LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10288/2016 proposto da:
F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO ALBERA 33, presso lo studio dell’avvocato ANNA LISI, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO CORTINA;
– ricorrente –
contro
F.M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 6, presso lo studio dell’avvocato PIERBIAGIO TAVANIELLO, rappresentato e difeso dall’avvocato FABRIZIO ZOLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 515/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. F.F. ha proposto ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 515/2016 della Corte d’appello di Roma, depositata il 27 gennaio 2016.
F.M.P. resiste con controricorso.
2. La Corte d’appello di Roma ha accolto il gravame proposto da F.M.P. contro la sentenza resa dal Tribunale di Frosinone il 1 febbraio 2007, rigettando la domanda formulata in via riconvenzionale da F.F. per conseguire il rimborso della somme da lui versate per la manutenzione ed il miglioramento dell’intero fabbricato sito in via *****, il quale comprende soltanto due unità immobiliare di rispettiva proprietà esclusiva delle parti. I giudici di secondo grado hanno ravvisato nella fattispecie un condominio minimo, con conseguente applicabilità dell’art. 1134 c.c., negando il diritto al rimborso delle spese anticipate per le parti comuni da F.F., stante la carenza dell’attributo di indifferibilità delle stesse, alla stregua delle risultanze della CTU. E’ stata invece confermata la statuizione del Tribunale attinente al diritto di F.F. di conseguire il rimborso delle spese sostenute per i lavori svolti sulla porzione di proprietà esclusiva di F.M.P. ed al diniego dell’ordine di riduzione in pristino delle medesime opere.
3. La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c.. Il ricorrente ha presentato memoria.
4. Il primo motivo di ricorso di F.F. deduce la violazione degli artt. 1104 e segg. e dell’art. 1117 c.c. e la “falsa applicazione dell’istituto del condominio” e dell’art. 1134 c.c., la censura evidenzia come il ricorrente avesse sostenuto ingenti somme per i lavori di manutenzione e di ristrutturazione necessari alla conservazione dell’intero fabbricato, ciò per l’aspettativa di divenire unico proprietario dello stesso ingenerata dalla madre Fr.Ro. e per l’inerzia della sorella F.M.P., di seguito divenuta proprietaria del vano cantina all’insaputa di F.F..
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e mancata applicazione dell’art. 2028 c.c., non avendo la Corte d’appello “preso in considerazione l’istituto della gestione d’affari”, essendo F.M.P. a conoscenza dell’attività gestoria di F.F. ed avendo perciò al riguardo mostrato tolleranza.
4.1. I primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perché connessi, denotano plurimi profili di inammissibilità.
Il ricorrente, pur invocando soltanto la violazione di norme di diritto, sollecita questa Corte a prescegliere diverse qualificazioni giuridiche della fattispecie rispetto a quelle accertate in fatto dalla Corte di Roma, quanto, in particolare, alla qualificazione del contesto proprietario come di semplice comunione e non di condominio. Le prime due censure, ancora, chiedono di valutare circostanze di cui neppur vi è menzione nella sentenza impugnata, senza che il ricorrente deduca in quale atto del giudizio di merito avesse allegato tali questioni, come impone l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Ciò, in particolare, quanto ai presupposti di fatto per la configurabilità della “negotiorum gestio”, che non possono accertarsi per la prima volta nel giudizio di cassazione, ovvero l’intenzione di F.F. di gestire un affare altrui (contraddetta dalla dedotta aspettativa di divenire unico proprietario dell’immobile), la spontaneità dell’intervento, l’impossibilità di intervenire da parte della comproprietaria interessata, l’alienità dell’affare, l’utilità dell’inizio della gestione.
Egualmente inammissibile è l’invocazione di una diversa valutazione delle risultanze probatorie, la quale non è nemmeno riferibile al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134.
Va poi osservato che il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto in ordine all’applicabilità dell’art. 1134 c.c., in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte, e l’esame del motivo non offre elementi per mutare l’orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1 (Cass. Sez. U., 21/03/2017, n. 7155).
La censura non si contrappone con specificità, agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 4, alla ratio decidendi della sentenza della Corte d’appello, la quale ha argomentato l’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 1134 c.c. (testo previgente alla modifica operata con la L. n. 220 del 2012). Questa Corte ha del resto costantemente spiegato come non occorra, ai fini della costituzione del condominio, una manifestazione di volontà dei partecipanti diretta a produrre l’effetto dell’applicazione degli artt. 1117 c.c. e segg.. La situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario opera il frazionamento della proprietà di un edificio, trasferendo una o alcune unità immobiliari ad altri soggetti, e così determinando la presunzione legale di cui all’art. 1117 c.c., con riguardo alle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766). Costituitosi, pertanto, da tale momento ex facto il condominio, si applica la relativa disciplina codicistica, ivi compreso l’art. 1134 c.c., il quale, a differenza dell’art. 1110 c.c., che opera in materia di comunione ordinaria, regola il rimborso delle spese di gestione delle parti comuni sostenute dal partecipante non alla mera trascuranza o tolleranza degli altri comunisti (come ipotizza il ricorrente), quanto al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza, intendendo la legge trattare nel condominio con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nell’amministrazione dei beni in comproprietà. Ne discende che, istaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, situazione che si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile soltanto nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (così Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015; Cass. Sez. 2, 23/09/2016, n. 18759). Tale requisito dell’urgenza (neppure prospettato dal ricorrente a sostegno della sua pretesa) condiziona il diritto al rimborso del condomino gestore, il quale deva darne prova, e si spiega come dimostrazione che le spese anticipate dal singolo fossero indispensabili per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, e dovessero essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini, sulla base di accertamento di fatto spettante al giudice del merito (Cass. Sez. 6-2, 08/06/2017, n. 14326). Nulla è invece dovuto in caso di mera trascuranza degli altri comproprietari, non trovando applicazione le norme in materia di comunione (art. 1110 c.c.). Ciò vale anche per i condomini composti da due soli partecipanti, la cui assemblea si costituisce validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decide validamente. Se non si raggiunge l’unanimità e non si decide, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, come previsto dagli artt. 1139 e 1105 c.c. (Cass. Sez. 2, 16/04/2018, n. 9280; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015; Cass. Sez. U., 31/01/2006, n. 2046).
La stessa gestione di affari, inammissibilmente invocata dal ricorrente, supporrebbe la prova della paralisi di attività da parte dell’assemblea condominiale, organo cui spetta la competenza di compiere l’atto di manutenzione che viene in considerazione (Cass. Sez. 3, 15/10/1963, n. 2757).
5. Il terzo motivo di ricorso di F.F. deduce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e del D.M. n. 55 del 2014. La Corte d’appello, all’esito del parziale accoglimento del gravame, ha dunque respinto la domanda di F.F. volta al rimborso della somme da lui versate per la manutenzione dell’intero immobile, e lasciato ferma per il resto la sentenza di primo grado in ordine alla domanda di rivendica e restituzione della propria porzione del fabbricato formulata da F.M.P. ed alla domanda di F.F. per il rimborso delle spese relative ai lavori svolti sulla porzione di proprietà esclusiva di F.M.P.. Le spese processuali sono state regolate compensando per un terzo le stesse e condannando F.F. a rimborsare la frazione residua a F.M.P., liquidata in Euro 4.916,00 per il giudizio di primo grado ed in Euro 4.507,00 per il giudizio di appello.
Il terzo motivo di ricorso lamenta la mancata compensazione delle spese, avendo la sentenza impugnata condannato alle spese F.F., benché vittorioso per il parziale accoglimento della propria riconvenzionale. E’ inoltre dedotta la mancata applicazione del valori medi dei compensi di cui alle tabelle, ex art. D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto del valore della causa compreso nello scaglione tra Euro 5.200 ed Euro 26.000 dichiarato da F.M.P. nell’atto di appello.
5.1. Il terzo motivo di ricorso va respinto.
5.2. Quanto alla doglianza sulla mancata compensazione, essa è del tutto priva di fondamento, in quanto, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione e’, dunque, limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite nell’ipotesi di soccombenza reciproca (cfr. Cass. Sez. 3, 11/01/2008, n. 406; Cass. Sez. 1, 04/08/2017, n. 19613).
D’altro, canto, per costante orientamento di questa Corte, la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca o parziale e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (tra le tante, Cass. Sez. 2, 31/01/2014, n. 2149; Cass. Sez. 3, 11/01/2008, n. 406).
Non è dunque sindacabile in sede di legittimità la statuizione della sentenza d’appello che, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, provveda all’accoglimento parziale delle reciproche domande proposte in via principale e riconvenzionale, articolate in più capi, dei quali alcuni accolti ed altri rigettati, e, nello statuire nuovamente sulle spese, provveda alla liquidazione di entrambi i gradi di giudizio considerando la sussistenza di una situazione di soccombenza reciproca e perciò compensando parzialmente tra le parti delle spese processuali.
5.3. E’ poi inammissibile il terzo motivo nella parte in cui il ricorrente deduce l’eccessività delle spese liquidate in favore della controparte sulla base di una errata determinazione del valore della controversia, rilevante ai fini dello scaglione applicabile, il che comporta altresì l’erroneità dei parametri tariffari individuati nella censura come base di calcolo. Il motivo individua il valore della causa come compreso nello scaglione tra Euro 5.200 ed Euro 26.000, traendone argomento dalla dichiarazione fatta da F.M.P. nell’atto di appello. Sennonché, è noto come l’indicazione del valore della causa riportata in calce all’atto introduttivo ai fini della determinazione del contributo unificato dovuto per legge ha finalità esclusivamente fiscale e non può spiegare alcun effetto agli effetti della determinazione del valore della controversia (cfr. Cass. Sez. 2, 20/12/2007, n. 26988). Piuttosto, il valore delle cause relative a beni immobili (fra le quali quella di rivendica, come è stata qualificata la domanda proposta in primo grado da F.M.P.) si determina sulla base del reddito dominicale o della rendita catastale della “res” (da moltiplicare secondo i parametri di cui all’art. 15 c.p.c.), con la conseguenza che, in assenza sia dell’uno che dell’altra, il giudice deve attenersi alle risultanze degli atti e, non emergendo da essi concreti ed attendibili elementi per la stima, ritenere la causa di valore indeterminabile. Ove trovassero applicazione, quindi, i compensi stabiliti per le cause di valore compreso tra Euro 26.000,01 ed Euro 52.000,00, la liquidazione effettuata dalla Corte d’appello di Roma sarebbe del tutto conforme ai valori medi fissati nella tabella del D.M. n. 55 del 2014, applicabile ratione temporis.
D’altro canto, trattandosi di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. n. 55 del 2014, neppure sussiste, come assume il ricorrente, un vincolo normativo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione.
5.4. Il ricorso va perciò rigettato ed il ricorrente va condannato a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021
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