Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.32002 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2147/2021 proposto da:

A.L., rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Migliaccio;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, o presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

Avverso la sentenza n. 735/2020 della Corte d’appello di Catanzaro depositata il 9/6/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 5/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 735/2020 depositata in data 9/6/2020, ha respinto l’impugnazione di A.L., cittadino del Pakistan avverso ordinanza del Tribunale che aveva respinto la sua richiesta, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, i giudici d’appello, ritenuta preliminarmente non necessaria una nuova audizione del richiedente, hanno sostenuto che: il racconto del richiedente (essere stato costretto a fuggire a causa delle minacce da parte di alcuni soggetti vicini ad una “medressa” che egli aveva in precedenza denunciato alla polizia per possesso di armi e bombe) era non credibile, per genericità e contraddittorietà, e doveva essere confermato il giudizio del Tribunale sull’insussistenza dei presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; in ordine alla protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il motivo era infondato perché non sussisteva in Pakistan una situazione di violenza indiscriminata (sulla base dei siti consultati: *****, *****, con gli aggiornamenti ed articoli correlati, riviste di geopolitica quali *****, *****, il sito del Ministero degli Esteri); neppure ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, in difetto di condizioni di vulnerabilità.

Avverso la suddetta pronuncia, A.L. propone ricorso per cassazione, notificato il 30/12/2020, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione). Il ricorrente ha depositato memoria.

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta a) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4 e 5, e art. 14 lett. b), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento dei profili di danno grave derivante da una situazione di persecuzione per ragioni politiche, avendo oltretutto la Corte d’appello non disposto una nuova audizione del richiedente e negato credibilità alle dichiarazioni senza adeguato esame; b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4 e 5, e art. 14, lett. c), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento dei profili di danno grave derivante da una situazione di violenza indiscriminata nel Paese d’origine, avendo oltretutto la Corte d’appello utilizzato informazioni non precise ed aggiornate; c) con il terzo motivo, l’omesso esame di fatti decisivi, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentati dalla situazione di vulnerabilità oggettiva dovuta alla crisi umanitaria, violenza diffusa e compressione dei diritti fondamentali in Pakistan e soggettiva (atteso il lasso di tempo trascorso dall’arrivo in Italia, otto anni, la condizione di sfollato interno in cui il richiedente potrebbe trovarsi in caso di rientro nel Paese d’origine), nonché l’omesso esame del livello di integrazione raggiunto in Italia per effetto di inserimento lavorativo dal 2016, socio-culturale (conoscenza della lingua italiana), documentati, in relazione al diniego di protezione umanitaria.

2. La prima e la seconda censura, da trattare unitariamente in quanto connesse, sono inammissibili.

In ordine alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534); ma la Corte di merito ha attivato il potere di indagine nel senso indicato.

Invero si è già chiarito che, in tema di protezione internazionale, la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (cfr. Cass. n. 27593 del 2018 e Cass. n. 29358 del 2018).

Anche di recente (Cass. 11925/2020), si è affermato che “la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicché, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati ed inoltre si è proceduto quindi ad un approfondimento istruttorio, confermandosi, con congrua motivazione, il giudizio di insussistenza di una situazione di violenza generalizzata in Pakistan, già espresso in primo grado, rilevandosi che nel suddetto Paese si sta fronteggiando il problema del terrorismo islamico.

La doglianza è altresì inammissibile perché, in maniera peraltro del tutto generica, anche con riguardo al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed alla questione delle fonti informative, mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

Quanto alla mancata audizione del richiedente, la doglianza è inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la Corte di merito deciso in conformità ai principi di diritto già espressi da questo giudice di legittimità.

Al riguardo, questa Corte ha, di recente, affermato (Cass. n. 5973 del 2019) che “nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, ancorché non obbligatoria in base alla normativa vigente “ratione temporis” (anteriore alle modifiche intervenute con il D.L. n. 13 del 2017 conv. con modif. dalla L. n. 46 del 2017), all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purché sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale che risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero”.

Questa Corte, ancora da ultimo (Cass. n. 21584 del 2020), ha chiarito che “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile “.

Si è poi precisato (Cass. n. 25312 del 2020) che il ricorso per cassazione con il quale sia dedotta, in mancanza di videoregistrazione, l’omessa audizione del richiedente che ne abbia fatto espressa istanza, deve contenere l’indicazione puntuale dei fatti che erano stati dedotti avanti al giudice del merito a sostegno di tale richiesta, avendo il ricorrente un preciso onere di specificità della censura.

Nella specie, la Corte di merito ha rilevato che non erano stati allegati fatti nuovi in ricorso, con conseguente non necessità di nuova audizione.

3. Il terzo motivo è del pari inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, risultando la pronuncia impugnata del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte.

Il ricorrente censura il rigetto della richiesta di protezione umanitaria, lamentando genericamente che la Corte d’appello non avrebbe vagliato la condizione di particolare vulnerabilità cui sarebbe esposto il richiedente, in caso di rientro nel Paese, con riferimento alla perdita dell’integrazione raggiunta in Italia.

Ora la Corte territoriale ha motivatamente ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio né integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali.

Le Sezioni Unite (Cass. n. 24413 del 2021) si sono nuovamente pronunciate sul tema della protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, e del contenuto della valutazione comparativa affidata al giudice, tra la situazione che, in caso di rimpatrio, il richiedente lascerebbe in Italia e quella che il medesimo troverebbe nel Paese di origine, già condiviso dalle Sezioni Unite, con la precedente sentenza n. 29459/2019, affermando il seguente principio di diritto: “In base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dalla Convenzione EDU, art. 8, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi del citato T.U., art. 5, per riconoscere il permesso di soggiorno”.

Il ricorso risulta del tutto generico anche in relazione all’integrazione effettiva in Italia del richiedente, limitandosi lo stesso a dedurre di aver lavorato nel nostro Paese (dal 2016, senza altra specificazione) e di avere imparato la lingua italiana. 5. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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