Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.28120 del 14/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33133-2019 proposto da:

L.V., elettivamente domiciliata presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentata e difesa dall’avvocato ETTORE SBARRA;

– ricorrente –

contro

COMUNE di POLIGNANO A MARE, in persona del Sindaco pro tempore quale suo legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO, 109, presso lo studio legale dell’avvocato D’AMICO, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO VINCENZO PAPADIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1026/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata l’11/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ALFONSINA DE FELICE.

RILEVATO

che:

la Corte d’appello di Bari, a conferma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda di L.V., dipendente del Comune di Polignano a Mare, diretta a sentir dichiarare quest’ultimo responsabile di comportamenti vessatori e provvedimenti illegittimi adottati in violazione degli artt. 2103,2087 e 1375 c.c. in danno della dipendente, con riconoscimento, in favore di quest’ultima, del danno biologico, esistenziale e morale;

la Corte territoriale ha escluso che gli episodi dedotti dalla L. fossero in correlazione fra loro e tali da configurare un danno da mobbing, in assenza, altresì, di una volontà persecutoria, tendente a perpetrare in modo sistematico e prolungato atti e comportamenti, con intento vessatorio;

la cassazione della sentenza è domandata da L.V. sulla base di due motivi;

il Comune di Polignano a Mare ha depositato controricorso;

e’ stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

CONSIDERATO

che:

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, parte ricorrente deduce “Violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 416 c.c., comma 3, con riferimento al capo della sentenza dal capoverso 4 (rigo 20) della pag. 13 sino al rigo 14 di pag. 14 della sentenza n. 1026/2019 della Corte di appello di Bari”; la sentenza impugnata avrebbe errato nel rigettare integralmente la domanda omettendo di considerare che l’amministrazione non aveva mai contestato né preso posizione – né in primo né in secondo grado – circa la prospettazione dei fatti contenuta nel ricorso; sostiene la tesi secondo cui la non contestazione di un fatto equivarrebbe all’accertamento dello stesso;

col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, lamenta “Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto i discussione tra le parti con riferimento al capo della sentenza dal primo capoverso (rigo 3) di pag. 18 sino al rigo 7 di pag. 18 della sentenza n. 1026/2019 della Corte di appello di Bari. Nullità della sentenza con riferimento al capo della sentenza dal primo capoverso (rigo 3) di pag. 18 sino al rigo 7 di pag. 18 della sentenza n. 1026/2019 della Corte di appello di Bari”, per avere, la Corte d’appello, omesso di valutare che la consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado aveva accertato il fatto decisivo che la L. era stata dichiarata soggetta a inabilità parziale del 50% dal 25.1.2008 al 2.7.2008 a causa di una patologia depressiva temporanea, e che detta condizione poteva essere posta in relazione alla situazione lavorativa della dipendente, caratterizzata da forte conflittualità col dirigente;

il primo motivo è inammissibile;

secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. n. 26769 del 2018);

quanto al rilievo da attribuirsi alla mancata contestazione di un fatto, deve ritenersi che questa non sia idonea a costituire prova legale, bensì rappresenti un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi con specifico motivo d’impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale alla condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio; il che è puntualmente accaduto nel caso in esame, ove la Corte territoriale ha svolto un accertamento di fatto delle circostanze di causa dedotte, dalle quali ha ritenuto escludersi la sussistenza di una volontà rivolta a porre in essere una condotta persecutoria in danno della ricorrente;

in altri termini, può altresì richiamarsi quanto ribadito da questa Corte, secondo cui “Nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (Così, Cass. n. 3680 del 2019; cfr. anche Cass. n. 27490 del 2019);

il secondo motivo è infondato;

circa la doglianza di omesso esame di un fatto decisivo non può non rilevarsi un evidente profilo di inammissibilità della stessa, per la presenza di una doppia conforme sulla circostanza dedotta (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 19001 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);

il motivo deve ritenersi, tuttavia, innanzitutto infondato, atteso che la critica in cui lo stesso si sostanzia non offre una corretta interpretazione del decisum;

e’ pur vero che la consulenza tecnica d’ufficio ha diagnosticato la sussistenza di una patologia di natura psichica per la durata di cinque mesi in capo alla L., (senza postumi), ed è anche vero che la stessa perizia ha avanzato la “possibilità” che la predetta patologia potesse conseguire ad un clima fortemente conflittuale sul lavoro;

purtuttavia, va osservato che la concreta valutazione dell’esistenza di un nesso causale tra la patologia di natura psichica accertata dal perito e l’eventuale comportamento vessatorio da parte dei soggetti datoriali coinvolti nel clima di conflittualità denunciato, spetta, comunque, al giudice del merito, il quale ha escluso, mediante puntuale accertamento di fatto – non sindacabile in questa sede – l’esistenza di un contesto unitario e preordinatamente persecutorio attribuibile alla responsabilità soggettiva del superiore gerarchico;

secondo quanto ritenuto pacificamente da questa Corte, ai fini della configurabilità di una condotta datoriale mobizzante, l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime non rappresenta condizione sufficiente, essendo necessario, a tal fine, che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali costituiscano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (in tal senso cfr. da ultimo, Cass. n. 10992 del 2020; cfr., anche Cass. n. 12347 del 2018 e Cass. n. 26684 del 2017);

in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza, disponendosene la distrazione in favore dell’avvocato del Comune, dichiaratosi anticipatario;

in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del controricorrente, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 2.800,00 per compensi professionali, da distrarsi in favore dell’avvocato del Comune di Polignano a Mare, dichiaratosi antistatario, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 20 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021

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