Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.31582 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1106-2015 proposto da:

MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITA’ CULTURALI E DEL TURISMO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

G.V., + ALTRI OMESSI, tutte domiciliate ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentate e difese dagli avvocati ALESSANDRO IANDELLI, e MATTEO CAVALLINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 395/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata l’08/07/2014 R.G.N. 330/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/06/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Firenze ha respinto l’appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali – Soprintendenza speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il polo museale della città di Firenze – avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di G.V. e degli altri litisconsorti indicati in epigrafe e, ritenuto provato il demansionamento verificatosi sin dalla data dell’assunzione, aveva condannato il Ministero al risarcimento del danno, quantificato nella misura del 25% della retribuzione percepita, e ad assegnare ai dipendenti demansionati mansioni “adeguate” al livello di inquadramento;

2. la Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che le ricorrenti erano state tutte assunte con qualifica di assistente tecnico museale e con inquadramento nell’area B, posizione B3, ma avevano svolto pressoché esclusivamente mansioni di vigilanza e custodia, di competenza dei lavoratori inquadrati nell’inferiore livello B1;

3. analizzate le declaratorie contrattuali il giudice d’appello ha rilevato che i compiti dell’assistente tecnico museale non devono esaurirsi nell’attività di vigilanza e comprendono, invece, il coordinamento delle posizioni inferiori, la partecipazione ad attività di studio e ricerca in materia di controllo ambientale negli spazi espositivi, l’accoglienza e l’informazione, anche in lingua straniera, dell’utenza;

4. il giudice d’appello ha escluso l’eccepita incapacità dei testi escussi, che tra l’altro erano confermato fatti già risultanti dalla prova documentale, ed ha rilevato che il diritto al risarcimento del danno, soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, era stato provato perché le lavoratrici avevano fornito puntuali allegazioni in merito al pregiudizio subito quanto alla professionalità ed agli sviluppi di carriera;

5. per la cassazione della sentenza il Ministero dei beni e delle attività culturali ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ai quali hanno opposto difese i litisconsorti indicati in epigrafe, con controricorso illustrato da memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo il Ministero denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione della L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 22, comma 5 e dell’art. 7 del bando di concorso pubblicato sulla G.U. serie speciale n. 22 del 19 marzo 1999 e del c.c.n.l. del personale del comparto Ministeri per il quadriennio 1998/2001 e biennio economico 1998/1999 su cui il bando si poggiava, nonché dell’art. 2103 c.c.” e sostiene, in sintesi, che il profilo professionale di assistente tecnico museale, introdotto con l’accordo integrativo del 17 settembre 2001, affida alla professionalità superiore una “vigilanza qualificata” che si esprime nella capacità di coordinamento, nelle maggiori conoscenze, nella capacità di utilizzare strumentazioni informatiche;

1.1. il datore di lavoro, peraltro, non è obbligato ad assegnare al dipendente tutte le attività astrattamente rientranti nel profilo e, pertanto, non è configurabile un demansionamento nei casi in cui vengano svolti solo alcuni dei compiti indicati nella declaratoria contrattuale;

2. la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 addebita alla Corte territoriale la violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. perché i testi escussi avevano un interesse concreto all’esito del giudizio in quanto si trovavano nella medesima posizione sostanziale degli originari ricorrenti;

3. il terzo motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c. e, richiamata giurisprudenza di questa Corte, assume che il danno doveva essere provato e che non ricorrevano nella fattispecie i presupposti della prova presuntiva giacché le originarie ricorrenti si erano limitate a generiche affermazioni sul depauperamento del bagaglio culturale e sulla perdita di conoscenze;

4. con la quarta critica il Ministero lamenta “omessa motivazione su di un preciso motivo d’appello avverso correlativo capo di sentenza (art. 360 c.p.c., n. 5); Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (art. 360 c.p.c., n. 3)” e sostiene che la Corte fiorentina ha del tutto omesso l’esame del motivo d’appello formulato avverso il capo della sentenza con il quale era stato ordinato di assegnare le appellate ancora in servizio a “mansioni adeguate”;

4.1. rileva l’assoluta indeterminatezza della pronuncia ed aggiunge che il giudice non può ingerirsi nell’organizzazione degli uffici pubblici statali;

5. il primo motivo è inammissibile perché, sebbene in rubrica richiama anche il CCNL per il personale del comparto Ministeri 1998/2001, la L. n. 448 del 1998, art. 22, comma 5, nonché l’art. 2103 c.c. (comunque non applicabile all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale vale la disciplina speciale dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), sviluppa argomenti che si incentrano solo sul contenuto del bando di concorso e sui profili professionali dell’addetto ai servizi di sorveglianza e dell’assistente tecnico museale, descritti dalla contrattazione integrativa, non da quella nazionale di comparto;

5.1. la giurisprudenza di questa Corte da tempo è consolidata nell’affermare che, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63 e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, la denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, per i quali è previsto il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell’amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, con la conseguenza che la loro interpretazione è riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizio di motivazione, nei limiti fissati dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo applicabile ratione temporis (cfr. fra le tante Cass. n. 5565/2004; Cass. n. 20599/2006; Cass. n. 28859/2008; Cass. n. 6748/2010; Cass. n. 15934/2013; Cass. n. 4921/2016, Cass. n. 16705/2018; Cass. n. 33312/2018; Cass. n. 20917/2019; Cass. n. 7568/2020; Cass. n. 25626/2020);

5.2. a detti contratti non si estende, inoltre, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sicché, venendo in rilievo gli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente è tenuto, non solo a trascrivere nel ricorso le clausole che si assumono erroneamente interpretate dalla Corte territoriale, ma anche a depositare il CCNI o a fornire precise indicazioni sulle modalità e sui tempi della produzione nei precedenti gradi di giudizio (si rimanda, tra le più recenti, a Cass. nn. 7981, 7216, 6038, 2709, 95 del 2018);

5.3. analogo regime vale per il bando di concorso, giacché l’attività interpretativa degli atti unilaterali, anche se espressione di potestà autoritativa, rientra nel giudizio di fatto riservato al giudice del merito, con la conseguenza che in sede di legittimità è consentita solo la denuncia di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, applicabili, nei limiti della compatibilità, ex art. 1324 c.c.;

5.4. dai richiamati principi, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, discende l’inammissibilità del primo motivo, perché il Ministero non ha fornito indicazioni circa i tempi ed i modi di produzione degli atti, non depositati in questa sede, né ha individuato le regole di ermeneutica in ipotesi violate dalla Corte territoriale;

6. la seconda censura è infondata in quanto la sentenza impugnata, nell’escludere l’eccepita incapacità dei testimoni indicati dalle originarie ricorrenti, non si è discostata dall’orientamento, che costituisce ius receptum, secondo cui l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati, sicché lo stesso non si identifica con l’interesse di mero fatto che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, neppure nel caso, che qui non ricorre, di pendenza di identica lite tra lui ed il datore di lavoro (cfr. fra le tante Cass. n. 2929/2020, Cass. n. 12297/2019, Cass. 21418/2015);

7. inammissibile è anche il terzo motivo che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., sollecita una revisione del giudizio di fatto espresso dalla Corte territoriale quanto alla prova del danno alla professionalità;

7.1. una censura relativa all’errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice d’appello, perché la violazione può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18092/2020; Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016);

7.2. è stato anche affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che non si può legittimare una “trasformazione” in error in procedendo, attuata per mezzo della censura di violazione delle norme processuali predette, del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017) e ciò perché, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 83 del 2012, “il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. n. 11892/2016 e negli stessi termini Cass. n. 23153/2018);

8. infine inammissibile è anche la quarta critica, con la quale l’omessa pronuncia su un motivo di appello è denunciata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 nonché ex art. 360 c.p.c., n. 3, sul rilievo che dalla stessa sarebbe derivata una violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52;

8.1. basterà al riguardo richiamare il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte alla stregua del quale “nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronunzia da parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento all’art. 112 c.p.c.), purché nel motivo su faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge “(Cass. S.U. n. 17931/2013);

8.2. è quest’ultima l’ipotesi che ricorre nella fattispecie, perché il Ministero ricorrente non ha fatto riferimento alcuno alla nullità in parte qua della pronuncia né ha denunciato la violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato;

9. l’inammissibilità dei motivi con i quali sono stati censurati i capi della sentenza inerenti il demansionamento e le tutele conseguenti, rende intangibile la decisione, con la conseguenza che è inibita alla Corte ogni pronuncia sull’incidenza del nuovo sistema di classificazione intervenuto nell’arco temporale di interesse ad opera del CCNL 14.9.2007 (artt. 6, comma 5, 12, 16 e 17) che, anticipando la riformulazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 ad opera del D.Lgs. n. 150 del 2009, ha consentito la piena fungibilità all’interno dell’area di inquadramento;

10. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, in continuità con quanto già affermato da Cass. n. 31132/2019 ed in precedenza da Cass. n. 7053/2010, con conseguente condanna del Ministero al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, da distrarre in favore degli avvocati Alessandro Iandelli e Matteo Cavallini, che hanno reso la dichiarazione prescritta dall’art. 93 c.p.c.;

11. non occorre dare atto della sussistenza delle condizioni processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater perché la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 4315/2020 e Cass. S.U. n. 9938/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, con distrazione in favore degli avvocati Matteo Cavallini e Alessandro Iandelli, dichiaratisi antistatari.

Così deciso in Roma, il Adunanza camerale, il 22 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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