Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.31637 del 04/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubalda – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17637-2016 proposto da:

P.S., P.E., P.C., P.G., P.D. (nella qualità di figli e successori a titolo universale di P.R. deceduto il *****);

P.A.M. e P.M.P. (figlie di Po.Gi., tutti rapprsentati e difesi dall’Avvocato GIOVANBATTISTA COVIELLO ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Alessandro Pieri, in ROMA, V.le MAZZINI 41;

– ricorrenti –

contro

ROMA CAPITALE, in persona della Sindaca pro tempre, rapresentata e difesa dagli Avvocati DOMENICO ROSSI e ANTONIO CIAVARELLA ed elettivamente domiciliata presso gli Uffici della AVVOCATURA CAPITOLINA, in ROMA, VIA del TEMPIO di DIANA 21;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4890/2015 della CORTE d’APPELLO di ROMA, depositata il 02.09.2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/06/2021 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 20.3.2008, P.R. conveniva in giudizio il COMUNE di ROMA esponendo: che egli, quale figlio legittimo di Po.Gi., era subentrato, in funzione della delazione ereditaria, nel possesso dell’immobile sito in *****, costituente fin da epoca antecedente al 1940 abitazione della sua famiglia dove la Po., che vi aveva continuativamente abitato fin da allora, vi era anche deceduta; che l’immobile in questione era stato costruito in epoca anteriore al 1940, quando il sedime sul quale esso insisteva e l’area limitrofa costituita dal c.d. Parco Schuster erano di proprietà della Santa Sede e in esso si era installata la sua famiglia assumendone e mantenendone il possesso; che, dopo la cessione delle aree al Comune di Roma, il fabbricato era stato inserito in catasto a nome di Po.Gi. e poi era stato accatastato il successivo ampliamento; che di recente il Comune di Roma aveva intimato lo sgombero dell’abitazione. Tutto ciò premesso, l’attore chiedeva dichiararsi l’avvenuto acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile, o quantomeno del diritto reale di superficie.

Si costituiva in giudizio il Comune di Roma resistendo alla domanda.

Intervenivano volontariamente P.A.M. e P.M.P., in qualità di figlie di Po.Gi. e sorelle dell’attore, chiedendo che l’accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione fosse pronunciato anche in loro favore.

Con sentenza n. 5188/2011, depositata in data 10.3.2011, il Tribunale di Roma rigettava le domande condannando l’attore e le intervenute al pagamento delle spese processuali.

Avverso detta sentenza proponevano appello P.R., P.A.M. e P.M.P., al quale resisteva il Comune di Roma, che spiegava gravame incidentale. Con sentenza n. 4890/2015, depositata in data 2.9.2015, la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame condannando in solido gli appellanti alle spese processuali del grado di appello.

Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione P.S., P.E., P.C., P.G., P.D., P.A.M. e P.M.P., sulla base di due motivi. Resiste il Comune di Roma con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1140,1141 e 1165 c.c., art. 2945 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Il ricorrente manifestatà il contrasto con la affermazione della Corte d’Appello, secondo la quale la presunzione di possesso di cui all’art. 1141 c.c., doveva ritenersi superata per effetto della sentenza che aveva rigettato la domanda di usucapione ventennale avanzata sempre dalla dante causa dell’odierno ricorrente; così introducendo una presunzione relativa generale di possesso, e attribuendo a chi esercita il potere di fatto sulla cosa la qualifica di possessore, a meno che non si provi a contrario che costui abbia iniziato e continui a esercitare il rapporto con la res come mero detentore o per ragioni di ospitalità o di servizio (Cass. n. 14104 del 2012). Secondo il ricorrente, è erroneo dunque che il possesso si trasformi in detenzione quando il titolare del corpus possessionis riceva, con il rigetto della sua domanda di usucapione, l’affermazione giudiziale dell’appartenenza del diritto di proprietà al soggetto che egli ha convenuto in giudizio. La conoscenza dell’alienità della cosa (si rileva) non esclude una situazione possessoria ad usucapionem, in quanto il possesso è pienamente compatibile con la consapevolezza dell’alienità della cosa. Così il possessore che continua a esercitare sulla cosa l’attività tipica del proprietario pone in essere una condotta esteriore (corpus possessionis) che implica un contegno interiore corrispondente (animus domini) e determina l’esistenza di una relazione di fatto che va qualificata come possesso e che comporta l’applicazione della relativa disciplina anche in termini di usucapione.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte territoriale rilevava, in modo del tutto coerente rispetto al thema decidendum, che essendo stata giudizialmente e irrevocabilmente esclusa la sussistenza delle condizioni per l’acquisto della proprietà a titolo di usucapione ventennale, la relazione della Po. con la casa non poteva essere qualificata che in termini di detenzione; in ragione dell’essere stata accertata, con la medesima sentenza passata in giudicato nel 1971, la proprietà del Comune di Roma sull’immobile (con l’atto di acquisto rogato dall’Amministrazione comunale con la Santa Sede e successivi provvedimenti di piano regolatore e altro) (v. sentenza impugnata, pag. 7).

Peraltro, va posto in evidenza che la domanda di usucapione era stata respinta per mancanza di prova, non solo della data di inizio del periodo utile, ma anche del possesso ad usucapionem, per inattendibilità degli acquisiti elementi probatori circa in ordine alle modalità di acquisto e di esercizio in mancanza di deposizioni testimoniali approssimative e inconferenti. La qual cosa determinava che il termine ventennale avrebbe potuto iniziare solo a seguito di una interversio possessionis, non evidenziata agli atti. Laddove poi neppure la vendita dell’appartamento nel 1979, da parte della ricorrente al proprio convivente, avrebbe mutato l’animus dell’alienante da possidendi in detinendi, avendo anche quest’ultima contrattualmente trasferito il proprio possesso della cosa riacquistandolo solamente con l’apertura della successione in data 14.6.1988. Sicché, alla data della notifica dell’atto introduttivo (20.3.2008), il nuovo periodo utile per l’usucapione non era maturato.

1.3. – I profili sollevati dal ricorrente attengono alla valutazione delle prove in ordine alla configurabilità, nella specie, della interversione nel possesso ex art. 1141 c.c.. Tale valutazione è riservata al giudice del merito, ed e’, pertanto, inibita nel giudizio di legittimità ove questi abbia fornito una motivazione sufficiente e non illogica del proprio convincimento al riguardo (Cass. n. 15839 del 2012). Nella specie, risulta evidente che, essendo intervenuta una sentenza definitiva di rigetto della domanda di usucapione, avanzata dalla dante causa dei ricorrenti, la presunzione di cui all’art. 1141 c.c., fosse stata ampiamente superata configurandosi, a partire da quel momento, come mera detenzione.

Pertanto – onde restituire al soggetto che esercita un potere di fatto sul bene l’animus possidendi, richiesto quale requisito fondamentale per potersi realizzare l’usucapione avrebbe dovuto esser posta una interversio possessionis; la quale, peraltro, non può trovare applicazione mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore (rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che anche questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento) dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui, ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi (ex plurimis, Cass. n. 27411 del 2019; Cass. n. 17376 del 2018; Cass. n. 26327 del 2016).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1140,1141 e 1146 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Osservano i ricorrenti che D.R.U. (convivente della Po.), con titolo astrattamente idoneo, ancorché a non domino, avesse acquistato nel 1979 l’immobile in oggetto, avvalendosi dell’accessione ex art. 1146 c.c., comma 2, e così unendo il proprio possesso a quello della dante causa Po.Gi., la quale, deceduto il De Rose (1988) dal quale è stata designata erede, gli era succeduta nel possesso ex art. 1146 c.c., comma 1. Pertanto, rileva il ricorrente che tale possesso si esprimeva attraverso una continuità ininterrotta, che andava dal trasferimento a non domino Po.- D.R., alla successione D.R.- Po. e sfociava nella successione Po.-eredi di costei; ed in tale continuità, dal 1979 al 2006, era maturato il termine ventennale di usucapione. Il ricorrente sottolinea che il D.R. non si era limitato a subentrare documentalmente nel possesso, ma lo aveva esercitato effettivamente ampliando le dimensioni dell’immobile, denunciando l’abuso edilizio conseguente e chiedendo la sanatoria. La successione nel possesso della Po. quale erede testamentaria del D.R. non poteva essere posta in discussione in funzione di quanto previsto dall’art. 1146 c.c., comma 1, che prevede la continuazione del possesso del de cuius in capo all’erede senza alcuna interruzione.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Del tutto correttamente la Corte distrettuale affermava che, ferma restando la necessità di porre in essere una interversione del possesso per le ragioni evidenziate, la vendita dell’appartamento (effettuata inter partes nel 1979) avrebbe comunque mutato l’animus della alienante da possidendi in detinendi, avendo questa contrattualmente trasferito il proprio possesso della cosa, riacquistandolo solamente con la apertura della successione del D.R., in data 14 giugno 1988.

Peraltro, altrettanto pacifico è il principio della inapplicabilità dell’art. 1159 c.c., ai trasferimenti a titolo universale, dal momento che il titolo idoneo a trasferire la proprietà di beni immobili richiesto per l’usucapione decennale deve consistere in un negozio translativo a titolo particolare e non può essere ravvisato in atti diretti ad attuare un acquisto mortis causa (con riguardo a beni immobili non appartenenti più al de cuius al momento dell’apertura della successione, l’erede non può invocare l’acquisto della proprietà per usucapione decennale, secondo la previsione dell’art. 1159 c.c., né in base alla devoluzione ereditaria, né in base ad Atti o sentenze di divisione della eredità, che si assumano riguardare anche detti beni, tenuto conto che la divisione ha carattere meramente dichiarativo, e che la devoluzione ereditaria è a titolo universale, mentre per l’usucapione decennale si richiede, quale titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà, un atto traslativo a non domino a titolo particolare) (Cass. n. 1976 del 1983; Cass. n. 3342 del 1977; di recente, in rapporto a diversi profili, Cass. n. 10734 del 2018; Cass. n. 9359 del 2021).

3. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile, Corte Suprema di Cassazione, il 3 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021

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