Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza Interlocutoria n.31960 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al n. 9753/2016 R.G. proposto da:

C.A., C.S., C.M.C., C.R., Co.Ma., rappresentati e difesi dall’Avv. Mario Chibbaro, dall’Avv. Daniele Chibbaro e dall’Avv. Marianna Foggetti, con domicilio eletto in Roma, via Giambattista Vico, n. 29, presso il loro studio, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimata –

Equitalia Sud s.p.a., con sede in Roma, Viale Tor Marancia n. 4, rappresentata e difesa dall’Avv. Enrico Fronticelli Baldelli, studio in Roma, viale Regina Margherita n. 294;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5300/37/15 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 13/10/15.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7 ottobre 2021 dal Consigliere Oronzo De Masi;

Lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, in persona di De Matteis Stanislao, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO

che:

C.A., C.M. e Co.Ma. impugnavano, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, la cartella di pagamento con la quale era stata loro richiesta la somma di Euro 55.343,22, a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale nonché di interessi, credito iscritto a ruolo sulla base di un avviso di liquidazione emesso e notificato in precedenza, con cui l’Ufficio del Registro di Tivoli aveva revocato i benefici fiscali per la piccola proprietà contadina dei quali i contribuenti avevano usufruito in relazione ad atto di compravendita immobiliare stipulato in data 11/11/1980, provvedimento impositivo anch’esso impugnato dai contribuenti con giudizio conclusosi, nonostante l’esito favorevole dei primi due gradi dello stesso, con decisione sfavorevole della Commissione Tributaria Centrale (sentenza n. 5034/2009, depositata il 13/10/2009).

Il ricorso venne respinto dall’adito giudice di primo grado, con sentenza confermata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, meglio indicata in epigrafe, sul rilievo che la cartella impugnata era adeguatamente motivata anche con riferimento ai pretesi interessi, dovuti per legge e calcolati al tasso legale.

Avverso tale sentenza i contribuenti propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

L’Agenzia delle Entrate ed Equitalia Sud s.p.a. non hanno svolto attività difensiva.

La pubblica udienza del 7 ottobre 2021 è stata tenuta in Camera di consiglio ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, nonché del D.L. 23 luglio 2021 n. 105, art. 7, conv. con modif. dalla L. 16 settembre 2021, n. 126.

Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO

che:

Col primo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficiente motivazione della sentenza della CTR in relazione alla prospettata violazione degli artt. 11,24 e 3 Cost., stante la eccessiva durata della controversia fiscale, nonché alla quantificazione degli interessi richiesti con la impugnata cartella di pagamento.

Col secondo motivo deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. n. 241 del 1991, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, stante la nullità della cartella di pagamento priva di adeguata motivazione in quanto non esplicita le modalità di calcolo degli interessi richiesti sulla somma dovuta a titolo di imposta.

Col terzo motivo deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la CTR non ha considerato che l’Amministrazione finanziaria, assumendo la veste di attore, è tenuta a dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del credito vantato.

Col quarto motivo deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 24 Cost., in quanto, mancando un prospetto analitico degli interessi applicati, non è dato ai contribuenti verificare e, quindi, contestare la correttezza della somma a tale titolo richiesta.

La prima censura è inammissibile prima che infondata.

Va anzitutto considerato che “In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4” (Cass., n. 22598/2018, nonché Cass. n. 23940/107).

La sentenza di appello riconduce la controversia insorta tra i contribuenti e l’Amministrazione finanziaria, conclusasi con la sentenza n. 5034/2009 della Commissione Tributaria Centrale, nell’area di applicazione della disciplina del diritto all’equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2.

Tuttavia, i ricorrenti non si dolgono dell’erroneità in parte qua della decisione sulla giurisdizione, negata dal primo giudice per l’estraneità di tali vertenze rispetto alla categoria delle liti in materia civile (Cass. n. 19367/2008 e n. 16212/2012), ma del fatto che il giudice di appello non ha compreso la critica rivolta all’operato dell’Amministrazione finanziaria, che fa gravare sui contribuenti le conseguenze del tempo trascorso per l’accertamento, in via giudiziaria, della legittimità dell’originaria pretesa tributaria.

Ad ogni modo, nessun fondamento giuridico trova l’affermazione che siffatta pretesa tributaria, quella cioè recata dal prodromico avviso di liquidazione, fosse improduttiva di ulteriori interessi a causa della durata (in tesi eccessiva) del relativo giudizio d’impugnazione.

Nel caso in cui l’obbligazione tributaria – quella di cui all’avviso di liquidazione a suo tempo impugnato dagli odierni ricorrenti – non sia assolta nel termine stabilito dal legislatore, essendo venuta l’obbligazione a scadenza, deve considerarsi sorto il diritto dell’Amministrazione agli interessi di mora che, per quanto concerne tasse e imposte indirette, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 55, disciplina, per misura e decorrenza, attraverso il richiamo alla L. n. 29 del 1961, autenticamente interpretata dalla L. n. 147 del 1962, delineando così un sistema che esclude ogni margine di discrezionalità.

Del resto, la L. n. 212 del 2000, art. 10, nello stabilire al comma 1, che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria siano improntati al principio della collaborazione e della buona fede, chiarisce al successivo comma 2, le condizioni – neppure allegate dai ricorrenti – in presenza delle quali non debbano essere irrogate sanzioni, né richiesti interessi moratori al contribuente; quanto agli interessi, la norma ne limita espressamente l’applicazione ai soli interessi moratori (cfr. Cass. nn. 14216/2015; 4522/2013; 21070/2011) e la ragione è coerente, nei casi de quibus, all’esclusione dell’elemento soggettivo della colpa che è alla base dell’irrogazione della sanzione amministrativa tributaria e della mora debendi nell’obbligazione pecuniaria, di cui quella tributaria è una species (Cass. n. 29579/2018, n. 16147/2017, n. 9536/2013).

La terza censura è infondata.

La questione dell’onere della prova è mal posta atteso il principio secondo cui “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (Cass. n. 13395/2018).

Nel caso di specie, la pretesa tributaria, quanto alla originaria sorte capitale, non è in discussione essendo oggetto di contrasto solo la quantificazione degli accessori che seguono il credito per legge.

La seconda e quarta censura, scrutinabili congiuntamente in quanto connesse, pongono entrambe, sia pure sotto prospettive differenti, la questione dell’obbligo di motivazione della cartella di pagamento, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7, relativamente ad interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi.

La cartella non recherebbe indicazioni sufficienti (giorni, tassi d’interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo e si appunta sul fatto che nell’atto impugnato “viene riportato solo l’importo totale degli interessi applicati (e) non un prospetto analitico anche sintetico, che spieghi modalità, tassi e criteri seguiti nella loro determinazione”.

Riguardo a siffatto obbligo, la C.T.R. del Lazio afferma che “le somme indicate in cartella corrispondono a quelle riportate nell’originario avviso di liquidazione, convertite in Euro e maggiorate degli interessi dovuti per legge, quindi, al tasso legale” ed inoltre che “non risulta dimostrato che l’ufficio abbia richiesto un tasso superiore a quello di legge, o abbia calcolato interessi su interessi (cd. anatocismo), come adombrato dal ricorrente in udienza”.

Nel ricorso (pag. 3) si legge che alla sentenza n. 5034/2009 della Commissione Commissione Tributaria Centrale ha fatto seguito “l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo, recata dall’atto di riscossione oggetto di causa, che, come detto, reca la pretesa complessiva pari ad Euro 55.343,22, (e’) esattamente così composta: Registro trasf. Terreni proporzionale Euro 15.551,73. Registro imposte ipotecarie Euro 1.706,56. Registro interessi tasse e imp. Ind. Euro 35.168,21. Registro diritti catastali iscrit. Euro 426,64. Costo della notifica degli atti Euro 30,96. Il tutto, oltre ai rispettivi compensi esattoriali, pari, entro la scadenza dell’atto, ad Euro 2.495,12 e ad Euro 4.759,58 oltre la scadenza”.

La decisione impugnata ha ritenuto legittima la cartella di pagamento perché il metodo seguito dall’Amministrazione finanziaria per la liquidazione degli accessori risulta agevolmente controllabile dal contribuente, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, per cui la liquidazione stessa si risolve in una operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva.

Inoltre, osserva il giudice di appello, la cartella di pagamento, versata in atti dai ricorrenti a corredo delle proprie doglianze, riproduttiva del ruolo (Cass. n. 8329/2020), richiama l’avviso di liquidazione prodromico, esplicita le ragioni della debenza dei tributi (“revoca benefici fiscali L. 6 agosto 1954, n. 604”), ed indica l’atto notarile presentato alla registrazione (“atto notaio C. del ***** n. *****”) cui la pretesa fiscale si riferisce, in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto.

La cartella informa pure che “Per ogni giorno di ritardo vanno aggiunti gli interessi di mora (calcolati a partire dalla data di notifica della presente cartella e i maggiori costi del servizio di riscossione)”, che “le spese di notifica rappresentano il costo del servizio di notifica della cartella di pagamento svolto dall’Agente della riscossione (normativa di riferimento: D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 7 ter)”, che sono dovuti dal destinatario dell’atto anche “i compensi del servizio di riscossione (o aggio di riscossione)” in misura diversa (4,65% e 9%) a seconda che il pagamento intervenga entro la scadenza o in ritardo, ed ancora che “gli interessi di mora sono dovuti dal contribuente, in aggiunta alle somme iscritte a ruolo, qualora non effettui il pagamento entro SESSANTA giorni dalla data di notifica” e fino al giorno dell’effettivo pagamento, ed infine che “il tasso di interesse applicato viene determinato con apposito atto normativo (normativa di riferimento D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, e norme correlate)”.

Giova evidenziare che la materia del contendere investe unicamente gli interessi applicati nella misura di Euro 35.168,21 sui tributi dovuti (imposta di registro e ipocatastali), stante l’incontestabilità del relativo accertamento per effetto del giudicato tributario sul prodromico avviso di liquidazione, che ha revocato i benefici della piccola proprietà contadina, in relazione all’atto di compravendita stipulato in data *****.

La stabilizzazione del rapporto con il fisco, in esito al processo instauratosi dinanzi al giudice tributario, mediante la formazione della res iuducata, infatti, è idonea a conferire all’accertamento dell’an e del quantum debeatur il carattere della definitività, cosa che preclude alle parti del rapporto di metterlo nuovamente in discussione.

Le argomentazioni svolte dal giudice di appello appaiono riconducibili all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo il quale è legittimo il riferimento al calcolo degli interessi maturati ex lege ove sia incontestata la sorte capitale (proveniente dal precedente atto impositivo o da dichiarazione dello stesso contribuente) e il periodo per il quale sono maturati gli interessi, risolvendosi la determinazione degli accessori in una mera operazione matematica, che consente il raffronto con i tassi determinati ex lege, per la quale non ricorre l’obbligo di specifica motivazione.

In tal senso si è espressa la Corte, in tema di riscossione delle imposte sul reddito, allorquando osserva che “la cartella di pagamento deve ritenersi congruamente motivata, quanto al calcolo degli interessi, mediante il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, essendo il criterio di liquidazione degli stessi predeterminato ex lege e risolvendosi, pertanto, la relativa applicazione in un’operazione matematica (Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236). Sicché in questo caso “il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima. Tale principio, mutatis mutandis, è valido anche per la specie in quanto il richiamo (contenuto nella cartella) all’atto impositivo divenuto definitivo svolge la stessa funzione della “dichiarazione” quanto alla “condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale”, anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per “interessi.., per ritardato o omesso pagamento” sulle imposte indicate in detto atto impositivo (Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613)”. Persino ove manchi l’emissione del decreto ministeriale che determina annualmente la misura degli interessi di mora computabili dalla notifica della cartella fino alla data del pagamento, il tasso viene determinato ex lege sulla base del tasso fissato dall’ultimo decreto pubblicato, che resta efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778), così consentendo in ogni caso al contribuente di controllare quale sia il tasso di interesse applicato”. (Cass. n. 9764/2021).

La Corte ha anche affermato che “per il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 20 “… sulle maggiori imposte dovute in base… all’accertamento d’ufficio si applicano, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna ai concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono iscritte, gli interessi al tasso”, inizialmente indicato (in misura del “cinquepercento annuo”) dallo stesso legislatore (per l’anno 1994, dall’art. 13 infra indicato, primi commi) e, di poi (“a decorrere dal 1 gennaio 1995”), determinato (giusta il D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 13, comma 3, convertito in L. 26 febbraio 1994, n. 133) con “decreto” dell’allora operante “Ministro delle Finanza” (da adottare “di concerto con il Ministro del Tesoro”). Dalla riprodotta disposizione si ricava: (1) che il “tasso… annuo” degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e (2) che i limiti temporali di riferimento (dies a quo e dies ad quem) necessari per il calcolo sono anch’ essi fissati in elementi cronologici ben individuati (“giorno successivo a quello di scadenza del pagamento” e “data di consegna… dei ruoli”, rispettivamente). Va, quindi, ribadito il principio, specificamente affermato “con riferimento all’obbligo di motivazione degli atti tributari, previsto…per la cartella di pagamento (D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 12 e 25)”, secondo cui (Cass., trib., 18 dicembre 2009 n. 26671) “nell’ipotesi in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. n. 8613/2011).

Ed in tema di riscossione delle imposte sul reddito, la Corte ha espresso il principio per cui “la cartella di pagamento, nell’ipotesi di liquidazione dell’imposta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, costituisce l’atto con il quale il contribuente viene a conoscenza per la prima volta della pretesa fiscale e come tale deve essere motivata; tuttavia, nel caso di mera liquidazione dell’imposta sulla base dei dati forniti dal contribuente medesimo nella propria dichiarazione, nonché qualora vengano richiesti interessi e sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. n. 26671/2009).

Secondo altro indirizzo giurisprudenziale, “La cartella esattoriale fondata su una sentenza passata in giudicato deve essere motivata nella parte in cui mediante la stessa venga anche richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell’atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito.” (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013).

La Corte ha osservato, in particolare, che, “con riferimento alla cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, il richiamo alla pronuncia giudiziale e all’atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere all’onere motivazionale solo limitatamente alla parte del credito erariale fatto valere interessato dall’accertamento, divenuto definitivo, compiuto dal giudice, ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste; – infatti, relativamente a tali voci, è con la cartella di pagamento che, per la prima volta, viene esercitata la pretesa impositiva, con la conseguenza che il criterio utilizzato per la loro individuazione e quantificazione deve essere ivi esplicitato e posto a conoscenza del contribuente; – in applicazione di tali principi, deve concludersi che la cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato deve essere motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev’essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651);” (Cass. n. 21851/2018 cit.).

Nello stesso senso si è espressa la Corte con la sentenza n. 17767/2018, con la quale si evidenzia che, nel caso allora esaminato, “il debito scaturiva da una sentenza definitiva della Commissione tributaria centrale (vedi l’incipit della sentenza impugnata), e secondo il superiore principio di diritto la semplice pubblicazione dei tassi d’interesse secondo le modalità previste nel lungo periodo considerato (28 anni) non consentiva al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni, ovvero i tassi d’interesse operanti nei periodi considerati, così obbligando il medesimo contribuente ad attingere aliunde le nozioni giuridiche necessarie per ricostruire il metodo seguito dall’ufficio”.

In analoga controversia, la Corte ha confermato la decisione del giudice d’appello, favorevole alla tesi del contribuente, sul rilievo “che nella cartella viene riportata solo la cifra globale degli interessi dovuti, senza essere indicato come si è arrivati a tale calcolo, non specificando le singole aliquote prese a base delle vane annualità, essendo l’accertamento riferito all’anno d’imposta 1976, concernendo dunque un periodo di 35 anni, ed hanno ritenuto, perciò, che l’operato dell’ufficio era ricostruibile “attraverso difficili indagini dovute anche alla vetustà della questione” che non competevano ai contribuente che vedeva così, violato il suo diritto di difesa. Tale ratio decidendi, secondo cui il computo degli interessi è criptico e non comprensibile anche in ragione del lungo periodo considerato, non è incisa dal solo richiamo al D.P.R. n. 602 dei 1973, art. 20, venendo in rilievo non la spettanza degli interessi, ma, proprio, il modo con cui è stato calcolato il totale riportato nella cartella”. (Cass. n. 15554/2017, ma anche n. 5416/2021 e n. 8611/2009).

Pur considerando le peculiarità delle fattispecie scrutinate e quindi la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto, il Collegio è portato a ritenere sussistenti le condizioni per la rimessione della causa al Primo Presidente di questa Corte, affinché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, stante l’esigenza di rendere effettiva e incisiva la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, attraverso l’enunciazione di un principio di diritto, rispetto a questione variamente risolta dalla Sezione, questione che è destinata a riproporsi in numerose controversie.

P.Q.M.

La Corte rimette la causa al Primo Presidente per eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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