LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20440/2017 proposto da:
STUDIUM S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIETRO DA CORTONA, 8, presso lo studio dell’avvocato MAURILIO D’ANGELO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.L., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SIRO CENTOFANTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 739/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 15/06/2017 R.G.N. 825/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/01/2021 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO.
RILEVATO
che:
1. con sentenza del 15.6.2017, depositata nella stessa data, con contestuale stesura della motivazione, la Corte d’appello di Firenze dichiarava improcedibile il ricorso iscritto al n. 825/2016 R.G. e, quanto alla causa n. 827/2016 R.G., rigettava il gravame proposto dalla s.r.l. Studium avverso la decisione del Tribunale di Firenze, che aveva accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra quest’ultima e C.L. nell’ambito della gestione organizzativa della struttura residenziale di un “Centro Studi” espressione del Sindacato CISL, dal 16.3.1993 al 31.10.2011, data del licenziamento, ed aveva condannato la società al pagamento, in favore del C., di complessivi Euro 183.011,32, oltre accessori di legge, a titolo di indennità di preavviso e di t.f.r., riconoscendo, altresì, il risarcimento del danno per irregolarità contributiva;
2. la Corte, dichiarata la improcedibilità del primo ricorso, non notificato, rilevava come dalle testimonianze assunte era emerso che il C. aveva operato costantemente alle dirette dipendenze del consiglio di amministrazione, pur con autonomia di scelte, nell’organizzazione della struttura alberghiera, per i servizi di catering, per le pulizie, per l’attività ricettiva in genere del centro e che si era occupato anche di proporre a terzi l’utilizzo dell’impianto per occasioni congressuali, in modo da trarre profitto dalle soste dell’attività del centro studi sindacali;
3. la Corte distrettuale osservava che la impugnata sentenza del Tribunale aveva ricostruito la vicenda lavorativa individuando i compiti assolti dal lavoratore con qualifica dirigenziale, con continuità della prestazione e compiti riferiti alla sorveglianza e direzione di dipendenti, con obbligo di rendere conto periodicamente e direttamente ai vertici aziendali circa le concrete attività espletate e gli obiettivi raggiunti, con inserimento stabile come dipendente in azienda ed in posizione di vertice. Le fatture emesse per i compensi a cadenza regolare non rilevavano in senso contrario. Quanto all’omissione contributiva, la Corte riteneva la condanna generica al risarcimento del danno previdenziale sorretta dalla concreta considerazione che l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato si situava a partire dal marzo 1993, con prescrizione di una parte dei contributi i.v.s.;
4. di tale decisine domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a sei motivi, cui resiste, con controricorso, il C., che ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo, la società denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362,1363 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, ritenendo che la sentenza non abbia considerato che il C. era onerato del deposito del testo integrale e non dell’estratto del c.c.n.l. di riferimento per le aziende alberghiere, pena l’improcedibilità della domanda;
2. con il secondo motivo, ascrive alla decisione impugnata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ed all’art. 111 Cost., in ordine alla avvenuta qualificazione del rapporto come subordinato, senza che si sia conferito rilevo ad indici sussidiari, quali l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, e senza considerare uni fatto storico decisivo quale l’assenza di superiori gerarchici che impartissero ordini, direttive ed istruzioni precise per lo svolgimento dell’attività, ovvero senza alcuna valutazione dell’assenza dell’altrui potere disciplinare. Si richiamano all’uopo dichiarazioni di testi, che avrebbero delineato una configurazione del rapporto come di lavoro autonomo, come comprovato dalla non necessità per il C. di richiedere ferie, permessi o giustificare assenze e prestazione della propria attività anche in favore di terzi soggetti nei confronti dei quali venivano emesse regolari fatture. Si sottolinea la mancata erogazione di compensi con cadenza fissa e come il corrispettivo fosse decisamente più elevato rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva di settore invocata;
3. con il terzo motivo, la s.r.l. Studium si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, contestando la mancata valutazione delle modalità effettive del rapporto di lavoro;
4. con il quarto motivo, la ricorrente società lamenta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e nullità/illegittimità della sentenza impugnata rispetto alla statuizione sul preavviso, riconosciuto al C. (quantum), evidenziando come la società non abbia mai applicato il CCNL per i dirigenti dell’imprese alberghiere, ma da sempre abbia avuto riguardo al regolamento CISL, che escludeva la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato;
5. il quinto motivo si fonda sulla deduzione di nullità della sentenza impugnata in relazione alla statuizione di condanna al t.f.r., per il periodo 16.3.1993/31.10.2011, assumendo la ricorrente la avvenuta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 116 c.p.c., sul rilievo che la Corte distrettuale abbia omesso qualsiasi motivazione sulla specifica doglianza attinente al titolo ed all’importo, dolendosi che il giudice del gravame abbia disposto c.t.u., partendo per il conferimento dell’incarico da documento non contabile redatto da controparte;
6. con il sesto motivo, la ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2116 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sulla considerazione che non possa essere emessa una pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per irregolarità contributiva non sussistente per mancanza di obbligo di corresponsione o, comunque, prescrizione dei contributi, rilevando che l’entità delle retribuzioni percepite e la stessa esistenza del rapporto e la sua tipologia debbano essere provate dal lavoratore ai fini della quantificazione della contribuzione omessa;
7. il primo motivo è inammissibile e, comunque, la censura articolata non è conferente, in quanto non è specificato di quali delle clausole contrattuali si intenda censurare l’interpretazione e criticare l’omessa valutazione complessiva alla stregua dei canoni ermeneutici che ne regolano il procedimento interpretativo, ad onta del riferimento a singoli canoni ermeneutici dei quali non viene indicata la precisa intervenuta violazione, se non nell’ambito di una valutazione che strumentalmente viene ancorata alla dedotta violazione, senza una specifica censura di applicazione erronea del criterio esaminato, con indicazione del modo in cui il giudice se se ne sia discostato. Quanto al contratto collettivo, non si indica se ed in che termini se ne sia censurata la mancanza del testo integrale già in fase di gravame e comunque, ancor prima, il motivo è volto simultaneamente a denunciare violazione di legge, vizio di motivazione e vizio di error in procedendo, con inammissibile mescolanza e sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1 e prospettando in ammissibilmente la medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini riportati);
8. le doglianze di cui al secondo motivo sono anch’esse inammissibili, in quanto tendono nella sostanza ad una valutazione della prova in termini contrappositivi rispetto a quella compiuta dal giudice del gravame, senza considerare che la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass. 27 luglio 2007, n. 16681; Cass. 23 giugno 2014, n. 14160); nella sostanza non si deduce idoneamente la violazione dell’art. 2094 c.c..
9. la censura di cui al terzo motivo è preclusa dalla sussistenza di una “doppia conforme”, prescrivendo l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360, comma 1, – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado (cfr., ex aliis, Cass. 23021/2014);
10. analogamente è a dirsi per il quarto motivo, non essendo chiarita la decisività del fatto che legittimerebbe la censura, oltre alla già indicata preclusione derivante da “doppia conforme”;
11. in relazione al quinto motivo, è sufficiente rilevare la genericità e l’erronea deduzione del vizio, in particolare con riguardo all’art. 116 c.p.c., secondo i reiterati principi affermati in relazione alla violazione di tale norma. La norma è disattesa quando il giudice abbia valutato, secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr., da ultimo, Cass. 30.9.2020 n. 20867; Cass. 17.1.2019 n. 1229, Cass. 27.12.2016 n. 27000); la situazione prospettata non trova riscontro nella fattispecie legale esaminata;
12. l’ultimo motivo è sia inammissibile che infondato, in quanto in tema di omissioni contributive, l’omissione della contribuzione produce un duplice pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, consistente, da un lato, dalla perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile, e, dall’altro, dalla necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui alla L. 12 agosto 1962, n. 1338, art. 13. Ne consegue che le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro, consistono, una volta raggiunta l’età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116 c.c., mentre, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso (cfr. Cass. 30.10.2018 n. 27660 e Cass. 20.1.2015 n. 1179);
13. alla stregua delle svolte osservazioni, deve pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità complessiva del ricorso;
14. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;
15. essendo stato il ricorso proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, presupposti che ricorrono anche in ipotesi di declaratoria di inammissibilità del ricorso (cfr. Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
PQM
la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5250,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., ove dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 26 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2021
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