Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.29351 del 21/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10365/2013 R.G. proposto da:

D.T., elettivamente domiciliata in Roma, via F.

Denza n. 20, presso lo studio degli Avvocati Del Federico Lorenzo e D’Ilio Valeria e dell’Avv. Rosa Laura, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dagli Avvocati Del Federico Lorenzo e D’Ilio Valeria

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 436/10/2012 della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo – sezione staccata di Pescara, depositata in data 18 ottobre 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 maggio 2021 dal Consigliere Dott. Corradini Grazia.

FATTI DI CAUSA

D.T., esercente l’attività di commercio di marmi, rivestimenti e materiali idrosanitari, impugnò l’avviso di accertamento relativo a IRPEF, IRAP ed IVA per la annualità di imposta 2005, con cui la Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, maggiori ricavi determinati – sulla base di una verifica fiscale eseguita nel 2008 dalla Guardia di Finanza, che, avendo rinvenuto rimanenze di magazzino inferiori a quelle risultante dalla contabilità, aveva applicato la presunzione di vendita “in nero” delle merci non rinvenute con omissione dei relativi ricavi – applicando le percentuali di ricarico di cui allo studio di settore sulle differenze inventariali e quindi attribuendo i maggiori ricavi proporzionalmente all’anno in corso ed ai tre anni precedenti. Dedusse, a sostegno del ricorso, violazione dei principi di autonomia dei periodi di imposta e di inerenza, nonché difetto di prova e violazione del divieto di doppia presunzione.

Con sentenza n. 422/3/2010 la Commissione Tributaria Provinciale di Pescara accolse il ricorso ritenendo che la presunzione di vendita in nero delle merci non rinvenute in magazzino alla data del 24.11.2008 costituiva valido elemento per l’accertamento di maggiori ricavi per l’anno 2008, mentre non poteva essere applicata agli anni pregressi in virtù del principio di autonomia dei periodi di imposta di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7 e che non valeva in senso contrario l’assunto dell’Ufficio che la suddivisione dei maggiori ricavi su diverse annualità di imposta costituiva un criterio di favore per il contribuente.

Investita dall’appello della Agenzia delle Entrate – che dedusse come l’accertamento fosse basato, non solo sulla presunzione di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4, ma anche su rilevanti irregolarità contabili poiché la contribuente non aveva indicato, quanto alle rimanenze finali al 31.12.2005, 2006 e 2007, le consistenze dei beni raggruppate per categorie omogenee e non aveva fornito ai verbalizzanti le distinte servite per la compilazione dell’inventario e nel contempo, dal processo verbale di constatazione del 13.12.2008, era emerso che la Guardia di Finanza aveva riscontrato un significativo aumento del valore delle scorte di magazzino fin dall’anno 2005, nonché dati anomali dai quali si poteva ricavare che le evasioni erano avvenute nel corso degli anni oggetto della verifica, tanto più che la contribuente non aveva fornito la prova contraria, mentre l’attribuzione di tutti i maggiori ricavi alla sola annualità 2008 avrebbe comportato un danno per la contribuente in conseguenza della applicazione di una aliquota progressiva più alta (v. atto di appello trascritto a pagine 6 e 7 del controricorso e riassunto nella sentenza impugnata) – la Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo – sezione distaccata di Pescara, con sentenza n. 436/10/2012, accolse l’appello. La Commissione Tributaria Regionale ritenne che l’Ufficio avesse fatto corretto uso del metodo analitico induttivo in presenza di contabilità complessivamente inattendibile pur se formalmente regolare, il che autorizzava sia l’uso di percentuali di ricarico riferite ad annualità diverse sulla base di una valutazione di fatto sia la scelta del criterio di ricarico fra media ponderata e media aritmetica, nonché la presunzione che la percentuale di ricarico applicata sulla merce venduta in evasione di imposta fosse stata uguale a quella applicata sulla merce commercializzata ufficialmente, a meno che il contribuente non avesse provato di avere venduto a prezzi inferiori a quelli documentati.

Contro la sentenza di appello, depositata in data 18.10.2012, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la contribuente con atto notificato in data 18/23 aprile 2013, affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate. La contribuente ha presentato successiva memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che l’Ufficio avesse assolto l’onere della prova in ordine ai ricavi non contabilizzati ed alla loro quantificazione sulla base di una catena di presunzioni (quali quelle di presunzione di “vendita in nero”, di presunzione del prezzo di vendita in nero uguale a quello contabilizzato sulla base di una percentuale di ricarico presunta e di presunzione che la merce fosse stata venduta negli anni compresi fra il 2005 ed il 2008), fra l’altro inidonee a dimostrare l’importo evaso.

1.1.11 motivo è infondato poiché è ormai consolidato nel sistema processuale il principio per cui non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado (tralaticiamente menzionato in alcune sentenze non recenti), in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto (v., per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 20748 del 01/08/2019 Rv. 655040 – 01), ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 23860 del 29/10/2020 Rv. 659478 – 01).

1.2. Il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 c.c., può infatti legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea -in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento de fatto ignoto (Cass. n. 18915, n. 17166, n. 17165, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015; 16/06/2017, n. 15003, in motivazione, al p. 3), il tutto nell’ambito del ragionamento presuntivo per cui i singoli indizi vedono accresciuto il loro valore all’interno del procedimento di coordinazione logica.

1.3.In ogni caso l’unica presunzione applicata nel caso in esame al fine di ritenere la sussistenza di ricavi non dichiarati è stata quella di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4 e cioè la presunzione legale di cessione della merce in evasione di imposta, mentre gli altri elementi che la ricorrente indica come presunzioni di secondo grado o a catena costituiscono soltanto i criteri, anche logici, che l’Ufficio ha utilizzato al fine di ricostruire in concreto i ricavi conseguenti alla vendita in nero delle merci nell’ambito di presunzioni semplici espressamente menzionate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, facenti parte di una sequenza presuntiva che peraltro non può essere ritenuta “di secondo grado” rispetto alla presunzione legale che ha determinato l’accertamento.

2. Il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 7 e 109 e del D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata – laddove aveva confermato l’accertamento che aveva “spalmato” i ricavi “in nero” nell’anno di imposta e nei tre anni precedenti – violato i principi di autonomia delle annualità di imposta e di inerenza per cui gli elementi positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’anno in cui si sono manifestati a condizione che siano certi e determinabili, nonché il funzionamento delle presunzione di cessione e di acquisto conseguenti alla rilevazione fisica dei beni che operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche e cioè, nel caso in esame, nel 2008, a nulla rilevando che, “spalmando” i ricavi su più annualità di imposta, l’Ufficio avrebbe riservato alla contribuente un trattamento fiscale più favorevole, poiché ben avrebbe potuto l’Ufficio, seguendo lo stesso ragionamento, “spalmare” i maggiori ricavi su otto anni.

2.1. Anche tale motivo è infondato.

2.2. In base alla giurisprudenza di questa Corte ed al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, le differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture obbligatorie di magazzino e le consistenze delle rimanenze registrate sono, invero, suscettibili di rilevare anche per i periodi precedenti di imposta, se le differenze permangono anche in tali annualità.

2.3. Va riaffermato il principio già a suo tempo espresso da questa Corte (Cass. n. 3949 del 2002) secondo cui: “In tema di IVA, gli effetti della presunzione di cessione dei beni acquistati, importati o prodotti, prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53 operano – come successivamente chiarito anche dal D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4 – con riferimento al momento di inizio delle operazioni di verifica ed al periodo d’imposta oggetto di controllo”. Ne deriva che non è consentito al contribuente, al fine di superare la presunzione, alterare il presupposto della norma mediante una “spalmatura” delle riconosciute cessioni in frode all’imposta, sugli anni anteriori a quello dell’accertamento, sicché si rendono irrilevanti le vicende tributarie relative a quegli anni.

2.4. Questa Corte stessa (Cass. n. 13120 del 2012) ha poi precisato che, in tema di accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi, in base al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4, comma 2, “le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, comma 1, lett. d, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo, presunzione che è relativa e superabile non con qualunque mezzo di prova, ma solamente con le prove tassativamente indicate dal citato D.P.R., artt. 1 e 2”. Al citato art. 4, comma 1, viene precisato che gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano esclusivamente a momento dell’inizio degli accessi, controlli e verifiche (“1. Gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche”). La norma, quindi, presuppone implicitamente una verifica fiscale da parte degli organi accertatori e stabilisce che le presunzioni in oggetto operano limitatamente al periodo d’imposta coincidente con l’anno solare nel corso del quale è effettuata la verifica. Tuttavia, al medesimo art. 4, comma 2, viene previsto che le “eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture di magazzino di cui al D.P.R. n. 600 del 1973 o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta e le consistenze delle rimanenze finali registrate dallo stesso contribuente”, costituiscono “presunzioni di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo”. In tal caso, quindi, le presunzioni di cessioni e di acquisto operano anche per i periodi d’imposta precedenti all’anno in corso, ma comunque oggetto del controllo, qualora emergano in relazione a tali annualità le differenze quantitative di cui sopra (v. anche Cass. n. 23674 del 2018 in motivazione).

2.5.Ne deriva, nella specie, che la presunzione in oggetto, a fronte delle riscontrate differenze inventariali, operava, secondo il dettato letterale normativo, per tutto il periodo d’imposta accertato (dal 2005 al 2008) e, quindi, per tutti gli anni d’imposta oggetto di controllo, in quanto il “periodo d’imposta accertato”, nel quale permanevano, secondo l’Ufficio, le differenze quantitative inventariali riscontrate, non coincideva con l’anno (2008) in cui era avvenuto l’accesso da parte dei verificatori. Come si è già rilevato nella parte espositiva della presente sentenza, l’accertamento, che aveva recepito la verifica della Guardia di Finanza, aveva invero rilevato come la verifica – che aveva riguardato il periodo dal 2005 al 2008 – avesse consentito di dimostrare come “dall’analisi delle rimanenze finali contabilizzate e dichiarate dal contribuente dall’anno 2005 all’anno 2007 si era riscontrato un significativo aumento delle scorte di magazzino…In altre parole la ditta ha sistematicamente e solo contabilmente aumentato il valore delle rimanenze, in assenza di un reale incremento delle stesse. Tali dati risultano essere anomali rispetto al settore di appartenenza ed indicano in realtà la contabilizzazione di valori fittizi delle rimanenze nei vari anni allo scopo di giustificare la mancata registrazione di ricavi; tale circostanza trova riscontro proprio nella differenza di magazzino rilevato dai verificatori”.

2.6. La sentenza impugnata, laddove ha confermato l’accertamento dell’Ufficio, si è quindi conformata a tale itinerario logico, già esposto nell’accertamento, che pertanto si mostra immune da censure (v. Cass. Sez. 5-, Ordinanza n. 5941 del 04/03/2021 Rv. 660822 – 01).

2.7. Non sussiste neppure la violazione del principio di autonomia dei periodi di imposta, poiché, in materia tributaria, l’autonomia dei periodi d’imposta non vale ad escludere che l’accertamento giudiziale del modo di essere dell’obbligazione relativa ad un singolo periodo possa implicare anche l’accertamento di una questione addirittura capace di “fare stato”, con forza di giudicato, nel giudizio relativo all’obbligazione sorta in un periodo d’imposta diverso. Ciò avviene, ad esempio, qualora (come nella specie) il giudice tributario accerti che l’avviso di accertamento delle imposte dirette relative ad un determinato periodo d’imposta è scaturito dalla medesima attività di indagine della Guardia di finanza da cui abbia tratto origine anche l’avviso di accertamento (relativo al periodo d’imposta successivo) oggetto del giudizio in corso, per circostanze riferibili alla stessa attività investigativa della Guardia di finanza, costituente presupposto comune di entrambi gli accertamenti. Ne consegue che l’attività svolta dalla Guardia di finanza relativamente a più annualità di imposta non può non spiegare i suoi effetti nelle controversie insorte tra le stesse parti in relazione ad accertamenti, riferiti a periodi d’imposta diversi, scaturiti dalla medesima attività di indagine (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22036 del 13/10/2006 Rv. 595459 – 01).

3. Con il terzo motivo si sostiene la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere esaminato espressamente le doglianze di violazione dei principi di autonomia dei periodi di imposta e di inerenza nonché di violazione del D.P.R. n. 441 del 1997, art. 4 già poste dalla contribuente fin dal ricorso introduttivo.

3.1. In effetti la sentenza impugnata non ha espressamente preso in esame tali questioni, però il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 c.p.c., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (v. Cass. Sez. 6 5, Ordinanza n. 28308 del 27/11/2017 Rv. 646428 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 18797 del 16/07/2018 Rv. 649791 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 7653 del 16/05/2012 Rv. 622441 – 01), mentre nella specie si trattava sostanzialmente di argomentazioni il cui rigetto è avvenuto implicitamente da parte della sentenza impugnata che, in accoglimento dell’appello della Agenzia delle Entrate, ha ritenuto corretto l’accertamento.

3.2. In ogni caso, come correttamente rilevato dalla controricorrente, in tema di ricorso per cassazione, qualora la parte prospetti un difetto di motivazione che non riguarda un punto di fatto, bensì, come nella specie, un’astratta questione di diritto implicante violazione di legge, il giudice di legittimità, investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che anche l’eventuale mancanza di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14476 del 28/05/2019 Rv. 654306 – 04).

3.3. Anche il terzo motivo deve essere quindi rigettato.

4. In conclusione, il ricorso deve rigettato con condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. Poiché il procedimento di impugnazione è iniziato dopo il trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della citata L. n. 228 del 2012, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 26 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2021

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