LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3628-2015 proposto da:
B.L.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO n. 97, presso lo studio dell’avvocato DANIELA INCALZA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIACOMO GRECO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro 2021 pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA 2195 GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2987/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 03/08/2012 R.G.N. 2789/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/06/2021 dal Consigliere Dott. TRICOMI Irene.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n. 2987/14, ha accolto l’appello proposto dal Ministero della giustizia nei confronti di B.L.I., e per l’effetto ha rigettato la domanda proposta da quest’ultima con il ricorso introduttivo del giudizio.
2. La lavoratrice, funzionario contabile C2 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria presso la Direzione della Casa Circondariale di Brindisi, aveva agito in giudizio per l’accertamento del demansionamento che asseriva di aver subito dal 2007, allorché, con ordine di servizio n. 5 del 16 gennaio 2007, era stata destinata a svolgere mansioni a proprio avviso di contenuto professionale inferiore rispetto a quelle attribuitegli in precedenza con l’ordine di servizio n. 79 dell’11 ottobre 2002.
Chiedeva, altresì, il risarcimento dei danni subiti.
3. L’adito Tribunale di Brindisi accoglieva la domanda con sentenza poi riformata dalla Corte d’Appello.
Il giudice di appello dopo aver ripercorso, in particolare, il contenuto degli ordini di servizio che avevano interessato la lavoratrice, l’organizzazione dell’area contabile, e il profilo professionale del consegnatario, del cassiere e del contabile (circolare D.A.P. n. 59879 del 2005 e R.D. n. 1908 del 1920, art. 730), ha escluso il demansionamento.
4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando tre motivi di ricorso.
5. Resiste con controricorso il Ministero della giustizia.
6. In prossimità dell’adunanza camerale, la ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 331 c.p.c. (omessa disposizione dell’integrazione del contraddittorio).
L’appello era stato proposto dal solo Ministero della giustizia, mentre le altre parti del giudizio di primo grado (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Provveditorato regionale della Puglia e Direzione della Casa Circondariale di Brindisi) erano rimaste estranee al giudizio impugnatorio e alle stesse non era stato notificato l’atto di appello.
La mancata integrazione del contraddittorio dava luogo alla nullità della sentenza.
2. Il motivo non è fondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 22474 del 2016), al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio istaurato nei confronti di uno di essi, vi è litisconsorzio necessario solo allorquando l’azione tenda alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, ovvero all’adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti.
Tale evenienza non ricorre nella specie atteso che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è un’articolazioni amministrativa del Ministero della giustizia, Ministero che è il datore di lavoro della ricorrente, al cui interno sono collocate le direzioni generali con i relativi uffici, ed è responsabile degli aspetti organizzativi dell’esecuzione penale negli istituti penitenziari e della gestione del personale amministrativo e di polizia penitenziaria.
Neppure, trattandosi di articolazione interna al Ministero della giustizia, sussiste litisconsorzio necessario processuale, che si verifica quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio.
Pertanto, nella specie non trova applicazione l’art. 331 c.p.c..
3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 434 c.p.c. (in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3).
La ricorrente censura il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’appello, che era stata formulata in ragione della genericità dello stesso in quanto mancava il dialogo con la sentenza di primo grado.
Si duole che sia stata disattesa tale doglianza sulla genericità dell’appello atteso, e in particolare, l’argomento che la difesa dello Stato aveva riproposto allegazioni di fatto e di diritto contenute negli scritti difensivi prodotti in primo grado, senza confrontarli con la sentenza appellata, di cui riproduce il contenuto.
4. Il motivo è inammissibile.
Il principio di specificità del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci, come nella specie, la violazione e falsa applicazione dell’art. 342, c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte. Ed infatti, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso (Cass., n. 29495 del 2020).
Tale onere di indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello o di primo grado, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (Cass., n. 342 del 2021).
Nella specie la ricorrente nel motivo di ricorso si è limitata a dedurre che vi era stata nell’atto di appello la riproposizione delle allegazioni di fatto e di diritto contenute negli scritti difensivi prodotti nel giudizio di primo grado, senza tuttavia indicare il contenuto dell’atto di appello e di quest’ultimi, non meglio specificati, con conseguente inammissibilità della censura.
5. Con il terzo motivo di appello è dedotta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3).
Deduce la ricorrente di aver posto a fondamento della domanda lo svolgimento, a partire dall’ordine di servizio n. 5 del 2007, di mansioni inferiori a quelle del proprio profilo professionale.
Invece, la Corte d’Appello aveva basato la propria decisione sulle funzioni contemplate nell’ordine di servizio n. 12 del 2007, non menzionato nell’atto introduttivo, la cui produzione non era stata ammessa dal giudice di primo grado, ma in appello in quanto ritenuto essenziale per la ricostruzione degli accadimenti.
Pertanto, la Corte d’Appello aveva violato i principi di cui all’art. 112, c.p.c., esaminando non già la causa petendi prospettata con il ricorso introduttivo del giudizio, ma il contenuto dell’ordine di servizio n. 12 del 2007, la cui acquisizione non era stata ammessa dal giudice di primo grado in quanto tardiva, introducendo così un nuovo tema di indagine.
6. Il motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.
Come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 26597 del 2020), che allorquando ricorrono i presupposti per l’esercizio dei poteri istruttori del giudice del lavoro, essi possono e devono essere utilizzati a prescindere dal maturare di preclusioni in capo alle parti in causa (Cass. 10 dicembre 2008, n. 29006 e, più di recente, Cass. 25 agosto 2020, n. 17683).
Presupposti dell’esercizio di tale potere-dovere sono, altrettanto pacificamente, la ricorrenza di una semiplena probatio rispetto ad una data situazione controversa e l’individuazione ex actis di una pista probatoria (v. Cass. 10 settembre 2019, n. 22628; Cass. 5 novembre 2018, n. 28134).
Nel caso di specie, la motivazione della Corte territoriale è del tutto coerente con i menzionati principi, in quanto l’ammissione officiosa in appello dell’ordine di servizio n. 12 del 26 gennaio 2007 veniva disposta, dopo aver provocato il contraddittorio in merito, atteso che con riguardo all’ordine di servizio n. 5 del 16 gennaio 2007 “(…) dalla stessa produzione documentale di B. emergeva la provvisorietà di questo secondo ordine di servizio che aveva esaurito i suoi effetti nell’arco di dieci giorni in virtù di altro destinato a ridisegnare in modo tendenzialmente stabile le competenze dell’Area Contabile. Proprio a tale situazione il teste C. fece riferimento nella deposizione il 3 giugno 2009 (“…dal gennaio 2007 o dalla fine del 2006 e cioè in coincidenza con la riorganizzazione dell’area contabile, le funzioni affidate alla ricorrente con il citato ordine di servizio del 2002 sono state revocate. A partire dall’ordine di servizio del gennaio 2007 la ricorrente svolge le funzioni di contabile di cassa e di contabile materiale. Preciso che le nuove mansioni di consegnataria del materiale di fatto sono state conferite nel maggio 2008 a seguito di una particolare procedura detta di ricognizione materiale”). Le doglianze oggetto dell’impugnazione ruotano intorno a dati documenti di cui il Tribunale non ritenne di dare ingresso perché prodotti con la tardiva memoria di costituzione” (si v. sentenza di appello pag. 4).
Si è quindi di fronte ad una chiara individuazione della semiplena probatio, mentre l’ammissione della documentazione ha fatto seguito (c.d. pista probatoria) alle risultanze testimoniali e degli atti del giudizio.
Di talché, nell’ammettere la documentazione in questione, la Corte d’Appello ha applicato correttamente i suddetti principi.
La censura per altro verso è inammissibile in quanto priva di decisività, atteso che la Corte d’Appello, con ulteriore autonoma ratio decidendi non oggetto di specifica impugnazione, ha affermato che atteso il carattere meramente temporaneo, dieci giorni, dell’ordine di servizio n. 5 del 2007, adottato in via transitoria per far fronte a carenza di personale ed in particolare delle figure B2 e B3 e in attesa dell’approvazione del riassetto organizzativo dell’area, non era ipotizzabile che solo su questo atto, erroneamente valorizzato dal Tribunale, potesse fondarsi l’assunto demansionamento prospettato nell’atto introduttivo.
7. Il ricorso deve essere rigettato.
8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 3000,00, per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021