenza di forma scritta, attribuiva il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto. Pertanto, non poteva agirsi in via residuale con l’azione ex art. 2041 c.c.. Dunque, la decisione del Tribunale era pienamente condivisibile dal momento che la stessa norma che prevedeva la forma scritta ad substantiam attribuiva il diritto al pagamento delle prestazioni al subfornitore in presenza di nullità del contratto.
4.1 Secondo la Corte d’Appello vi era prova dell’accordo sui prezzi che non erano stati contestati fino a una certa data, con il pagamento di ben quattro fatture senza riserve, benché gli stessi fossero maggiori di oltre due volte rispetto a quelli apparentemente concordati. Pertanto, non era credibile il comportamento dell’appellante, che non aveva avanzato riserve al listino prezzi inviato nel gennaio 2013 provvedendo a pagare fatture che applicavano i prezzi ivi indicati e avanzando contestazioni solo sei mesi dopo. Peraltro, le fatture erano state inserite anche nella contabilità aziendale, senza che neppure l’ufficio amministrativo della società si fosse accorto della differenza di prezzo contabilizzato. Non poteva ritenersi che l’amministrazione aziendale di una società come quella dell’appellata avesse provveduto ad effettuare i pagamenti senza verificare la corrispondenza dei prezzi con quanto pattuito. Pertanto, doveva condividersi la motivazione della sentenza impugnata che individuava quale presupposto dell’accoglimento della riconvenzionale formulata dalla convenuta – oltre che nella espressa previsione legislativa di cui alla L. n. 192 del 1998, art. 2 – anche nel comportamento di malafede posto in essere dalla parte appellante. Infatti, la pretesa di conseguire il vantaggio delle lavorazioni effettuate dalla MA Srl senza corrispondere alcun corrispettivo, neppure secondo i costi ritenuti concordati dalla stessa P.G. s.p.a. e rifiutando qualsiasi proposta transattiva avanzata dall’appellata, non poteva ricondursi ad un comportamento di buona fede. Peraltro, l’invio del listino prezzi avrebbe potuto configurarsi come proposta scritta da ritenersi accettata per il comportamento concludente dell’altro contraente, sicché aderendo a tale prospettazione poteva giungersi alla medesima conclusione cui era pervenuto il giudice di primo grado. Quanto alla condanna per lite temeraria il comportamento della P.G. s.p.a. era stato gravemente scorretto per le ragioni già esposte, volte a trarre il massimo beneficio senza corrispondere alcunché per le operazioni effettuate dalla controparte. Inoltre, la tesi sostenuta era palesemente pretestuosa e contraria al diritto vivente.
5. La P.G. S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di due motivi di ricorso. La società MA è rimasta intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione della L. n. 192 del 1998, art. 2,artt. 1418,1423 e 1173 c.c., art. 112 c.p.c..
La ricorrente censura, in primo luogo, l’affermazione della Corte d’Appello circa la conclusione del contratto mediante il mero invio del listino prezzi e il suo successivo comportamento concludente individuato nel pagamento delle fatture. La ricorrente richiama il contenuto della propria comparsa di risposta dove aveva riportato delle e-mail il cui contenuto dimostrerebbe la mancanza dei contenuti minimi del contratto di fornitura come desumibili dalla L. n. 192 del 1998, art. 2, comma 5.
Quanto alla fonte dell’obbligazione, la ricorrente lamenta che essa sia stata individuata nel suo comportamento di mala fede, mentre il comportamento tenuto da uno dei contraenti nell’esecuzione del contratto non può essere fonte di obbligazioni. In ogni caso, alla declaratoria della nullità del contratto avrebbe dovuto seguire l’inutilizzabilità a fini probatori delle pattuizioni verbali e, dunque, non poteva essere ritenuta provata la domanda riconvenzionale.
Secondo la ricorrente, il contraente in buona fede avrebbe diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate solo nel caso di assenza del contratto, mentre in caso di contratto nullo avrebbe solo il diritto all’indennizzo per arricchimento indebito, ai sensi dell’art. 2041 c.c..
1.2 Il primo motivo è in parte inammissibile in parte infondato.
Il ricorrente individua e censura due diverse ratio decidendi. La prima censura, relativa all’applicabilità al caso di specie della L. n. 192 del 1998, art. 2, è infondata e il suo rigetto determina l’inammissibilità della seconda avente ad oggetto la statuizione – fatta ad abundantiam – circa la conclusione del contratto di subfornitura mediante l’invio del listino prezzi da ritenersi come proposta accettata con un comportamento concludente dell’altro contraente.
Il Tribunale e la Corte d’Appello hanno qualificato il rapporto intercorso tra le parti come contratto di subfornitura e tale qualificazione non è oggetto di contestazione così come la sua nullità, in quanto, contrariamente al disposto normativo della L. n. 192 del 1998, art. 2, il negozio non è stato stipulato in forma scritta. La L. n. 192 del 1998, art. 2, comma 1, testualmente recita: “Il rapporto di subfornitura si instaura con il contratto, che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità. Costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica. In caso di nullità ai sensi del presente comma, il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto”.
In caso di nullità del contratto di subfornitura per mancanza di forma, dunque, il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate ed al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.
Risulta, pertanto, del tutto priva di fondamento la tesi del ricorrente circa l’applicabilità della L. n. 192 del 1998, art. 2, comma 1, solo in caso di assenza di contratto e non in caso di contratto nullo. La norma, infatti, si riferisce espressamente all’ipotesi di contratto nullo per mancanza di forma, come quello in esame.
Inoltre, il pagamento è subordinato alla buona fede solo in relazione alle spese sostenute e non per le prestazioni effettuate. In nessun modo rileva, invece, la mala fede del committente che la Corte d’Appello ha evidenziato per motivare la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c..
Quanto alla censura della seconda ratio decidendi della sentenza impugnata si è già richiamato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui: Ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse (o il rigetto del motivo di ricorso per cassazione) rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, che in nessun caso potrebbero produrre l’annullamento della sentenza, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata (ex plurimis Sez. U., Sent. n. 7931 del 29/03/2013; Sez. 6-5, Ord. n. 9752 del 2017; Sez. 1, Ord. n. 18119 del 2020).
Infine, con il motivo in esame il ricorrente formula anche una censura di mancanza di prova per l’accoglimento della domanda riconvenzionale della società MA. Tale censura è inammissibile in quanto, oltre ad essere del tutto generica, si risolve in una mera richiesta di rivalutazione in fatto della vicenda.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.
La censura attiene alla condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., comma 3, nonostante la mancanza dei presupposti che ne giustifichino l’applicazione.
La società ricorrente ritiene che la sentenza sia erronea tanto nella parte in cui afferma la sussistenza della colpa per aver tentato di sottrarsi al pagamento di quanto dovuto quanto nella parte in cui pone l’equazione secondo la quale alla tesi giuridica respinta segue automaticamente la condanna per responsabilità aggravata.
2.1 Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Osserva il collegio che anche in questo caso la motivazione della Corte d’Appello di Torino circa la sussistenza dei presupposti per condannare la parte ex art. 96 c.p.c., comma 3, è supportata da una duplice ratio decidendi, avendo riscontrato la Corte d’Appello tanto la colpa grave che il cd. “abuso del processo” per aver agito o resistito pretestuosamente.
Nella specie la Corte d’Appello ha confermato la statuizione del Tribunale secondo cui il comportamento della società ricorrente era contrario alla buona fede e caratterizzato dalla colpa grave, in quanto finalizzato a trarre il massimo beneficio dal rapporto con la società MA senza corrispondere alcunché per le lavorazioni effettuate e ricevute senza contestazioni. Inoltre, la Corte d’Appello ha richiamato un orientamento di questa Corte secondo il quale il giudice può condannare d’ufficio a risarcire la controparte in caso di gravame contenente una tesi inusuale in punto di diritto in quanto contraria al diritto vivente. In proposito, secondo la Corte d’Appello, la tesi sviluppata dalla ricorrente circa il fatto che in presenza della nullità del contratto di subfornitura per mancanza di forma non sia possibile fare riferimento ai rapporti intercorsi tra le parti, ignorando della L. n. 192 del 1998, art. 2 (rectius art. 1), che tutela il pagamento delle prestazioni effettuate in presenza della nullità del contratto per difetto di forma è una tesi insostenibile in punto di diritto e, dunque, sicuro indice di responsabilità ex art. 96 c.p.c., comma 3.
Ciò premesso, deve rilevarsi che, sotto il profilo della valutazione in concreto dell’elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave, l’accertamento si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi come quella sopra riportata. Anche il giudizio di pretestuosità della tesi difensiva sostenuta è congruamente motivato in riferimento alla espressa previsione legislativa che prevede il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni già effettuate nel caso di nullità per mancanza di forma scritta del contratto.
5. Il ricorso è rigettato senza condanna alle spese, non essendosi costituita la società MA rimasta intimata.
6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021
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