LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 36619-2019 proposto da:
N.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CORTINA D’AMPEZZO 269, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DE SANTIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DIDONE VALERIA;
– ricorrente –
contro
B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, al VIALE CARSO 57, presso lo studio dell’avvocato LILIANA CURTILLI, che la rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 723/2019 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 29/04/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/06/2021 dal Consigliere relatore, Dott. ROSARIO CAIAZZO.
RILEVATO
che:
N.F. propose appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Lanciano che, nel dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio con il coniuge, B.G., pose a suo carico l’obbligo di versare alla ex-moglie l’assegno divorzile pari alla somma mensile di Euro 1.500,00, deducendo: che il Tribunale aveva errato nel non considerare che, con l’accordo stipulato il 19.12.11, la moglie aveva rinunciato al medesimo assegno; che il Tribunale, nel fissare tale assegno, non aveva compiutamente considerato l’effettivo divario di redditi e di patrimonio tra i due ex-coniugi; che le spese giudiziali avrebbero dovuto essere compensate, almeno in parte, data l’eccessività della richiesta della ex-moglie.
Con sentenza del 29.4.19, la Corte territoriale ha respinto l’appello, osservando che: la prova testimoniale dedotta dal N. era inammissibile per la non specificità dei fatti che ne erano l’oggetto, ed irrilevante in ordine alla circostanza che l’appellata stava cercando di svolgere la sua attività lavorativa, peraltro pacifica e comunque non incidente sull’obbligo di versare l’assegno; l’accordo tra le parti del 2011 intese regolare solo le condizioni di separazione, prevedendo le modalità di erogazione di beni e servizi sostitutivi dell’assegno di mantenimento al quale la moglie avrebbe comunque avuto diritto con la separazione, mentre tale accordo non prevedeva alcuna rinuncia all’assegno divorzile, che non era da esso contemplato; l’importo di tale assegno era del tutto conforme alle caratteristiche che la legge assegna al mantenimento dell’ex-coniuge, anche in conformità della giurisprudenza di legittimità; gli ex-coniugi avevano lavorato di concerto nell’ambito di un studio odontoiatrico nel quale la B. svolgeva attività meno remunerative ma di supporto a quelle dell’allora marito, atte a fidelizzare la clientela; che tale attività era avvenuta privilegiando lo studio in Lanciano e trascurando quello in Ortona della ex-moglie, come verificatosi anche nel quinquennio successivo alla separazione del 2011; il reddito dell’appellante era di gran lunga superiore a quello dell’ex coniuge; l’assetto della vita familiare, protrattosi per un rilevante periodo, era da ritenere il frutto di scelta consapevole dei coniugi, in forza del quale la ex-moglie concorse al reddito familiare mediante il proprio lavoro, considerando anche che, data l’età, quest’ultima non avrebbe concreta possibilità di raggiungere un livello d’avviamento professionale e di reddito paragonabile a quelli dell’ex-marito.
Il N. ricorre in cassazione con due motivi.
B.G. resiste con controricorso.
RITENUTO
che:
Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e dell’art. 2697 c.c., avendo la Corte d’appello riconosciuto l’assegno divorzile alla ex-moglie ricostruendo erroneamente i rapporti familiari intercorsi e attribuendo all’appellata un ruolo differente da quello effettivamente ricoperto nell’ambito familiare, in particolare ritenendo corretta la misura dell’assegno divorzile senza attribuire a quest’ultimo la funzione equilibratrice-perequativa, ed omettendo di verificare se l’inadeguatezza dei mezzi della ex-moglie e l’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fossero ancorate agli effettivi ruoli endofamiliari.
Il ricorrente lamenta, altresì, che la Corte territoriale: non abbia tenuto conto che anche la ex-moglie era medico odontoiatra; che la somma mensile di Euro 1500,00 corrisposta alla stessa in base all’accordo di separazione era a titolo retributivo; l’ex-moglie non aveva provato la propria impossibilità a procurarsi mezzi adeguati al proprio sostentamento; ciascun coniuge era indipendente, percependo redditi in base al proprio lavoro.
Il secondo motivo deduce l’omesso esame di fatto decisivo relativo alla mancata ammissione di prova testimoniale su circostanze decisive, quale lo svolgimento da parte della ex-moglie di attività lavorativa professionale nel periodo successivo alla sentenza di divorzio, mediante collaborazione con altro studio dentistico in Lanciano, così dimostrando la sua capacità economica.
Il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per aver la Corte territoriale liquidato l’importo dell’assegno divorzile in misura eccessiva, superiore alla metà dei redditi netti percepiti dal ricorrente, in contrasto con la funzione equilibratrice di tale assegno, disponendo, di conseguenza, di reddito complessivamente inferiore a quello percepito dalla ex-moglie.
Il primo e terzo motivo, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono inammissibili in quanto diretti a ribaltare l’interpretazione dei fatti fornita dal giudice d’appello. Al riguardo, il ricorrente, attraverso la doglianza afferente ad un’erronea ricognizione della L. n. 890 del 1970, art. 5, comma 6, tende al riesame dei fatti concernenti i criteri di determinazione dell’assegno divorzile, prospettando una diversa interpretazione di tali criteri che, a suo dire, la Corte territoriale avrebbe violato.
Il secondo motivo è inammissibile, avendo la Corte d’appello pronunciato sulla mancata ammissione della prova testimoniale, evidenziandone con ampiezza di ragioni l’irrilevanza, ovvero la mancanza di decisività ai fini della decisione.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 3.600,00 di cui 100,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone che, in caso di pubblicazione dell’ordinanza, i dati personali siano oscurati a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021