Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.31555 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3862-2019 proposto da:

L.G.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 30, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO MAMMONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO PERRONE;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, MANUELA MASSA, PATRIZIA CIACCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1001/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 16/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata dell’11/05/2021 dal Presidente Relatore Dott. LUCIA ESPOSITO.

RILEVATO

CHE:

La Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda avanzata da L.G.E. al fine di accertare l’irripetibilità dell’importo richiestogli in recupero a titolo di somme asseritamente riscosse in eccesso sulla sua pensione cat. lo (invalidità ordinaria), in relazione al periodo 2/1/2002 31/12/2004, in quanto la prestazione erogata non sarebbe dovuta per essere nel periodo l’ammontare dei suoi redditi superiore ai limiti previsti dalla L. n. 335 del 1995;

a fondamento della decisione la Corte territoriale rilevava l’inapplicabilità della disciplina dell’indebito previdenziale, riguardando il caso in esame la diversa ipotesi di divieto di cumulo della pensione di anzianità con il reddito da lavoro autonomo, secondo la previsione di cui al D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6;

avverso la sentenza propone ricorso per cassazione L.G.E. sulla base di due motivi;

l’Inps ha resistito con controricorso;

la proposta del relatore, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata è stata notificata alla controparte.

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo il ricorrente deduce violazione della L. n. 412 del 1991, art. 13 osservando che il regime dell’indebito previdenziale deroga alle ordinarie regole di cui all’art. 2033 c.c. e che la citata disposizione aveva previsto che la verifica delle situazioni reddituali andava fatta annualmente dall’INPS, il quale doveva provvedere al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza entro l’anno successivo a quello in cui era avvenuto l’accertamento, mentre nella specie il recupero era stato messo in moto dall’istituto soltanto a partire dal mese di maggio 2010, a distanza di otto anni dalla verifica relativa a quote di assegno di invalidità percepite dal 1/1/2002 al 31/12/2004, sicché, trascorso il periodo previsto per la verifica, ne conseguiva l’irripetibilità delle somme indebitamente erogate;

con il secondo motivo deduce violazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 42, comma 5 convertito con modificazioni nella L. n. 326 del 2003, secondo cui non sarebbe consentito il recupero di somme indebite percepite anteriormente al 2 ottobre 2003;

i due motivi, da trattare unitariamente in ragione dell’intima connessione, sono infondati;

questa Corte ha avuto modo di rilevare (si veda, ex multis, Cass. n. 1170 del 18/01/2018) che il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, all’art. 10, comma 1, ha introdotto il divieto di cumulo integrale della pensione, accompagnato, al successivo comma 4, dalla previsione in forza della quale “ai fini dell’applicazione del presente articolo, i lavoratori sono tenuti a produrre all’ente o ufficio erogatore della pensione dichiarazione dei redditi da lavoro riferiti all’anno precedente, entro lo stesso termine previsto per la dichiarazione ai fini dell’IRPEF per il medesimo anno”;

il citato D.Lgs. n. 503, art. 10 costituisce, pertanto, norma speciale volta a regolare un’ipotesi peculiare di indebito scaturita dall’applicazione del divieto di cumulo tipizzato dalla stessa norma;

dalle richiamate previsioni consegue che l’indebito oggettivo così configurato, derivante non già da errore nell’erogazione della prestazione pensionistica ma da ricalcolo della medesima per un divieto previsto dall’ordinamento – l’incumulabilità della pensione con i redditi da lavoro autonomo – con obbligo comunicativo in capo al produttore di reddito, esclude l’applicabilità della norma generale sull’indebito previdenziale, la quale postula, invece, la diversa ipotesi dell’erogazione di un trattamento pensionistico in misura superiore a quella dovuta per errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente erogatore;

ne deriva che la decisione impugnata, rispettosa degli indicati principi, deve essere confermata, sicché il ricorso va rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza;

in considerazione della statuizione, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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