LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21413/2016 proposto da:
D.B.P., rappresentato e difeso dall’Avvocato CLAUDIO VERINI, ed elettivamente domiciliato, presso lo studio dell’Avv. Roberto Carleo, in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1;
– ricorrente –
contro
ENGYCALOR ENERGIA CALORE s.r.l., in persona del presidente e legale rappresentante pro tempore B.S., rappresentata e difesa dall’Avvocato VITTORIO MORESCO, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, in ROMA, P.zza VENEZIA 11;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 284/2016 della CORTE d’APPELLO di L’AQUILA, pubblicata il 17/03/2016.
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/04/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 316/2014 dell’11.9.2014, il Tribunale di L’Aquila – Sezione Lavoro accertava la legittimità del dissenso manifestato da D.B.P. ad aderire alla proposta di cessione del contratto di agenzia alla P. Lubrificanti s.r.l. da parte della ENGYCALOR ENERGIA CALORE s.r.l., condannando quest’ultima al pagamento in favore del predetto agente della complessiva somma di Euro 28.458,71, a titolo di indennità di mancato preavviso, indennità suppletiva di clientela e indennità meritocratica.
Avverso detta sentenza proponeva appello la Engycalor, la quale censurava la non corretta valutazione delle circostanze di fatto acquisite in giudizio e i termini utilizzati per comparare la realtà commerciale della società cessionaria, che avrebbero mostrato la non ragionevolezza del dissenso, nonché la condanna al pagamento dell’indennità di preavviso (nella parte in cui non teneva conto dell’annullamento/superamento del precedente rapporto di agenzia) e dell’indennità ex art. 12 III) AEC, rispetto alla quale l’agente non aveva fornito alcuna prova di aver procurato nuovi clienti o sviluppato quelli esistenti. Concludeva per il rigetto delle domande.
Si costituiva in giudizio D.B.P. chiedendo il rigetto del gravame con condanna dell”appellante al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. e svolgendo appello incidentale in ordine all’omessa condanna dell’appellante anche al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle somme liquidate in sentenza.
Con sentenza n. 284/2016, depositata in data 17.3.2016, la Corte d’Appello di L’Aquila – Sezione Lavoro accoglieva il gravame condannando l’appellato D.B. alle spese di lite per i due gradi di giudizio. In particolare, la Corte territoriale premesso che fosse pacifico che le parti con contratto del giugno 2011 avessero disciplinato con effetto novativo il rapporto di agenzia in essere, prevedendo la cedibilità del contratto solo previo consenso scritto dell’altra parte, che tuttavia “non potrà essere irragionevolmente negato” – evidenziava come la questione vertesse sulla verifica della ragionevolezza del dissenso alla cessione del contratto di agenzia alla P. Lubrificanti s.r.l., cessionaria dell’intero ramo di azienda relativo alla commercializzazione di lubrificanti finiti già facente capo all’appellante. Le giustificazioni addotte dall’agente (mancata conoscenza della società cessionaria, modesta dimensione della realtà imprenditoriale, operatività solo su base regionale e mancanza di un sito web) sostanzialmente collegavano il rifiuto a una valutazione di scarsa affidabilità economica della cessionaria e alle caratteristiche locali della gestione imprenditoriale. Secondo la Corte d’Appello tali elementi risultavano smentiti dalla documentazione acquisita in atti (dal contratto di cessione, prodotto dall’appellante, risultava che all’epoca dei fatti la medesima aveva un capitale sociale di Euro 20.659,00, mentre dalla visura storica della P. Lubrificanti, prodotta dall’appellato, risultava che alla stessa data quest’ultima aveva un capitale di Euro 100.000,00; dal bilancio della P. s.r.l. al 31.12.2011, prodotto dall’appellante in primo grado, risultava che i due esercizi precedenti alla cessione si fossero chiusi in attivo con un utile rispettivamente di oltre Euro 162.000,00 e di oltre Euro 152.000,00, che il fatturato per entrambi gli anni era stato pari a quasi 6 milioni di Euro e che il patrimonio netto aveva visto una crescita di oltre Euro 450.000,00). Pertanto, non vi erano elementi obiettivi in forza dei quali dubitare della solidità economica e delle capacità gestionali della cessionaria, sicché il rifiuto alla cessione del contratto appariva irragionevole; e pertanto il rapporto di agenzia si era interrotto per fatto e volontà dell’agente, non sorretta da giusta causa o giustificato motivo, con rigetto di tutte le domande tese al pagamento delle indennità connesse alla cessazione del rapporto.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione D.B.P. sulla base di tre motivi. Il resistente resiste con controricorso, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce “Sul capo della sentenza con il quale la Corte d’Appello ha ritenuto di poter utilizzare ai fini della decisione documenti non formalmente acquisiti in giudizio, segnatamente il bilancio della P. Lubrificanti s.r.l. al 31.12.2011: a) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 416 c.p.c., comma 3, art. 420 c.p.c., commi 5, 6, 7, art. 421 c.p.c., commi 1 e 2 e art. 437 c.p.c., comma 2, nonché in relazione all’art. 115 c.p.c. e all’art. 24 Cost.; b) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o altrimenti n. 4: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 324 c.p.c. e all’art. 2909 c.c.”. Osserva il ricorrente che all’udienza del 13.6.2014 aveva depositato una visura storica della P. s.r.l. e che la Engycalor aveva prodotto, unitamente alle note autorizzate, depositate in data 27.8.2014, una Delib. assembleare della P. s.r.l. del 18 dicembre 2012 e il bilancio della medesima al 31.12.2011. Nella sentenza di primo grado, il Tribunale aveva ritenuto di acquisire esclusivamente la suddetta visura camerale storica, mentre nulla aveva disposto in relazione all’ulteriore documentazione tardivamente prodotta dalla resistente e precisamente in merito al bilancio della P. che, non essendo stato ammesso, non risultava né citato, né disatteso, né in altro modo considerato per la formazione del convincimento. Senza che la resistente avesse neanche riprodotto il documento non acquisito in primo grado in fase di appello sollecitandone l’ammissione e senza che il Collegio avesse assunto alcun provvedimento di ammissione, il Giudice d’appello aveva inteso fondare la parte motiva della decisione essenzialmente sul bilancio della P. s.r.l. al 31.12.2011. In questo modo la decisione impugnata risultava assunta sulla base di un documento che non avrebbe potuto essere valutato, con violazione del diritto di difesa. Inoltre, il Tribunale aveva implicitamente statuito di non acquisire gli ulteriori documenti tardivamente prodotti tra cui il bilancio della P., e, non avendo la Engycalor sottoposto a gravame tale capo della sentenza, su di esso si era formato il giudicato interno, sia formale ai sensi dell’art. 324 c.p.c., che sostanziale ai sensi dell’art. 2909 c.c..
1.1. – Il motivo non è fondato.
1.2. – In termini generali, va rilevato che, nel ricorso per cassazione, non è consentita la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione tra loro eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1 (nella specie, in particolare “il comma n. 3, o altrimenti n. 4 c.p.c.”), non essendo permessa la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e la insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa, palesemente mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).
1.3. – Sotto altro profilo, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).
Quando nel ricorso per cassazione viene denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il vulnus deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 1317 del 2004; Cass. n. 635 del 2015). Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto configurati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
1.4. – Venendo al merito del motivo, va rilevato che la Corte d’Appello fondava il proprio giudizio sulla base di una valutazione complessiva della documentazione in atti e su molteplici elementi che dimostravano inequivocabilmente che il diniego al trasferimento era ingiustificato. La Corte di merito, correttamente, menzionava dati ed elementi (quali il raffronto capitale sociale di P. pari a 5 volte quello di Engycalor, e il prezzo pagato per la cessione) evincibili dalla stessa visura storica depositata dal ricorrente, così come dal contratto di cessione di azienda allegato alla memoria difensiva di primo grado ovvero che emergono dalle deduzioni delle parti. In sostanza, la lettura della sentenza impugnata dimostra che la decisione si fonda su diverse argomentazioni, rispetto alle quali quella inerente ai risultati di bilancio rappresenta un mero argomento aggiuntivo.
Sotto altro profilo, in assenza di contestazione da parte del D.B., non si poteva ritenere che il Tribunale avesse implicitamente statuito di non acquisire i documenti allegati alle note Engycalor, giacché (tra l’altro) nessuna eccezione di tardività era stata formulata dal ricorrente, e perché il Tribunale semplicemente non li aveva considerati ai fini della decisione. Peraltro, costituisce principio consolidato quello secondo cui, “nel rito del lavoro, l’acquisizione di nuovi documenti o l’ammissione di nuove prove da parte del giudice di appello rientra tra i poteri discrezionali allo stesso riconosciuti dagli artt. 421 e 437 c.p.c. e tale esercizio è insindacabile in sede di legittimità anche quando manchi un’espressa motivazione in ordine alla indispensabilità o necessità del mezzo istruttorio ammesso, dovendosi la motivazione ritenere implicita nel provvedimento adottato (Cass. 26117 del 2016; Cass. 22630 del 2016; Cass. n. 209 del 2007; Cass. 10128 del 2004; Cass. n. 13186 del 2003).
1.5. – Le censure di cui alla prima parte del primo motivo si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).
Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta “Sul capo della sentenza con il quale la Corte d’Appello ha ritenuto irragionevole il rifiuto opposto dal ricorrente alla cessione del contratto di agenzia: 1) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 416 c.p.c., comma 3, art. 420 c.p.c., commi 5, 6, 7, art. 421 c.p.c., commi 1 e 2 e art. 437 c.p.c., comma 2, nonché in relazione all’art. 115 c.p.c. e all’art. 24 Cost.; 2) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, o altrimenti n. 4: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 324 c.p.c. e all’art. 2909 c.c.; 3) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 1362 c.c. e segg.; 4) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362,1363 e 1367 c.c.”. Secondo il ricorrente il bilancio della P. aveva assunto una decisiva rilevanza nella sentenza impugnata al fine di dimostrare la solidità della cessionaria e l’irragionevolezza del mancato consenso. La sentenza gravata subiva dunque l’illegittimità derivata per la violazione delle stesse norme indicate nel paragrafo precedente. Ne’ può sostenersi che, espungendo dalla sentenza ogni riferimento al suddetto bilancio, la medesima sentenza potesse comunque fondarsi in via autonoma sulle considerazioni inerenti all’entità del capitale sociale versato dalla P. (Euro 100.000,00), posto che appariva chiaro come la Corte d’Appello avesse fondato il proprio convincimento non già in via alternativa sui dati fondati sulle due circostanze, quanto piuttosto in via cumulativa sugli stessi, come reso evidente anche dalla dizione unificatrice secondo cui “si tratta di emergenze documentali di cui l’appellato avrebbe dovuto avere contezza”. Il ricorrente evidenziava che, ove la Corte territoriale avesse ritenuto gravante sul ricorrente l’onere della prova della ragionevolezza del mancato consenso (piuttosto che sulla resistente l’irragionevolezza di esso), la sentenza impugnata avrebbe scontato la violazione degli artt. 1362 c.c. e segg., in riferimento all’art. 2697 c.c., avuto riguardo alla interpretazione della clausola negoziale in esame (ciò perché la clausola delinea l’esistenza di una regola “divieto di cessione”; e dell’eccezione di essa “irragionevolezza del mancato consenso”). Se la Corte d’Appello avesse ritenuto che la suddetta eccezione costituisse essa stessa la regola negoziale (in tal caso gravando su chi invoca la regola, quindi sul ricorrente, l’onere probatorio), ciò si sarebbe posto in contrasto con le seguenti disposizioni: (i) art. 1367 c.c., trattandosi di una interpretazione abrogante la prima regola (i contratti non potranno essere ceduti senza il preventivo consenso scritto dell’altra parte), ad opera della seconda regola a essa contraria (irragionevolezza del mancato consenso); (ii) art. 1363 c.c., interpretandosi le clausole del contratto le une per mezzo delle altre, mentre accedendo all’interpretazione in contestazione la prima regola verrebbe privata della sua autonoma interpretabilità; (iii) art. 1362 c.c., in quanto la Corte non avrebbe posto in essere nessuna indagine diretta a verificare quale fosse la comune intenzione delle parti.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – Esso si configura quale mera riproposizione del precedente, dovendo pertanto essere esaminato ed applicato in stretta coerenza alle medesime regioni indicate. Di conseguenza, l’accertamento riguardante il fatto che l’onere della prova fosse in capo al ricorrente o alla resistente risulta del tutto irrilevante alla luce della valutazione complessiva degli elementi di causa fornita dalla Corte territoriale.
Il motivo era altrettanto infondato, poiché le parti avevano espressamente e consapevolmente convenuto che il consenso alla cessione del contratto non avrebbe potuto essere “irragionevolmente negato” da parte del ceduto D.B.. Pertanto, era quest’ultimo che – a fronte del suo contestato rifiuto della cessione – avrebbe dovuto viceversa provare la “ragionevolezza della propria decisione” contraria alla cessione.
2.3. – Del resto, non risultava nel contratto che un’eventuale situazione di irragionevolezza figurasse come una “eccezione” a una “regola di sostanziale incedibilità contrattuale”, come il ricorrente vorrebbe sostenere. Ne’ la sentenza in questione aveva violato le norme in materia di interpretazione dei contratti. Si richiama a proposito l’attività di ermeneutica contrattuale richiesta al Giudice di merito, per la quale il primo criterio di interpretazione è quello della ricostruzione della volontà delle parti come emerge dal tenore letterale della scrittura. Va infatti posto in rilievo (Cass. n. 25450 del 2015) che l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v.: Cass. n. 2109 del 2012; Cass. n. 380 del 2013). Sotto quest’ultimo profilo l’attività di ermeneutica contrattuale demandata al giudice di merito deve seguire, logicamente e cronologicamente, regole ben precise, dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg., di guisa che primo ed assorbente criterio di interpretazione di qualsivoglia vicenda negoziale a struttura bilaterale deve ritenersi quello della ricostruzione delle volontà delle parti sì come emergente dal tenore letterale della scrittura (cfr. Cass. n. 21885 del 2004).
Orbene, risultava evidente che le parti avessero inteso (nello specifico contesto interpretativo) prevedere un meccanismo contrattuale che, da un lato, garantisse una piena cognizione in capo al contraente ceduto, richiedendo che il cedente ne ottenesse il consenso; ma, all’altro, impedisse che il contraente ceduto si potesse opporre alla cessione del contratto senza serie e fondate ragioni.
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce “Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 115 c.p.c., letto in combinato disposto con l’art. 2697 c.c.”, poiché nella memoria autorizzata nel giudizio di primo grado, depositata in data 31.7.2014, aveva precisato che le affermazioni della resistente – per cui la P. era una realtà commerciale consolidata, intrattenendo da lunga data rapporti commerciali con la Exxon Mobil – fossero apodittiche oltre che non veritiere. Avendo il ricorrente contestato tale circostanza, la resistente, che ha provveduto a introdurla in giudizio, ne avrebbe dovuto fornire la prova ai sensi dell’art. 2697 c.c..
3.1. – Il motivo non è fondato.
3.2. – Nessun elemento della sentenza fa ritenere che, anche ove la Corte avesse ritenuto contestati i rapporti commerciali tra la P. e il Gruppo Exxon Mobil, i Giudici d’appello sarebbero giunti a diverse conclusioni.
Invero, il ricorrente lamenta di aver contestato tale circostanza nelle note autorizzate di primo grado, ma omette di indicare che la contestazione era relativa non all’esistenza di rapporti commerciali tra la P. e il Gruppo Exxon Mobil, ma alla durata di tali rapporti: il ricorrente riteneva non veritiera l’affermazione che la P. fosse un rivenditore storico del Gruppo Exxon Mobil da oltre 50 anni, in quanto dalla visura camerale risultava che la data di inizio dell’attività della P. risalisse al 2.1.2009.
4. – Il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore della società controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 7 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2021
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