LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5568/2015 proposto da:
Ge Capital Servizi Finanziari S.p.a., in persona del procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Pierluigi da Palestrina n. 63, presso lo studio dell’avvocato Contaldi Mario, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Adriano Paolo, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Fallimento ***** S.r.l.;
– intimato –
avverso il decreto R n. 40/2013 FALL. del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 05/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/06/2021 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.
RITENUTO
che:
Ge Capital Servizi Finanziari SPA propose opposizione allo stato passivo del Fallimento ***** SRL dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio, contestando la mancata integrale ammissione al passivo del credito vantato in ragione di un contratto di locazione finanziaria stipulato il 10/8/2010 ed avente ad oggetto un sistema di stampa digitale, che prevedeva un corrispettivo in favore della società di leasing di Euro 5.000,00 per 36 canoni mensili, oltre ad Euro 25.000,00, quale canone di eventuale riscatto.
Nel corso del rapporto la società aveva versato solo Euro 35.000,00, per canoni scaduti – ed il G.E., a fronte del perdurante inadempimento, aveva dichiarato risolto il contratto in data 2/5/2011 (anteriormente alla dichiarazione di fallimento).
Intervenuto il fallimento nel 2013, la società aveva chiesto l’ammissione al passivo dell’intero importo riconducibile ai canoni scaduti ed a scadere, a titolo di risarcimento dei danni, come da previsioni contrattuali, per complessivi Euro 195.001,81, ottenendo l’ammissione del minor importo di Euro 40.000,00.
Il Tribunale ha respinto l’opposizione.
Segnatamente, ha escluso l’applicabilità del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 72 quater (di seguito, anche, L. Fall.).; ha qualificato il leasing in esame come “traslativo”; ha ritenuto applicabile l’art. 1526 c.c.; ha osservato che sino alla risoluzione del contratto erano stati corrisposti canoni per complessivi Euro 35.000,00, definitivamente attribuiti alla concedente in sede di verifica dei crediti, e che era stato riconosciuto alla concedente dal G.D. l’ulteriore importo di Euro 40.000,00, comprendente i canoni scaduti e non pagati, nonché il risarcimento del danno per intervenuta risoluzione anticipata del contratto.
Con specifico riferimento alla clausola prevista dall’art. 11 del contratto, ha affermato che la stessa sostanzialmente comportava una esclusione convenzionale dell’applicabilità dell’art. 1526 c.c., che non poteva avere rilievo laddove volta a superare un principio posto a tutela del contraente più debole. Ha, quindi, aggiunto che la clausola in questione imponeva la sua riduzione d’ufficio ai sensi dell’art. 1384 c.c., anche indipendentemente dall’iniziativa del debitore, configurandosi come potere/dovere attribuito al giudice.
Ha ritenuto che la circostanza che la clausola prevedesse la riduzione dell’importo stabilito contrattualmente per il risarcimento, in ragione del valore realizzato dal locatore con la vendita del bene argomento addotto dalla società per sostenere la legittimità della clausola, non era in concreto dirimente per la totale mancanza, in sede di giudizio, di elementi atti a consentire di determinare l’importo ipoteticamente da scomputare e per il carattere meramente esplorativo della richiesta CTU, a cui si aggiungeva il fatto che la società aveva dimostrato un sostanziale disinteresse ad ottenere la restituzione del bene.
La società ha proposto ricorso per cassazione con quattro mezzi, corroborati da memoria; il Fallimento è rimasto intimato.
CONSIDERATO
che:
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 72 quater, commi 2 e 3, con riferimento al contratto di leasing risolto anteriormente alla sentenza dichiarativa di fallimento.
1.2. Come si evince dagli atti, il contratto in discussione, qualificato come leasing traslativo dal Tribunale, senza che sul punto sia stata proposta impugnazione, venne stipulato in data 10/8/2010 e risolto per inadempimento in data 2/5/2011, anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017, che non può trovare applicazione, ed in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento del 2013.
1.3. Il primo motivo è infondato, alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite, secondo le quali “In tema di leasing finanziario, la disciplina di cui alla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non ha effetti retroattivi, sì che il comma 138, si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida, invece, la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c. e ciò anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore, non potendosi applicare analogicamente la L. Fall., art. 72 quater” (Cass. Sez. U. n. 2061 del 28/1/2021), principio che va applicato al caso in esame, concernente un contratto qualificato come leasing traslativo, con statuizione non impugnata, risolto prima della dichiarazione di fallimento.
2.1. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c. e dell’art. 1384 c.c., in riferimento all’art. 11 del contratto di leasing.
La ricorrente osserva che l’art. 11 del contratto prevedeva uno specifico meccanismo di dare/avere (identico a quello previsto dalla L. Fall., art. 72 quater – ove non ritenuto applicabile) che imponeva all’utilizzatore il pagamento del capitale residuo ancora dovuto. Si duole che il Tribunale abbia ritenuto la norma contrattuale in contrasto con la norma inderogabile di cui all’art. 1526 c.c., espressione di un principio generale posto a salvaguardia di interessi generali e finalizzato a tutelare il contraente più debole, evitando un ingiustificato spostamento patrimoniale che si sarebbe verificato se a seguito di risoluzione – la società di leasing avendo ottenuto la restituzione del bene, avesse trattenuto i canoni di locazione già versati e cristallizzato un credito corrispondente ai canoni scaduti e non versati ed alle eventuali penali contrattualmente previste.
2.2. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 1384 c.c., nel punto in cui il decreto impugnato ha ritenuto riducibile ad equità una clausola contrattuale che era del tutto conforme alla L. Fall., art. 72 quater.
Sostiene che non è conforme all’art. 1384 c.c., la statuizione secondo la quale detta clausola contrattuale può essere ridotta ad equità. A suo parere la clausola, pur definita “clausola penale risarcitoria”, era una clausola che disciplinava i rapporti dare/avere tra le parti e si limitava ad imporre all’utilizzatore la restituzione al concedente del capitale residuo sborsato, detratto il valore del bene recuperato, per cui non avendo un contenuto propriamente risarcitorio di natura forfettaria, non era riducibile per definizione.
2.3. I motivi secondo e terzo, da trattare congiuntamente perché connessi, sono inammissibili.
2.4. Con la recente sentenza n. 2061 del 28/1/2021, le Sezioni Unite hanno affermato che:
– per i contratti di leasing traslativo, non soggetti, ratione temporis, alla regolamentazione della L. n. 124 del 2017, resta valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, per analogia legis, nella disposizione dell’art. 1526 c.c., la disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, essendo comunque sorretta da una ratio giustificativa rispondente all’esigenza di dare equilibrato assetto alle posizioni delle parti di un contratto atipico, forgiato da una risalente prassi commerciale e al quale il formante giurisprudenziale – di cui si dà ampio conto nella anzidetta sentenza ha fornito stabilità, pur valorizzando la causa in concreto di finanziamento, propria di questi contratti e l’interesse del concedente ad ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore, l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione, piuttosto che la restituzione del bene, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituiva oggetto della sua attività commerciale;
– l’equo compenso, ai sensi dell’art. 1526 c.c., comma 1, comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 c.c. che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza), tale da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto;
– il risarcimento del danno del concedente può, però, essere oggetto di determinazione anticipata attraverso una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 c.c. e in questo senso si e’, del resto, dispiegata l’autonomia privata utilizzando anche modelli standardizzati: in tale contesto, quindi, si è fatta applicazione dell’art. 1526 c.c., comma 2 e del principio, già contemplato dall’art. 1384 c.c., di cui la prima disposizione è un portato specifico, della riduzione equitativa, ad opera del giudice, anche d’ufficio, della penale che, sebbene comunque lecita, si palesi manifestamente eccessiva, così da ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento integrale.
Conclusivamente le SS UU hanno affermato che “In base alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, L. Fall., ex art. 93, in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tal riguardo avendo l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa.” (Cass. Sez. U. n. 2061 del 28/1/2021).
2.5. Orbene, la decisione in esame risulta immune dai vizi denunciati perché, in linea con i principi enunciati, ha ricondotto la disciplina applicabile nell’alveo dell’art. 1526 c.c., ed ha legittimamente ritenuto di dover valutare d’ufficio la riduzione della clausola penale ex art. 1384 c.c., sulla considerazione che la clausola risarcitoria n. 11, prevedeva la riduzione dell’importo richiesto pari a quanto realizzato dalla vendita dei beni e che la concedente non aveva fornito alcuna prova in merito.
Le censure presentano evidenti profili di inammissibilità laddove non colgono la ratio dedicendi, centrata proprio sul mancato assolvimento dell’onere probatorio in merito alla ricorrenza delle condizioni di applicabilità della clausola penale.
3.1. Con il quarto motivo si denuncia l’omesso esame della fattura n. ***** a Marelli Carri SRL prodotta in primo grado, relativa alla rivendita del bene concesso in leasing, e la mancata ammissione della CTU diretta a confermare detto valore. E’ riferito che il bene, oramai privo di valore, venne venduto per Euro 200,00 e che già nel 2011 la concedente aveva sporto una diffida alla società ancora in bonis, chiedendo la restituzione del bene.
3.2. Il motivo è fondato e va accolto.
Come si evince dal ricorso, era stato allegato e documentato dalla concedente l’invio di una diffida per la restituzione del bene e l’avvenuta rivendita del bene, sia pure per una cifra irrisoria.
Ebbene, il Tribunale non ha tenuto conto dei documenti, sulla cui base ben avrebbe potuto ammettere la CTU per verificare se il prezzo ricavato dalla vendita corrispondesse al valore effettivo del bene alla data di risoluzione e così accertare l’eventuale sussistenza del diritto della ricorrente al risarcimento del danno.
4. In conclusione, il quarto motivo di ricorso va accolto, infondato il primo ed inammissibili i motivi secondo e terzo; il decreto impugnato va cassato con rinvio al Tribunale di Busto Arsizio in diversa composizione per il riesame e la statuizione sulle spese anche del presente grado.
P.Q.M.
– Accoglie il quarto motivo del ricorso, infondato il primo ed inammissibili i motivi secondo e terzo; cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Busto Arsizio in diversa composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2021