Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.29245 del 20/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30525/2019 proposto da:

***** Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Sistina n. 121, presso lo studio dell’avvocato Bonotto Marcello, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Gallia Cristiana, Venturino Marco, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Sant’Anna S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Vittoria Colonna n. 39, presso lo studio dell’avvocato Passalacqua Marco, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Bonetta Angelo, Perfetti Luca R., giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Fallimento ***** Cooperativa Sociale – Onlus, in persona del curatore Dott. Claudio Ferrario, elettivamente domiciliato in Roma, Viale G. Mazzini n. 6, presso lo studio dell’avvocato Lupis Stefano, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ferrari Marco, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

Pubblico Ministero presso il Tribunale di Alessandria;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1466/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 05/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/04/2021 dal consigliere Dr. Vella Paola;

lette le conclusioni scritte, ex D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, del P.M.

in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. De Matteis Stanislao, il quale “chiede che la Corte rigetti il ricorso, con le conseguenze di legge”.

FATTI DI CAUSA

1. Su ricorso della Sant’Anna s.r.l., società che gestiva strutture sanitarie e socio-assistenziali dedicate alla cura di anziani e disabili e che vantava un credito di oltre settantamila Euro per le retribuzioni corrisposte, quale committente responsabile in solido ex D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, ai dipendenti della Cooperativa sociale – Onlus *****, appaltatrice di una serie di servizi all’interno di una di dette strutture, il Tribunale di Alessandria dichiarò il fallimento della predetta Cooperativa, ritenendo: 1) che si trattasse di imprenditore commerciale, nonostante il diverso parere del Ministero dello Sviluppo Economico (di seguito, Mi.SE), non vincolante; 2) che il semplice avvio (senza apertura) della procedura di liquidazione coatta amministrativa non fosse preclusivo ai sensi dell’art. 196 L. Fall. e art. 2545-terdecies c.c.; 3) che sussistessero tutti i presupposti per la dichiarazione di fallimento, tenuto conto che lo stato di insolvenza non era stato nemmeno contestato dalla debitrice.

1.1. Quest’ultima propose due motivi di reclamo ex art. 18 L. Fall. contestando: a) la inconciliabilità, con il fine mutualistico, dello svolgimento dell’attività d’impresa secondo criteri di economicità, tenuto conto del peculiare regime normativo delle Cooperative sociali Onlus, disciplinate dal D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, che “consente ad esse di perseguire lo scopo sociale mutualistico anche mediante attività tipicamente di contenuto economico svolte a favore di terzi”, assoggettandole in caso di insolvenza alla liquidazione coatta amministrativa e non al fallimento; b) la mancata considerazione del parere del Mi.SE, attestante che “dall’esame della documentazione agli atti si evince che l’attività della cooperativa in oggetto non rientra tra quelle di cui all’art. 2195 c.c. e che pertanto ad essa non si applica la disciplina fallimentare”.

1.2. La Corte d’appello di Torino ha respinto entrambi i motivi, osservando, in particolare: 1) che il D.Lgs. n. 460 del 1997, avendo finalità meramente fiscali (con riguardo alle agevolazioni in favore delle Onlus), non può valere a fini civilistici come deroga all’art. 2545-terdecies c.c. (per cui “le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento”); 2) che l’art. 10, comma 10, D.Lgs. cit., letto a contrario, attesta che possono considerarsi ONLUS le società cooperative che svolgono attività commerciale; 3) che in base al successivo art. 12, lo svolgimento delle attività istituzionali con finalità di solidarietà sociale non può costituire esercizio di attività commerciale solo per le ONLUS aventi forma giuridica diversa dalle società cooperative (associazioni, comitati, fondazioni ecc.), sicché il perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale non esclude la natura commerciale della relativa attività; 4) che i presupposti civilistici della qualifica di imprenditore commerciale (lucro oggettivo) non sono stati messi in discussione; 5) che non è contestato che la cooperativa, oltre ad avere costi per il personale superiori a due milioni di Euro, “ha effettuato operazioni straordinarie di acquisizione e cessione di rami d’azienda ed ha detenuto partecipazioni sciali in società lucrative”; 6) che il parere del Mi.SE, oltre a non essere vincolante, non contiene motivazioni capaci di inficiare le diverse valutazioni giudiziali.

2. Avverso detta decisione la Cooperativa sociale ONLUS ***** ha proposto un unico motivo di ricorso per cassazione.

2.1. La Sant’Anna s.r.l. e il Fallimento della suddetta Cooperativa hanno resistito con controricorso, la prima chiedendo anche condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., comma 3.

2.2. Il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte, ex D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, (inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020), chiedendo il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con un unico motivo, la ricorrente lamenta “violazione ed erronea applicazione degli artt. 2 e 195 L. Fall. – art. 2545 terdecies c.c. – D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10 – D.Lgs. n. 220 del 2002” (ex art. 360 c.p.c., n. 3), nonché “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. – mancata pronuncia su parte delle censure sollevate” (ex art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte d’appello erroneamente ritenuto sottoponibili anche a fallimento, e non solo a liquidazione coatta amministrativa (procedura nel caso di specie preventivamente avviata ma non an conclusa), le cooperative sociali – onlus operanti nei settori dell’assistenza socio-assistenziale e sanitaria, peraltro motivando per relationem (e in modo non intelleggibile) alla sentenza di primo grado.

4. Va subito sgombrato il campo dalla censura di nullità della sentenza d’appello (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) in quanto motivata per relationem alla sentenza di primo grado, con mero richiamo delle argomentazioni del tribunale, senza l’esame di tutte le contestazioni mosse nel reclamo, con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c..

4.1. In realtà, nel paragrafo 2 della sentenza impugnata la corte d’appello ha integrato il richiamo alle motivazioni del tribunale sulla non vincolatività del parere del Mi.SE (secondo motivo di reclamo) con le ulteriori osservazioni esposte nel par. 1 (primo motivo di reclamo).

4.2. Peraltro, l’ampio perimetro entro cui è ammissibile una simile tecnica motivazionale è stato più volte declinato da questa Corte (v. Cass. Sez. U, 642/2015), nel senso che la sentenza d’appello ben può essere motivata per relationem alla sentenza di primo grado, alla sola condizione che il giudice del gravame dia sinteticamente conto delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione, ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, con esclusione dei soli casi nei quali la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico, senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. 20883/2019; conf. Cass. 28139/2018).

4.3. Inoltre, per giurisprudenza consolidata di questa Corte il vizio di omessa pronuncia, rilevante ai sensi dell’art. 112 c.p.c., deve concretarsi nel difetto del momento decisorio sui capi della domanda (o sulle eccezioni proposte) che siano autonomamente apprezzabili, non potendosi invece ravvisare nel mancato o insufficiente esame delle argomentazioni svolte dalle parti (Cass. 3388/2005, 18190/2006, 5730/2020), da far valere semmai come vizio di motivazione secondo i canoni del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 459/2021).

4.4. Del resto, anche la mancanza di un’espressa statuizione del giudice di appello su un motivo di impugnazione non integra il vizio di omessa pronuncia allorquando la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto (Cass. 15255/2019).

5. Nel merito, il tessuto argomentativo del ricorso è incentrato sul fatto che non sussisterebbero “i presupposti di assoggettabilità della Cooperativa ricorrente anche alla procedura fallimentare, e ciò in stretta applicazione delle previsioni dettate specificamente per le cooperative sociali onlus svolgenti attività statutarie istituzionali nei settori della assistenza sociale e socio-sanitaria, e della beneficenza, dal D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, commi 1 e 4, (…) applicabile al caso in esame ratione temporis”.

5.1. Ciò sarebbe altresì “rafforzato dalle previsioni contenute nel D.Lgs. n. 220 del 2002 che disciplina le competenze e le prerogative degli organi preposti al controllo sull’attività delle cooperative e sul rispetto delle finalità mutualistiche” – il cui art. 4 prevede una periodica “revisione cooperativa” da parte del Mi.SE, finalizzata tra l’altro ad “accertare, anche attraverso una verifica della gestione amministrativo-contabile, la natura mutualistica dell’ente (…), l’assenza di scopi di lucro dell’ente nei limiti previsti dalla legislazione vigente, e la legittimazione dell’ente a beneficiare delle agevolazioni fiscali, previdenziali e di altra natura” – poiché nei verbali di verifica della cooperativa ricorrente, relativi agli anni 2016 e 2017, sarebbero “attestati e confermati tutti i caratteri della mutualità e della natura non commerciale della società”.

5.2. In ultima analisi, la doglianza si appunta sul fatto che i giudici di entrambi i gradi di giudizio avrebbero “sovrapposto i principi dettati dalla S.C. per le cooperative generiche (per le quali possono concorrere attività commerciali e scopo mutualistico) al ben più specifico caso di una cooperativa sociale onlus operante nei settori dell’assistenza socio-assistenziale e sanitaria (…) dove lo svolgimento di tali attività non fa loro perdere il carattere mutualistico (improntato a “finalità di solidarietà sociale”) e non commerciale”, senza spiegare “quali sarebbero le peculiarità specifiche dell’attività svolta da *****, tali da provocarne uno iato determinante rispetto al modello tipico delle Cooperative Sociali dettato dall’art. 10, e da consentire di disapplicare de plano l’atto tipico ministeriale”.

6. La censura è infondata.

6.1. La corte d’appello ha fornito una corretta ricostruzione esegetica delle norme (in particolare il D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10), vigente ratione temporis, cui la ricorrente mira impropriamente ad attribuire rilevanza civilistica, per escludere la propria fallibilità, nonostante si tratti chiaramente di una normativa speciale, di carattere fiscale intitolata “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” (cd. Onlus) – e peraltro di stretta interpretazione in quanto introduttiva di agevolazioni tributarie (Cass. 9830/2017, 18396/2015) nel cui ambito di applicazione non rientra affatto la disciplina circa la assoggettabilità o meno a fallimento degli enti.

6.1.1. Ciò è reso evidente, se mai occorresse, dalla Relazione illustrativa, ove si legge che la disciplina così introdotta mira allo sviluppo del settore cd. non profit “attraverso un razionale impiego della leva fiscale, così da consentire allo Stato di effettuare risparmi in diversi comparti di servizi, ora direttamente gestiti, che potrebbero essere efficacemente assicurati da queste realtà emergenti e non più marginali”.

6.2. In effetti, la qualifica di “ONLUS” è una mera categoria fiscale destinata a scomparire con la riforma di cui al D.Lgs. 3 Luglio 2017, n. 117 e successive modifiche (Codice del Terzo Settore) – tanto che il relativo acronimo (ora sostituito da “ETS”, ente del terzo settore) veniva semplicemente aggiunto alle varie tipologie di enti (associazioni, fondazioni, società cooperative ecc.) legittimati ad assumere quella ulteriore caratterizzazione per finalità fiscali.

6.3. Non rileva quindi, ai fini della decisione, che nel D.Lgs. n. 460 del 1997 siano considerate Onlus, ai sensi dell’art. 10, comma 1, D.Lgs. cit., anche le società cooperative – così come le associazioni, i comitati, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica – i cui statuti o atti costitutivi prevedono espressamente: a) lo svolgimento di attività in alcuni settori, tra i quali l’assistenza sociale e socio sanitaria e l’assistenza sanitaria (oltre a beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, ricerca scientifica, cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale, promozione e tutela della cultura, dell’arte, della natura, dell’ambiente, dei diritti civili); b) l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale – che, come chiarito al comma 2, sono tali quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sono rese in favore di persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari (nonché componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari) e non nei confronti dei soci, associati, partecipanti e altri soggetti indicati alla lett. a) del comma 6, quindi non nei confronti degli stessi produttori, a meno che siano anch’essi soggetti svantaggiati, come si precisa nel comma 3; c) il divieto di svolgere attività diverse (salvo quelle direttamente connesse); d) il divieto di distribuire utili e avanzi di gestione, anche in modo indiretto; e) l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e connesse; f) vincoli nella devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento; g) l’obbligo di redigere bilancio o rendiconto annuale.

6.4. Per le stesse ragioni non è decisivo, come vorrebbe la ricorrente, il successivo art. 10, comma 4 – per cui, “a prescindere dalle condizioni previste ai commi 2 e 3, si considerano comunque inerenti a finalità di solidarietà sociale le attività statutarie istituzionali” svolte in una lunga serie di settori, tra i quali quello della “assistenza sociale e sociosanitaria” – anche perché esso non significa che gli enti operanti in quest’ultimo settore siano sempre e comunque Onlus, bensì (letteralmente) che in quei casi le attività svolte si considerano inerenti a finalità di solidarietà sociale anche se non siano rispettati i criteri stabiliti dai precedenti commi 2 e 3.

6.5. Si è infatti di fronte a norme descrittive del fenomeno fiscale in vista del quale è stata configurata la categoria delle Onlus, come attestato dalle stesse rubriche, prima ancora che dal contenuto, degli articoli della Sezione II (recante “Disposizioni riguardanti le organizzazioni non lucrative di utilità sociale”) successivi all’art. 10, i quali, oltre ad istituire l'”anagrafe delle ONLUS” e prevedere l’apposita comunicazione da inviare alla “direzione regionale delle entrate del Ministero delle finanze”, quale “condizione necessaria per beneficiare delle agevolazioni previste dal presente decreto” (art. 11), introducono una lunga serie di esenzioni, agevolazioni e detrazioni fiscali, accanto ad obblighi di carattere contabile e formale (art. 25) e sanzioni amministrative “a carico dei rappresentanti legali e i membri degli organi amministrativi delle ONLUS, che si avvalgono dei benefici di cui al presente decreto” (art. 28).

6.6. Peraltro, nello stesso D.Lgs. n. 460 del 1997 vi sono disposizioni che confermano come esso non incida né interferisca sullo statuto delle imprese assoggettabili a fallimento, sottendendo, anzi, che le società cooperative possano assumere la qualifica di Onlus pur svolgendo attività commerciale.

6.6.1. In particolare, l’art. 10, comma 10 – laddove stabilisce che “Non si considerano in ogni caso ONLUS gli enti pubblici, le società commerciali diverse da quelle cooperative, gli enti conferenti di cui alla L. 30 luglio 1990, n. 218, i partiti e i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni di datori di lavoro e le associazioni di categoria” – segnala a contrario che la qualifica di Onlus può essere assunta dalle società cooperative commerciali.

6.6.2. Analogamente l’art. 12 (recante “Agevolazioni ai fini delle imposte sui redditi”), nell’introdurre nel D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR) l’art. 111-ter – in base al quale “Per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), ad eccezione delle società cooperative, non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale” (comma 1), con la precisazione che “I proventi derivanti dall’esercizio delle attività direttamente connesse non concorrono alla formazione del reddito imponibile” (comma 2) – testimonia che per le società cooperative, disciplinate nel libro V (piuttosto che nel libro I) del codice civile, lo svolgimento delle attività istituzionali in forza delle quali hanno assunto la qualifica fiscale di Onlus può costituire esercizio di attività commerciale. Detto altrimenti, le società cooperative sono enti che possono svolgere attività commerciale pur essendo Onlus.

6.6.3. Infine, la clausola di compatibilità contenuta nell’art. 26, per cui “Alle ONLUS si applicano, ove compatibili, le disposizioni relative agli enti non commerciali e, in particolare, le norme di cui agli artt. 2 e 9 del presente decreto”, lascia intendere che non a tutti gli enti muniti della qualifica di Onlus possono applicarsi le disposizioni dettate per gli enti non commerciali dalla Sezione I (intitolata “Modifiche alla disciplina degli enti non commerciali in materia di imposte sul reddito e di imposta sul valore aggiunto”), potendo evidentemente sussistere ragioni di incompatibilità rispetto a quelli che, come appunto le società cooperativa, svolgano attività commerciale.

6.7. Per concludere su questo aspetto, e al tempo stesso passare all’esame delle restanti argomentazioni, è importante sottolineare la distinzione tra i concetti di lucro soggettivo e lucro oggettivo, poiché solo il primo – ma non il secondo – è incompatibile sia con la qualifica di Onlus (stante il divieto di distribuire utili e avanzi di gestione, anche in modo indiretto: v. D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. d)) che con la causa delle società cooperative, caratterizzate (oltre che dal capitale variabile) dallo scopo mutualistico (art. 2511 c.c.), a differenza dell’ordinario contratto di società, la cui causa è integrata proprio dallo scopo di dividere gli utili prodotti (art. 2247 c.c.).

6.7.1. Ed è questa la ragione per cui possono assumere la qualifica di Onlus le imprese commerciali costituite in forma di cooperativa, in quanto caratterizzate dal perseguimento del lucro in senso solo oggettivo (che però le rende soggette al pagamento delle imposte sui proventi prodotti dall’attività svolta, ex D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 12), mentre non possono esserlo le società lucrative, in quanto perseguono, appunto, il lucro soggettivo.

6.8. D’altro canto, la giurisprudenza di questa Corte non ha mancato di rilevare come lo scopo di lucro (cd. lucro soggettivo) non sia più in netta discontinuità ideologica con il codice di commercio – un elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, sussistendo attività di impresa tutte le volte in cui vi sia una obiettiva economicità della gestione, intesa come proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), che si traduce nell’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (Cass. 22955/2020, 20815/2006), o anche nella tendenziale idoneità dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio (Cass. 42/2018) e deve essere escluso solo qualora l’attività sia svolta in modo del tutto gratuito (Cass. Sez. U, 3353/1994; Cass. 22955/2020, 14250/2016, 16435/2003), senza che rilevi, invece, il fine altruistico in ipotesi perseguito (Cass. 17399/2011, 16612/2008, 9589/1993), poiché esso, inteso come destinazione dei proventi ad iniziative connesse con gli scopi istituzionali dell’ente, non pregiudica l’imprenditorialità dei servizi resi, restando giuridicamente irrilevante, al pari dello scopo di lucro soggettivo e di qualsiasi altro movente che induca l’imprenditore ad esercitare la sua attività (Cass. 6835/2014, 17399/2011, 16612/2008).

6.9. E poiché il requisito del cd. lucro oggettivo non è inconciliabile con il fine mutualistico, ben potendo sussistere anche in una società cooperativa che operi nei confronti dei propri soli soci, appare evidente che anche tale società, ove svolga attività commerciale, può essere assoggettata a fallimento in caso di insolvenza, in applicazione dell’art. 2545-terdecies c.c. (Cass. 25478/2019, 9567/2017, 14250/2016, 6835/2014) che, nel prevederne espressamente la fallibilità, riconosce implicitamente che le società cooperative possono svolgere attività commerciale (Cass. 7061/1994).

7. Esclusa, dunque, ogni rilevanza della qualifica di Onlus – per la portata meramente fiscale delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 460 del 1997 – non resta che proseguire la disamina del thema decidendum applicando la normativa generale sui presupposti di fallibilità delle imprese commerciali ex art. 2195 c.c..

7.1. A tal fine va nuovamente sgombrato il campo dall’obiezione mossa alla valutazione del giudice d’appello circa la non vincolatività del parere del Mi.SE (e di tutti i correlati verbali di verifica richiamati in ricorso) essendo indiscutibile – come giustamente rilevato dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta – che l’accertamento sulla natura dell’attività svolta (cd. requisito oggettivo) sia di competenza dell’organo giurisdizionale chiamato a pronunciarsi sulla dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. 9567/2017).

7.2. Peraltro la corte territoriale, condividendo i rilievi del tribunale, ha osservato come le motivazioni contenute nel parere del Mi.SE sulla natura (in tesi) non commerciale dell’attività svolta dalla cooperativa, in quanto non rientrante tra quelle di cui all’art. 2195 c.c. – con espressa esclusione della disciplina fallimentare – non fossero in grado di scalfire le allegazioni (confortate dalla documentazione prodotta dalle parti reclamate e non contestate dalla reclamante) relative non solo all’elevato ammontare dei costi del personale (sempre superiori a un milione e mezzo di Euro tra il 2012 e il 2016) e dei ricavi per vendite e prestazioni (superiori a due milioni di Euro negli ultimi anni di attività), ma anche – e soprattutto – al compimento di “operazioni straordinarie di acquisizione e cessione di rami d’azienda” e alla detenzione di “partecipazioni sociali in società lucrative”.

7.3. La natura commerciale dell’attività imprenditoriale svolta dalla Cooperativa sociale Onlus ***** – indagata ai fini fallimentari nel procedimento per dichiarazione di fallimento ex art. 15 L. Fall. e nel successivo giudizio di reclamo ex art. 18 L. Fall. – appare dunque correttamente accertata e motivata dai giudici di entrambi i gradi del giudizio di merito, anche in ragione delle rilevanti e complesse operazioni societarie registrate all’esito dell’istruttoria svolta.

7.4. Al riguardo occorre ricordare che, in base all’art. 1, comma 1, L. Fall. “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”, con conseguente rinvio, per l’individuazione del requisito soggettivo della qualità di imprenditore, all’art. 2082 c.c., a norma del quale “e’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”, senza che, come più volte detto, sia necessario anche lo “scopo di lucro” (Cass. 22955/2020). E’ quindi sufficiente che l’attività svolta, di produzione o scambio di beni o servizi, sia organizzata in modo professionale (dunque con sistematicità e continuità) ed abbia il carattere della “economicità” intesa nel senso, sopra indagato, di “lucro oggettivo” – cioè sia svolta con modalità tali da soddisfare l’esigenza di essere astrattamente idonea a coprire i costi di produzione, alimentandosi con i suoi stessi ricavi (Cass. 22955/2020).

7.5. L’identificazione dell’economicità della gestione (in luogo dello scopo di lucro soggettivo) quale requisito essenziale dell’attività d’impresa permette, dunque, di riconoscere lo statuto di imprenditore commerciale fallibile a tutti gli enti di tipo associativo che svolgano in concreto, esclusivamente o prevalentemente, attività di impresa commerciale, restando ininfluente lo schema giuridico adottato (Cass. 8374/2000, 22955/2020). Tale approdo è del resto in linea con l’ordinamento Euro-unionale, che ha adottato una nozione di imprenditore ancora più ampia di quella nazionale, comprensiva di qualsiasi entità che eserciti un’attività economica consistente nell’offerta di beni o servizi in un determinato mercato, indipendentemente dal suo status giuridico e delle sue modalità di finanziamento (ex multis, v. Corte giustizia 3 marzo 2011, Ag2R; 29 settembre 2011, Elf Aquitaine; 29 marzo 2011, Arcelor Mittal, richiamate nella requisitoria scritta della procura generale).

7.6. In effetti, questa Corte ha già avuto modo di affermare la natura di imprenditore commerciale fallibile in capo al consorzio che eserciti una fase dell’attività delle imprese consorziate o un’impresa ausiliaria, pur costituendosi fra le singole imprese rapporti associativi di tipo mutualistico dai quali scaturiscono vantaggi realizzati grazie all’organizzazione comune (Cass. 978/2021, 21818/2011, 13465/2010), nonché in capo ad associazioni o fondazioni che esercitino un’attività d’impresa, pur mantenendo come fine il perseguimento di uno scopo altruistico (Cass. 6853/2011, Cass. 5305/2004).

7.7. I medesimi criteri di giudizio sono dunque perfettamente applicabili anche all’attività imprenditoriale svolta secondo criteri di economicità da una società cooperativa, a prescindere dal tipo di mutualità adottato (da quella cd. pura a quella cd. spuria, in cui si attenua il fine mutualistico: v. Cass. 9513/1999) e soprattutto a prescindere – per quanto rileva in questa sede – dalla eventuale qualifica di Onlus acquisita ai sensi del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, trattandosi, come visto, di normativa speciale di natura fiscale che non può assurgere, ex sé, al rango di quella “diversa previsione di legge” (come ad es. il D.Lgs. n. 185 del 2016, art. 15, che prevede espressamente l’assoggettamento delle imprese sociali alla procedura di liquidazione coatta amministrativa) fatta salva dall’art. 2545-terdecies c.c., in base al quale le cooperative che svolgono attività commerciale sono altrimenti soggette anche al fallimento, oltre che alla liquidazione coatta amministrativa, secondo il criterio di prevenzione temporale fissato dal comma 2 della norma, pacificamente rispettato nella fattispecie in esame.

8. Per tutto quando esposto, il ricorso va respinto in applicazione dei seguenti principi di diritto:

I. E’ assoggettabile a fallimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2545-terdecies e 2082 c.c. e art. 1 L. Fall., una società cooperativa sociale che svolga attività commerciale secondo criteri di economicità (cd. lucro oggettivo), senza che rilevi l’eventuale assunzione della qualifica di Onlus ai sensi del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, trattandosi di norma speciale di carattere fiscale che non integra la “diversa previsione di legge” contemplata dall’art. 2545-terdecies c.c., comma 2.

II. L’accertamento della natura commerciale dell’attività svolta da una società cooperativa sociale, ai fini della sua assoggettabilità a fallimento, compete all’autorità giudiziaria, senza che abbiano natura vincolante i pareri e gli atti adottati dal Ministero dello sviluppo economico nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti dalla legge.

9. Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese, liquidate in dispositivo. Non ricorrono i presupposti per l’invocata condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 3.

10. Sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, (cfr. Cass. Sez. U, 23535/2019, 4315/2020).

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuno dei due controricorrenti, in Euro 7.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 200,00 ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

(per impedimento dell’estensore, ex art. 132 c.p.c., comma 3) Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2021

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