Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.30326 del 27/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17902/2015 proposto da:

S.S.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI N. 114/B, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE COLETTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CRISTIANA TOSCANO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difese ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mnadato –

avverso la sentenza n. 964/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/03/2015 R.G.N. 11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’

Stefano, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma, adita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha riformato la sentenza del Tribunale di Latina che, nella contumacia del Ministero, aveva accolto il ricorso di S.S.D. ed aveva dichiarato “nulla e di nessun effetto” la sanzione disciplinare della multa pari a tre ore di stipendio inflitta al S. con Decreto 2 dicembre 2010.

2. La Corte territoriale ha evidenziato che aveva errato il giudice di prime cure nel ritenere che i fatti non fossero stati provati in ragione della contumacia dell’amministrazione e, richiamata giurisprudenza di questa Corte formatasi in tema di licenziamento, ha affermato che anche qualora il datore di lavoro non si costituisca in giudizio il giudice è tenuto a porre a fondamento della decisione gli elementi di prova offerti dalla parte ricorrente, che nella specie non aveva contestato la materialità della condotta, consistita nell’avere spedito, ponendo le spese a carico dell’amministrazione, 118 lettere, indirizzate a colleghi in servizio nella Regione Lazio che avevano partecipato alla procedura di selezione interna indetta per l’attribuzione della posizione economica C3, con le quali si formulavano critiche ai criteri seguiti per la formazione della graduatoria e si sollecitava un’iniziativa giudiziaria comune con il patrocinio di un unico legale.

3. Il giudice d’appello ha ritenuto che la condotta, tenuta in violazione di precisi obblighi imposti dal c.c.n.l. e dal Codice di comportamento, integrasse illecito disciplinare e che la tenuità del danno e l’avvenuto risarcimento rilevassero solo sul piano della necessaria proporzionalità fra addebito e sanzione. Ha aggiunto che nessun rilievo poteva assumere il decreto di archiviazione del procedimento penale instaurato in relazione al reato peculato, sia perché l’appellato non poteva invocare l’art. 653 c.p.p., sia in quanto il decreto non aveva escluso il fatto considerato nelle sue componenti materiali.

4. La Corte territoriale, quanto ai termini del procedimento disciplinare, ha ritenuto inapplicabile del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, perché il procedimento era stato attivato in data antecedente l’entrata in vigore della nuova disciplina ed ha ritenuto inammissibile la questione, prospettata dal S. solo in grado di appello, inerente la violazione del termine fissato dall’art. 14 del CCNL 12.6.2003 per il personale del comparto ministeri. A fini di completezza ha aggiunto che le parti collettive non avevano previsto alcuna sanzione per la violazione del termine in questione, privo del carattere di perentorietà perché indicato solo “in linea generale”.

5. Per la cassazione della sentenza S.S.D. ha proposto ricorso sulla base di sette motivi, illustrati da memoria, ai quali non ha opposto difese il Ministero, che si è limitato a depositare atto di costituzione al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

6. La Procura Generale ha concluso del D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, convertito in L. n. 176 del 2020, per l’infondatezza del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione di legge in relazione all’art. 115 c.p.c. e L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5” e sostiene che ha errato la Corte territoriale nel richiamare le disposizioni indicate in rubrica perché, in realtà, il Tribunale aveva posto a fondamento della decisione i fatti che il ricorrente aveva dedotto a sostegno del ricorso, non contestati dall’amministrazione rimasta contumace.

2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita alla Corte territoriale l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti perché, nel valutare il materiale probatorio in atti, non ha considerato la carica di rappresentante sindacale all’epoca rivestita dal S., il quale aveva agito in tale veste a non a titolo personale.

3. La terza critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3 e art. 437 c.p.c., comma 2, perché la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare inammissibili le eccezioni sollevate dal Ministero solo in grado di appello.

4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della violazione dell’art. 653 c.p.p. e sostiene che il decreto di archiviazione emesso dal GIP è assimilabile alla sentenza di assoluzione passata in giudicato. Aggiunge che il procedimento disciplinare è precluso, non solo nell’ipotesi in cui il giudice penale accerti l’insussistenza del fatto, ma anche qualora l’assoluzione avvenga perché il fatto stesso non costituisce reato.

5. La quinta critica denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter e dell’art. 14 del CCNL 12.6.2003 per il personale del comparto Ministeri. Il ricorrente sostiene che il procedimento disciplinare doveva essere riattivato, del richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 ter, comma 4, entro sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di riapertura ed addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto inapplicabile alla fattispecie il D.Lgs. n. 150 del 2009. A tal fine evidenzia che l’intero procedimento si era svolto nella vigenza della nuova normativa, perché alla data di entrata in vigore il procedimento stesso risultava sospeso. Aggiunge che in ogni caso l’amministrazione avrebbe dovuto rispettare il termine previsto dalla contrattazione collettiva e, quindi, riattivare il procedimento entro 180 giorni dalla notizia dell’avvenuta archiviazione. Precisa al riguardo che ha errato il giudice d’appello nel ritenere inammissibile la deduzione, trattandosi di una difesa formulata in replica ai motivi di impugnazione.

6. Il sesto motivo, formulato sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, addebita alla sentenza gravata “la violazione di legge e accordi collettivi nazionali di lavoro in relazione all’art. 23, lett. 1 CCNI e art. 10, comma 3 Codice di comportamento dei dipendenti della P.A.” cerché l’uso di una franchigia postale per motivi di servizio e non a fini privati non è riconducibile alle infrazioni disciplinari previste dalle disposizioni richiamate in rubrica.

7. Infine con la settima critica il ricorrente si duole della violazione degli artt. 348 e 436 c.p.c., perché, alla luce delle considerazioni esposte negli altri motivi, la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere inammissibile l’appello ex art. 348 bis c.p.c..

8. Il primo motivo è inammissibile nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente interpretato la sentenza del Tribunale ed è infondato per il resto.

La sentenza di appello, sia essa confermativa o di riforma, si sostituisce integralmente a quella di primo grado (cfr. fra le più recenti Cass. n. 352/2017 e Cass. n. 1323/2018), sicché nel giudizio di cassazione, nel quale rileva solo la correttezza o meno della soluzione adottata dal giudice d’appello, il ricorrente non ha alcun interesse a dolersi dell’errore interpretativo asseritamente commesso da quest’ultimo quanto al contenuto della decisione del Tribunale, perché ciò che conta è accertare se siano conformi a diritto le conclusioni alle quali il giudice dell’impugnazione è pervenuto rispetto alla questione controversa.

Ciò premesso rileva il Collegio che la sentenza impugnata è conforme all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la contumacia integra un comportamento neutrale al quale non può essere attribuita valenza confessoria e, pertanto, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione della fondatezza della domanda né impedisce al contumace di svolgere difese nel giudizio d’appello e di prospettare questioni rilevabili d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n. 24885/2014; Cass. n. 25281/2009; Cass. n. 12317/2003).

In linea con il richiamato orientamento è il principio, valorizzato dal giudice d’appello, alla stregua del quale nei giudizi nei quali viene in rilievo l’esercizio dei poteri datoriali, sebbene incomba sul datore di lavoro l’onere di provare i fatti che legittimano l’atto adottato, la sola contumacia di quest’ultimo non consente al giudice di decidere la controversia sulla base della regola residuale di giudizio tratta dall’art. 2697 c.c., se gli elementi di prova sono stati comunque acquisiti al processo, seppure non ad iniziativa della parte gravata del relativo onere (cfr. Cass. n. 19189/2013; Cass. n. 16213/2003). Ciò perché nel nostro ordinamento processuale al principio dispositivo si affianca quello di “acquisizione probatoria”, secondo il quale le risultanze istruttorie, legittimamente acquisite, concorrono tutte alla formazione del libero convincimento del giudice, senza che la relativa provenienza possa condizionare tale convincimento in un senso o nell’altro, e senza che possa, conseguentemente, essere esclusa la utilizzabilità di una prova fornita da una parte per trarne argomenti favorevoli alla controparte (cfr. fra le tante Cass. n. 21909/2013 e Cass. n. 15480/2012).

Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che la sola contumacia del Ministero non impedisse di ritenere legittima la sanzione, giacché la materialità della condotta di rilievo disciplinare non era stata posta in discussione dal ricorrente, il quale aveva ammesso i fatti ed aveva censurato l’operato del datore eccependo la tardività della riattivazione del procedimento disciplinare sospeso, la liceità della condotta, la preclusione derivante dal giudicato penale, ossia prospettando questioni di diritto la cui soluzione non poteva in alcun modo essere condizionata dalla mancata costituzione del datore di lavoro.

9. Il secondo motivo è inammissibile innanzitutto perché non è formulato nel rispetto degli oneri formali indicati da Cass. S.U. n. 8053/2014.

Occorre ribadire che il ricorrente che denunci il vizio di cui al riformulato art. 360 c.p.c., n. 5 è tenuto, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a “indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività””.

Nel caso di specie il ricorrente, oltre a non fornire alcuna indicazione in merito alle modalità di deduzione del fatto controverso nel giudizio di merito, nell’argomentare sulla decisività della circostanza finisce per prospettare più che un omesso esame un errore di diritto, ossia la violazione e falsa applicazione del principio secondo cui le spese per l’attività sindacale svolta sul luogo di lavoro sarebbero a carico del datore di lavoro, e ciò fa senza indicare la fonte legale o contrattuale dalla quale detto obbligo deriverebbe.

10. La terza critica è infondata.

Il divieto posto dall’art. 437 c.p.c., riguarda le eccezioni in senso stretto, ossia quelle rimesse dalla legge alla facoltà della parte interessata, nonché le eccezioni che, seppure rilevabili anche d’ufficio, vengano sollevate in appello sulla base di elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, introducendo in sede di gravame un nuovo tema di indagine ed alterando i termini sostanziali della controversia (cfr. fra le tante Cass. n. 2271/2021).

Il divieto non opera rispetto alle mere difese sicché ben può il convenuto, rimasto contumace nel giudizio di primo grado, contestare nell’atto di appello la fondatezza della domanda e svolgere argomentazioni che prospettino una diversa valutazione delle risultanze di causa acquisite al processo ad iniziativa della controparte.

11. Manifestamente infondato è il quarto motivo giacché “il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale non ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare, non essendo equiparabile ad una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso” (Cass. S.U. n. 24378/2010; Cass. S.U. n. 14551/2017; Cass. S.U. n. 16277/2010).

A detto rilievo, già assorbente, si deve aggiungere che anche il giudicato penale, non ravvisabile nella fattispecie, non è di per sé ostativo, attesa la diversità dei presupposti delle diverse responsabilità (cfr. Cass. n. 25485/2017), ad una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, giacché il vincolo posto dall’art. 653 c.p.p., attiene all’accertamento dei fatti nella loro materialità e, dunque, alla ricostruzione dell’episodio oggetto dell’incolpazione, e non impedisce di ravvisare nella condotta accertata, seppure ritenuta priva di rilievo penale, una violazione dei doveri che derivano dal rapporto di impiego (Cass. n. 3659/2021).

12. Infondato è anche il quinto motivo che prospetta la violazione dei termini fissati per la riattivazione del procedimento disciplinare sospeso dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009.

La sentenza impugnata non si è discostata dall’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la nuova disciplina del procedimento si applica ai fatti disciplinarmente rilevanti per i quali la notizia dell’infrazione risulti acquisita dagli organi dell’azione disciplinare in data successiva al 16 novembre 2009 (Cass. n. 11985/2016), con la conseguenza che per i procedimenti già avviati e sospesi la regolamentazione dei termini relativi alla ripresa del procedimento disciplinare è rimessa alla contrattazione collettiva (Cass. n. 12358/2017; Cass. n. 17638/2019).

Per il resto il motivo è inammissibile perché, quanto al mancato rispetto dell’art. 14 del CCNL 12.6.2003 per il personale del comparto Ministeri, la Corte territoriale ha fondato la pronuncia su una duplice ratio decidendi, rilevando, da un lato, che la violazione era stata inammissibilmente dedotta solo in grado di appello, dall’altro che le parti collettive non avevano previsto alcuna sanzione conseguente al mancato rispetto del termine di 180 giorni, stabilito solo “in linea generale”.

Il ricorso non censura in alcun modo questa seconda ratio, da sola sufficiente a sorreggere il decisum, e si limita ad argomentare sull’ammissibilità in appello della deduzione, sicché è applicabile il principio secondo cui “la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, né contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato; detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione. ” (Cass. n. 17182/2020).

13. Parimenti inammissibile è il sesto motivo, nella parte in cui denuncia il vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 23 di un imprecisato C.C.N.I..

La denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, per i quali è previsto il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell’amministrazione interessata, hanno una dimensione decentrata rispetto al comparto, con la conseguenza che la loro interpretazione è riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizio di motivazione, nei limiti fissati dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile ratione temporis (cfr. fra le tante Cass. n. 5565/2004; Cass. n. 20599/2006; Cass. n. 28859/2008; Cass. n. 6748/2010; Cass. n. 15934/2013; Cass. n. 4921/2016, Cass. n. 16705/2018; Cass. n. 33312/2018; Cass. n. 20917/2019; Cass. n. 7568/2020; Cass. n. 25626/2020).

A detti contratti, inoltre, non si estende il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sicché, venendo in rilievo gli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente è tenuto a depositarli, a fornire precise indicazioni sulle modalità e sui tempi della produzione nel giudizio di merito, a trascrivere nel ricorso le clausole che si assumono erroneamente interpretate dalla Corte territoriale (si rimanda, tra le più recenti, a Cass. nn. 7981, 7216, 6038, 2709, 95 del 2018).

A tanto il ricorrente non ha provveduto e, pertanto, la censura, in parte qua, deve essere ritenuta inammissibile.

13.1. Quanto poi all’asserita violazione dell’art. 10, comma 3, del Codice di comportamento allegato al CCNL 12.6.2003, secondo cui “Il dipendente non utilizza a fini privati materiale o attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio. Salvo casi d’urgenza, egli non utilizza le linee telefoniche dell’ufficio per esigenze personali. Il dipendente che dispone di mezzi di trasporto dell’amministrazione se ne serve per lo svolgimento dei suoi compiti d’ufficio e non vi trasporta abitualmente persone estranee all’amministrazione”, il motivo si incentra tutto sul presupposto, assolutamente erroneo, della riconducibilità dell’attività sindacale a quella d’ufficio.

La circostanza che il datore di lavoro pubblico, al pari di quello privato, sia tenuto, del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 42, a garantire nel luogo di lavoro l’esercizio dei diritti e delle prerogative sindacali non consente certo di affermare che l’attività sindacale sia prestata per ragioni di servizio, perché queste ultime restano circoscritte a quelle inerenti il rapporto di impiego.

Il ricorrente non indica alcuna disposizione di legge o di contratto che legittimi il rappresentante sindacale a porre a carico del datore di lavoro i costi della corrispondenza inviata in ragione della carica sindacale rivestita e infondatamente equipara la spedizione a mezzo del servizio postale all’utilizzazione degli strumenti informatici messi a disposizione dal datore, questa sì espressamente prevista, nell’ambito della disciplina del diritto di affissione, dall’art. 3 del CCNQ 7.8.1998 sulle prerogative sindacali.

14. Inammissibile, infine, è la settima censura.

Anche a prescindere dall’irrituale formulazione del motivo – perché pur deducendo un preteso error in procedendo, tuttavia non riferisce una conseguente nullità della sentenza (come invece sarebbe stato doveroso: cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 17931/2013) -, basti osservare che l’avvenuto accoglimento dell’appello, confermato da questa S.C. (nei limiti propri del giudizio di legittimità) con la presente sentenza, dimostra l’insussistenza dei presupposti di una pronuncia ex art. 348 bis c.p.c..

15. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di legittimità perché il Ministero ha solo depositato atto di costituzione e non ha svolto attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2021

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