LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13308-2020 proposto da:
O.A., alias Ou.Ad., rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dell’Avvocato Giuseppe Briganti, presso il cui studio elettivamente domicilia in Fermignano (PU), alla via R. Ruggeri n. 2/A;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso l’ordinanza n. cronol. 1321/2(120 del TRIBUNALE di ANCONA, depositata il giorno 04/02/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del giorno 08/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE EDUARDO.
FATTI DI CAUSA
1. O.A., alias Ou.Ad., nativo della Costa d’Avorio, ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, contro il “decreto” del Tribunale di Ancona del 4 febbraio 2020, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.
1.1. Quel tribunale ritenne non credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale) e, comunque, che i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste fossero inidonei a consentirne l’accoglimento.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:
I) “Nullità del decreto impugnato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 1, 11, lett. a), e 13, nonché degli artt. 737 e 135 c.p.c. e dell’art. 156c.p.c., comma 2, dell’art. 106Cost., comma 2, e dell’art. 111 Cost., comma 6, e della L. n. 46 del 2017, art. 2”. Ci si duole dell’assenza di motivazione in merito alle ragioni della ritenuta inverosimiglianza delle affermazioni del richiedente, alla luce delle critiche che erano state rivolte alla decisione della commissione territoriale e dei documenti in atti, e si aggiunge, tra l’altro, che: a) all’udienza del 21 novembre 2019, il richiedente era comparso, ma non era stata compiuta alcuna specifica indagine in merito alle circostanze rilevanti ai fini della decisione; b) la fissazione dell’udienza nel caso in cui, come nella specie, manchi la videoregistrazione del colloquio dinanzi alla commissione svolge la funzione di valutare le dichiarazioni del richiedente in tutti i suoi risvolti anche non verbali; c) pertanto, in tale ipotesi, l’interrogatorio libero del richiedente – nel caso di specie, tra l’altro, espressamente richiesto – non potrà limitarsi ad un mero adempimento “burocratico” ma dovrà tradursi, necessariamente, in un interrogatorio libero che ripercorra tutta la vicenda, destinato, inoltre, a svolgersi dinanzi all’intero collegio, senza possibilità di delega al solo relatore (che, peraltro, lo aveva a sua volta affidato ad un GOT); d) la necessaria procedimentalizzazione della valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente impone uno scrutinio dei criteri normativamente previsti a tali fini; e) il tribunale, enunciati siffatti criteri, si era focalizzato su aspetti secondari, senza procedere ad una compiuta e globale valutazione della narrazione del ricorrente, alla luce delle critiche che erano state articolate con il ricorso; f) ancora, non era dato comprendere se il tribunale avesse, o non, ritenuto credibile la narrazione del ricorrente; g) nel decreto impugnato manca un riferimento alle fonti attuali, al momento della decisione, sulla situazione socio-economico-politica della Costa d’Avorio e sulla possibilità per una persona nella specifica situazione del richiedente di trovare idonea ed effettiva protezione da parte delle autorità locali; h) che neppure era dato rinvenire, con riguardo alla invocata protezione per motivi umanitari, l’indicazione delle ragioni destinate ad esprimere l’effettiva valutazione comparativa richiesta dalla legge;
II) “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, con riguardo alle circostanze ed alle fonti normative indicate nel primo motivo di ricorso;
III) “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’art. 2 Cost., all’art. 10 Cost., comma 3 e all’art. 32 Cost.; alla L. n. 881 del 1977, art. 11; al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27 e 32 e art. 35-bis, comma 11, ed all’art. 16 della direttiva Europea n. 2013/32, nonché al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3, – anche in relazione all’art. 115 c.p.c., e artt. 5,6,7 e 14 ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 2”. Si sottolinea che il giudice, per formulare un giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni del ricorrente, avrebbe dovuto esaminarle nella loro globalità, nel rispetto del dovere di cooperazione istruttoria. Nel prosieguo, si riproducono le considerazioni svolte nel primo motivo, a proposito della necessità di procedere all’audizione del richiedente, in caso di assenza della videoregistrazione, e si richiamano i principi in materia di cooperazione istruttoria, di valutazione della credibilità del ricorrente, di ricorso a fonti aggiornate;
IV) “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione EDU, all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed all’art. 46 della Direttiva Europea n. 2013132”, richiamandosi le argomentazioni dei precedenti motivi ed aggiungendosi che il principio di effettività del ricorso non può dirsi rispettato in presenza della denunciata violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice.
2. I quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, quando non letterale sovrapposizione. Muovendo, in ordine logico, dai profili di carattere processuale, si rileva quanto segue.
2.1. Il ricorrente, dopo avere sottolineato la necessità della sua effettiva audizione, si duole del fatto che sarebbe comparso dinanzi al solo relatore (anzi, innanzi ad un GOT da questi delegato), senza alcuna specifica indagine in merito alle circostanze rilevanti per la decisione.
2.1.1. Ora, preliminarmente, si osserva che, come recentemente puntualizzato da Cass. 11 novembre del 2020, n. 25312, il giudice che sia investito del ricorso contro il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale può esimersi dall’audizione del richiedente se a quest’ultimo, nella fase amministrativa, sia stata data la facoltà di essere sentito e il verbale del colloquio, ove avvenuto, sia stato reso disponibile (cfr. Cass. n. 15318 del 2020). Difatti nel giudizio d’impugnazione innanzi all’autorità giudiziaria, ove sia mancata la videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla commissione territoriale, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purché sia stata garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni o davanti alla commissione territoriale (cfr. Cass. n. 2917 del 2019; Cass. n. 5973 del 2019; Cass. n. 1088 del 2020). Ciò è quanto, in base al decreto oggi impugnato, si evince esser avvenuto nel caso di specie. Occorre precisare che la ripetuta interpretazione è conforme agli artt. 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32-UE, secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia con la sentenza 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, sicché neppure sarebbe ravvisabile una violazione processuale, sanzionabile a pena di nullità, nell’omessa audizione personale della richiedente, poiché l’audizione comunque non si traduce in un incombente automatico, neppure dinanzi all’affermata non credibilità del racconto. Vi e’, semmai, il diritto della parte di richiedere l’audizione personale a fronte di specifiche circostanze di fatto che si intendano chiarire. Diritto cui si collega, tuttavia, il potere officioso del giudice di valutare la rilevanza di quelle circostanze nel complesso degli elementi acquisiti, ben potendo il giudice respingere la domanda di protezione internazionale che risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dagli atti e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa (cfr. Cass. n. 8931 del 2020, per quanto correlata a fattispecie soggetta al previgente D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35). Contigua a codesti principi appare anche la recente affermazione della sentenza di questa sezione n. 21584 del 2020, che, all’esito di ampia motivazione, ha fissato il principio per cui: “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”. Sennonché affermare l’inesistenza dell’obbligo di audizione a meno che nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi, ovvero il giudice ritenga necessaria l’acquisizione (chiarimenti, ovvero ancora l’istanza sia corredata da precise indicazioni sui singoli aspetti da chiarire, e “sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”), equivale a costruire l’audizione pur sempre come oggetto di una facoltà, non di un obbligo; sebbene di una facoltà che, laddove esercitata in un senso o nell’altro, presupponga (come ovvio) l’esplicitazione dei motivi della afferente decisione. Cosicché anche in base al citato precedente l’istanza di audizione non può essere dal ricorrente considerata come finalizzata all’esercizio di un diritto potestativo, come sarebbe se al fondo di essa fosse riscontrabile un incombente processuale automatico, necessariamente insito nella fissazione dell’udienza e tale da impedire al giudice di rigettare altrimenti la domanda. Pertanto, nel solco di quanto affermato dalla citata Cass. n. 21584 del 2020 vi è da aggiungere che il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; nel senso che il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza. Tale onere nella specie non risulta adempiuto, non emergendo dal ricorso le puntuali circostanze su cui il ricorrente avrebbe dovuto ulteriormente riferire.
2.1.2. Per questa ragione, mentre la mancata fissazione dell’udienza di comparizione, in assenza della videoregistrazione, comporta una nullità processuale per il vulnus inferto alle garanzie difensive, la mancata audizione dinanzi al tribunale del richiedente, in assenza di videoregistrazione, può assumere rilievo solo in quanto si sia tradotta in un vizio del percorso argomentativo della decisione, nei limiti in cui ciò è consentito nel giudizio di legittimità.
2.2. Su quest’ultimo punto si tornerà immediatamente infra, una volta esaminata la seconda questione processuale posta dal ricorrente che lamenta che la comparizione del ricorrente sarebbe avvenuta dinanzi al solo relatore e non all’intero collegio.
2.2.1. Ora, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, dispone che: “Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’art. 35 anche per mancato riconoscimento dei presupposti per la protezione speciale a norma dell’art. 32, comma 3, sono regolate dalle disposizioni di cui agli artt. 737 c.p.c. e ss., ove non diversamente disposto dal presente articolo”.
2.2.2. Questa Corte ha ripetutamente escluso la nullità del procedimento nell’ambito del quale il collegio della sezione specializzata in materia di immigrazione abbia delegato ad un giudice onorario di tribunale il compito di procedere all’audizione del richiedente, riservandosi la decisione della causa all’esito di tale adempimento: in proposito, infatti, è stata richiamata la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 116 del 2017, recante la riforma organica della magistratura onoraria, e segnatamente le disposizioni dettate dall’art. 10, che consente ai giudici professionali di delegare, anche nei procedimenti collegiali, compiti e attività ai giudici onorari, ivi compresa l’assunzione di testimoni, e dall’art. 11, il quale esclude l’assegnazione dei fascicoli ai giudici onorari soltanto per specifiche tipologie di giudizi, tra i quali non sono compresi quelli di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis (cfr. Cass. n. 23983 del 2020, in motivazione; Cass. n. 7878 del 2020; Cass. n. 4887 del 2020; Cass. n. 3356 del 2019).
2.2.3. Nella specie, però, O.A. si duole, sostanzialmente, che la delega al giudice onorario non sarebbe stata conferita direttamente dal collegio investito della decisione, ma dal giudice relatore, al quale il collegio aveva delegato il compito di procedere all’audizione. Le Sezioni Unite di questa Corte, tuttavia, hanno recentemente chiarito che “non è affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale, su delega del giudice professionale designato per la trattazione del ricorso, abbia proceduto all’audizione del richiedente la protezione ed abbia rimesso la causa per la decisione al collegio della Sezione specializzata in materia di immigrazione, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 10, commi 10 e 11, tale attività rientra senza dubbio tra i compiti delegabili al giudice onorario in considerazione della analogia con l’assunzione dei testimoni e del carattere esemplificativo dell’elencazione ivi contenuta” (cfr. Cass., SU, n. 5425 del 2021).
2.2.4. In definitiva, sia che il ricorrente abbia censurato la mancata audizione del ricorrente (benché sub specie di assenza di una “specifica esaustiva indagine”) sia che, sul presupposto dell’audizione, abbia solo censurato il fatto che non sia avvenuta dinanzi al collegio, le critiche processuali sono infondate.
2.3. Fermo quanto precede, le doglianze proposte si risolvono, nella sostanza, nella denuncia, di per sé inammissibile, di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti sulla cui base sono state respinte le domande di protezione internazionale e di protezione umanitaria. Esse, pertanto, finiscono con l’esprimere un mero – e, come tale, inammissibile – dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze processuali effettuate dal tribunale a proposito della condizione personale del ricorrente sulla base sia dei dati tratti da fonti accreditate, e puntualmente indicate, sia delle dichiarazioni dell’interessato.
2.4. Va rimarcato, peraltro, che, con orientamento ormai consolidato ed anche di recente ribadito da questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 3819 del 2020), il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito. In altri termini, la “motivazione apparente” ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice. In questo senso possono citarsi numerose pronunce che convergono nella indicata nozione, talora variamente accentuandone i diversi elementi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 4891 del 2000; Cass. n. 1756 e n. 24985 del 2006; Cass. n. 11880 del 2007; Cass. n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009; Cass. n. 1188 del 2014; Cass., SU, n. 8053 e n. 19881 del 2014).
2.4.1. In particolare, in tema di valutazione delle prove e soprattutto di quelle documentali, il giudice di merito è tenuto a dare conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 14762 del 2019; cfr., anche sulla tipologia del vizio, Cass. n. 22598 del 2018).
2.4.2. Tale non e’, però, la situazione sussistente nel caso di specie, dove, con riferimento alle forme di protezione invocata, il tribunale ha operato una valutazione del narrato del ricorrente, alla luce di fonti di informazione (puntualmente indicate), il cui aggiornamento è solo genericamente contestato dal ricorrente.
2.4.3. Invero, il tribunale dorico ha escluso che ricorressero nella vicenda narrata da O.A. – il quale aveva allegato di essere lasciato la Costa d’Avorio, suo Paese di origine, per essersi opposto invano, insieme alla madre, alla pratica della mutilazione genitale femminile cui lo zio voleva sottoporre la sorella. Il richiedente ha riferito che, a seguito della mutilazione, la sorella sarebbe deceduta e sia lui che la madre, colpevoli di essersi opposti ad una pratica tradizionale, sarebbero stati perseguitati dalla comunità – i requisiti delle forme di protezione richieste, perché: i) ha giudicato scarsamente credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale di Ancona), osservando, innanzitutto, che “il richiedente non è stato in grado di circostanziare la vicenda (nomi, tempo, luogo), peraltro su fatti essenziali e determinanti l’espatrio, né è emerso un sincero sforzo volto a specificare la domanda”. Ha poi ampiamente esposto, anche menzionando specifiche fonti internazionali, le ragioni per cui ha considerato le dichiarazioni dell’istante come non confermate in ordine all’asserita inerzia totale delle autorità ivoriane rispetto al fenomeno della mutilazione genitale femminile, altresì ritenendo non plausibile che il richiedente e sua madre avessero evitato di denunciare chi – lo zio – aveva praticato l’intervento (cfr. amplius, pag. 1-2 del decreto impugnato); ii) l’istante non aveva allegato di essere affiliato politicamente o di aver preso parte ad attività di associazioni di diritti civili, né di appartenere ad una minoranza etnica e/o religiosa, o di altro tipo, oggetto di persecuzione; iii) ha escluso, sulla base della consultazione di affidabili fonti di informazioni, delle quali ha pure dato puntualmente conto nel provvedimento impugnato, che in Costa d’Avorio sia riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto amato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (cfr. amplius, pag. 3-6, nonché 7 del menzionato decreto); iv) quanto alla invocata protezione umanitaria (da scrutinarsi alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis – cfr. Cass., SU, nn. 29459-29461 del 2019 – di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6), ha evidenziato l’assenza di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, nonché di un suo effettivo radicamento sul territorio dello Stato ospitante, determinato da ragioni familiari o di una concreta integrazione lavorativa (nulla, in proposito, era stato dedotto dal richiedente protezione), letta in connessione con il mancato riscontro di una situazione di grave compromissione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, così da non consentire di pervenire ad una prognosi positiva quanto all’esposizione del richiedente, in ipotesi di rimpatrio, ad una situazione di negazione della dignità personale.
2.5. Al cospetto di un simile impianto argomentativo, sotteso al diniego di tutte le forme di protezione internazionale e corredato da una spiegazione esauriente delle ragioni atte a suffragare il rigetto delle domande proposte – sicché, come si è già detto, non si ravvisano quei radicali vizi motivazionali che oggi assumono rilievo in sede di legittimità: “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014) – i formulati motivi sono complessivamente inammissibili, atteso che il tribunale ha fondato il proprio giudizio su di una lettura integrata, siccome stabilito alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), delle dichiarazioni rese da O.A., giudicate non credibili, e delle informazioni circa il suo Paese di origine, siccome ritraibili dalla consultazione di fonti qualificate ed aggiornate, e sulla base di ciò ha escluso che ricorressero le condizioni per il riconoscimento sia della protezione maggiore (status di rifugiato e protezione sussidiaria) che di quella minore.
2.5.1. Va altresì rimarcato che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019), che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multis, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti, come si è già riferito), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità dell’odierno ricorrente, presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014, e che neppure il diritto al giusto processo, anche come elaborato dalla giurisprudenza dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, fonda in capo al giustiziabile un diritto ad una risposta specifica ed esplicita a tutti gli argomenti addotti, bensì solo a quelli decisivi (cfr. per tutte, fin da Corte eur. dir. Uomo, Ruiz Torija c. Espagne, 9 dicembre 1994, p.p. 29-30, fino alla più recente Corte eur. dir. Uomo, 21 giugno 2016, Tato Marinho dos Santos Costa Alves dos Santos e Figuereido c. Portogallo, ric. nn. 9023/13 e 78077/13, p. 50); ii) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori investe le domande formulate ai sensi del predetto decreto, art. 14, lett. a) e b), (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), mentre, quanto a quella proposta giusta la lettera c), del medesimo decreto, il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, compiutamente indicando le fonti internazionali consultate, ed ha rilevato che, sostanzialmente, la Costa d’Avorio non si segnala attualmente alcuna significativa instabilità politica.
2.6. Nessun decisivo rilievo assume, inoltre, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente, posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Cass. n. 17072 del 2018).
2.6.1. Approdi interpretativi, quelli riportati, che, di recente, hanno ricevuto l’autorevole avallo della Sezioni Unite di questa Corte, che, con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno sancito che “in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.
2.7. A fronte di tali approfonditi rilievi, che danno conto della correttezza dell’operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate in ricorso investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass., SU, n. 34476 del 2019).
2.8. Per quanto si è detto, risulta inammissibile, perché irrilevante, anche la censura con la quale si denuncia la violazione del principio di effettività del ricorso derivante dall’asseritamente mancata utilizzazione da parte del Giudice dei poteri istruttori officiosi. Va ricordato, peraltro, che secondo la Corte di Strasburgo, requisito essenziale per il rispetto del diritto al ricorso effettivo al giudice è quello della garanzia in favore dell’interessato dell’effettiva conoscenza della facoltà di esercitare il proprio diritto a prender parte al procedimento e, di conseguenza, ad un equo processo (Corte EDU, sentenza 27/04/2017, Schmidt c. Lettonia).
2.8.1. Nella specie, il ricorrente non deduce di non aver potuto esercitare tale diritto.
3. L’odierno ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 8 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021