Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.27210 del 07/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2982/2016 proposto da:

Z.A.M., G.A.D., elettivamente domiciliati in Roma, Viale delle Medaglie d’Oro, n. 399, presso lo studio dell’avvocato Carlo Cecchi, rappresentati e difesi dall’avvocato Emanuele Prati, per procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Unicredit s.p.a., e per essa la mandataria doBank s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazzale Belle Arti, n. 8, presso lo studio dell’avvocato Ignazio Abrignani, che la rappresenta e difende per procura speciale per scrittura autenticata dal notaio P.C.C. il 7 luglio 2017, Rep. n. *****;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1205/2015 della Corte di appello di Bologna, depositata il 26 giugno 2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7 luglio 2020 dal Consigliere Dott. Marco Vannucci.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza emessa il 17 ottobre 2009 il Tribunale di Forlì: rigettò le domande dei coniugi Z.A.M. e G.A.D. di accertamento negativo di propri debiti nei confronti della Unicredit Banca s.p.a. e di condanna di tale banca al risarcimento del danno asseritamente derivato loro dal comportamento, illegittimo e contrario a buona fede, dello stesso istituto di credito; condannò i coniugi a pagare alla banca Euro 707.019,10, oltre interessi.

1.1 Il Tribunale ritenne infondate le deduzioni degli attori secondo cui la banca aveva contravvenuto alle regole di buona fede operando scorrettamente, concedendo a Z. fidi (il primo dei quali di Lire 3.000.000.000) che avevano invogliato ad investimenti a rischio, poi riducendo improvvisamente il fido, imponendo un pegno che non consentiva rapidi investimenti e smobilizzi per rientrare delle perdite, promuovendo l’acquisto di titoli senza adeguate informazioni sul profilo dell’investitore e sui rischi delle operazioni.

A giudizio del Tribunale la banca aveva riservato al cliente un trattamento di assoluto favore e aveva ridotto giustificatamente la linea di credito e tale soluzione venne concordata tra le parti. La dedotta violazione degli obblighi informativi ai sensi del t.u. finanza era del tutto generica quanto alle operazioni contestate, né era dimostrato alcun nesso di causalità, e in più il cliente era tutt’altro che inesperto. La banca era quindi legittimamente receduta dai rapporti e aveva revocato la linea di credito a seguito di mancata restituzione di una rata di mutuo.

2. Adita dalle parti soccombenti la Corte di appello di Bologna, con sentenza pubblicata il 26 giugno 2015, confermò dette decisioni.

2.1 Questa, in sintesi, la risposta ai motivi di appello: la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero in procedimento di indagini preliminari relativo ai fatti di causa (definito con l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato) non evidenzia fatti tali da scalfire la ricostruzione contenuta nella sentenza di primo grado che, correttamente, ritenne non in malafede la decisione della banca di concedere al cliente Z. affidamento ampliativo del precedente fino a lire tre miliardi, essendo tale persona da tempo ben conosciuta, adusa a investimenti e disinvestimenti variegati e diversificati “in proprio” (come è dato desumere dal relativo portafoglio, anteriore e successivo al periodo 1999-2000) e che nell’anno 2002 ebbe a dichiarare una propensione al rischio “media”; il fatto che non sia stata richiesta alcuna garanzia al cliente, non vi sia Delibera motivata degli amministratori della banca e che questa era a conoscenza della condizione di Z. e della sua volontà di destinare il danaro “a speculazioni borsistiche va…semmai a sfavore dell’istituto, che evidentemente all’inizio non si cautelò a sufficienza, visti gli acquisti di titoli per circa 2 miliardi in circa 2 mesi (novembre-dicembre 2000)”; è irrilevante accertare da chi pervenne la richiesta o l’offerta di estensione dell’affidamento in quanto “si tratta di un contratto bilaterale e di un rapporto di cui Z. ha ampiamente e del tutto consapevolmente usufruito nel tempo, non risultando che gli investimenti gli fossero stati suggeriti o imposti da nessuno”; le prove per testimoni di cu gli appellanti hanno reiterato l’ammissione sono inammissibili in quanto “non furono specificamente e tempestivamente articolate in primo grado (neppure nelle memorie 23.1 e 9.12.2008 ove si rinvia solo “ai fatti e alle circostanze indicati nella narrativa”)”; non è neppure censurabile il comportamento successivo della banca, dal momento che il peggioramento della situazione debitoria di Z., conseguente al cattivo risultato dei suo investimenti di natura speculativa, venne nel tempo arginata con cautele progressivamente crescenti da parte dell’istituto” (concessione di mutuo garantito da ipoteca concessa da G., moglie di Z.; riduzione dell’apertura di credito garantita da ipoteca sui beni di G., da sua fideiussione e da pegno sui titoli depositati dal cliente presso la banca); non può imputarsi alla banca “il cattivo andamento del mercato borsistico o la crisi successiva all’11.9.2001, o l’aver limitato le scelte speculative dello stesso Z.; sempre tenacemente attestata dalla corrispondenza in atti anche quando il suo deposito titoli era vincolato”; non può essere disposta la consulenza tecnica contabile sollecitata dagli appellanti. per le ragioni specificamente illustrate nella pag. 7 della sentenza.

3. Per la cassazione di tale sentenza Z. e G. proposero ricorso contenente quattro motivi di impugnazione.

4. La Unicredit s.p.a. oppose controricorso.

5. Le parti hanno depositato memorie.

6. Il collegio ha disposto che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti censurano la sentenza perché questa sarebbe caratterizzata da violazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 101 e 115 c.p.c., da omessa motivazione e, infine, da omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, nella parte in cui non è stata ammessa la prova per testimoni da essi ricorrenti reiterata con l’atto di appello.

2. Premesso che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sente’nza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ed è rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4), si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (in questo senso, cfr., per tutte: Cass. S.U. n. 15982 del 2001; Cass. n. 6715 del 2013; Cass. n. 13716 del 2016), la censura, per come dedotta, è inammissibile, avendo la sentenza impugnata specificamente indicato (come del resto ammesso dagli stessi ricorrenti) la ragione alla base della decisione negatoria dell’accesso alla prova per testimoni (da tale motivazione si desume con chiarezza che secondo la Corte di appello la richiesta di ammissione di prova per testimoni sui fatti indicati nella parte narrativa della citazione non costituisce adempimento all’obbligo, imposto dall’art. 244 c.p.c., di indicazione specifica dei fatti sui quali ciascun testimone deve essere interrogato), sì che la deduzione di assenza, ovvero di apparenza, di motivazione sul punto non è neppure astrattamente predicabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Quanto all’ulteriore profilo (relativo alla mancata ammissione di prova contraria sui fatti contenuti nei capitoli di prova per testimoni dedotti dalla banca), non sussisteva alcun obbligo per il giudice di appello di motivare il diniego di ammissione di prova contraria diretta sui capitoli formulati dalla banca, dal momento che non risulta che l’istanza da quest’ultima avanzata sia stata accolta.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono che, nella parte in cui la sentenza di appello non ha esaminato gli elementi di fatto “contenuti nella consulenza tecnica depositata in atti e redatta da Dott. F. su incarico del PM della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Forlì nel parallelo procedimento penale”, essa sarebbe caratterizzata da: “omesso esame circa fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., n. 5, oggetto di discussione nella lite; violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 e dell’art. 111 Cost.; violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nella parte in cui la nullità della sentenza deriva dalla mancanza di motivazione.

4. Anche tale motivo è inammissibile, in quanto: privo del relativo oggetto, risultando con chiarezza dalla sentenza impugnata (pagg. 5 e 6) che la Corte di appello ha esaminato il contenuto della relazione di consulenza tecnica (acquisita agli atti del processo di merito), e dei relativi allegati, depositata nel procedimento di indagini preliminari nella sentenza medesima indicato; tendente all’evidenza a sollecitare una valutazione di fatti alternativa a quella fatta dalla sentenza di appello, in questa sede non consentita.

5. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, per le ragioni da essi illustrate, che la sentenza è caratterizzata da violazione dell’art. 115 c.p.c., che impone al giudice di fondare la propria decisione su fatti non contestati.

6. Il motivo, per come dedotto è inammissibile, in quanto i ricorrenti: non indicano con precisione quali fatti non siano stati specificamente contestati dalla banca nel corso del giudizio di merito, con conseguente non autosufficienza del motivo sul punto; considerano equivalente alla non contestazione di fatti da parte della banca il giudizio valutativo espresso su determinati fatti nella sopra citata relazione di consulenza tecnica d’ufficio (pagg. 37-39 del ricorso), confondendo così un fatto affermato da una delle parti (che può, in tesi, essere non contestato dalla controparte con conseguente applicazione del precetto di cui all’art. 115 c.p.c., comma 1) con la valutazione che dello stesso viene data da un terzo.

7. Infine i ricorrenti censurano la sentenza perché questa sarebbe caratterizzata da violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 115 c.p.c. e da omessa motivazione nella parte in cui non è stata officiosamente disposta la sollecitata consulenza contabile d’ufficio.

8. Anche tale doglianza è inammissibile, in quanto mira a censurare la motivazione, puntuale, specifica, scevra da formule di stile, caratterizzante la sentenza impugnata (pag. 7), come tale in questa sede non sindacabile, fondante la decisione di non disporre la, sollecitata, consulenza tecnica d’ufficio.

9. In conclusione, il ricorso è inammissibile; con conseguente condanna dei ricorrenti a rimborsare alla controricorrente le spese processuali da questa anticipate nel giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti a rimborsare alla controricorrente le spese da quest’ultima anticipate nel grado, liquidate in Euro 8.000 per compenso di avvocato, oltre spese forfetarie pari al 15% di tale compenso, I.V.A. e c.p.A. come per legge, ed Euro 200 per esborsi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021

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