LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 7004-2020 proposto da:
PICENO MANGEMENT S.R.L. (già S.A.S. di Q.C.), in persona del legale rappresentante in carica, domiciliata in ROMA, alla piazza CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANGELO CARDAMONE;
– ricorrente –
Contro
G.G., V.G., V.R. quali eredi di V.W., elettivamente domiciliati in Roma, al viale LIEGI, n. 44, presso l’avvocato MARINELLI CORRADO, rappresentai e difesi dall’avvocato LORENZO DONATI;
– controricorrenti –
Avverso la sentenza n. 1189/2019 della CORTE d’APPELLO di ANCONA, depositata il 17/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 26/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. Valle Cristiano, osserva quanto segue.
FATTO E DIRITTO
La Piceno Management S.r.l. impugna con tre motivi di ricorso la sentenza della Corte di Appello di Ancona, n. 1189 del 17/07/1989, che ha confermato quella del Tribunale di Ascoli Piceno, di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo spiegata dalla Piceno Management S.a.s. di Q.C., già Piceno Management S.a.s. di Q.R. nei confronti di V.W..
Il ricorso è rivolto contro il defunto (dopo due giorni dall’emanazione della sentenza d’appello) V.W..
Gli eredi G.G., V.G. e V.R. si sono ritualmente costituiti con controricorso.
Vi è richiesta, in controricorso, di condanna ai sensi dell’art. 93 c.p.c., comma 3, per la ricorrente.
La proposta del consigliere relatore, di definizione con pronuncia di manifesta inammissibilità, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., è stata ritualmente comunicata alle parti.
Non sono state depositate memorie.
Vi e’, in via preliminare, una ragione di inammissibilità della stessa legittimazione all’impugnazione, evidenziata ritualmente in controricorso dagli eredi di V.W., e imperniata sulla mancata prova che l’odierna ricorrente, che è una società a responsabilità limitata, sia l’avente causa della società in accomandita semplice che aveva agito in appello.
La questione e’, di per sé, fondata (sul punto si veda: Cass. n. 15414 del 21/06/2017 Rv. 645068 – 01): “In tema di impugnazione per cassazione, al fine di evitare l’inammissibilità del ricorso, il soggetto che non è stato parte del giudizio di merito deve allegare la propria “legitimatio ad causam”, e fornire la dimostrazione di essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa; pertanto, ove ricorrente sia una società che assuma di derivare, per fusione o trasformazione, da altra società che aveva partecipato al giudizio, questa deve fornire la dimostrazione della sua derivazione dalla società preesistente, e tale prova è consentita anche nel giudizio di legittimità, mediante produzione documentale, da e effettuarsi nei modi di cui all’art. 372 c.p.c., qualora la relativa questione sia stata sollevata per la prima volta in tale sede.”.
Ai fini di mera completezza della disamina il Collegio ha, nondimeno, proceduto allo scrutinio dei motivi di ricorso.
Il primo motivo che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2320 c.c., in quanto l’incarico professionale al V. era stato dato dal socio accomandante è del tutto inammissibile, laddove afferma che la Corte di Appello, e ancora prima il Tribunale non avrebbero tenuto conto del fatto che il firmatario del contratto con V.W. era stato Q.C. il quale all’epoca non era socio accomandatario, e quindi amministratore, ma accomandante.
Il mezzo è inammissibile in quanto la Corte di Appello ha affermato, come pare abbia fatto anche il Tribunale, che doveva aversi riguardo alle difese svolte in giudizio, dalle quali si desumeva agevolmente che la società (all’epoca costituita in forma di accomandita semplice) aveva comunque ratificato il contratto di prestazione professionale con V.W. e in quanto si era difesa nel merito. Su detto secondo profilo la Corte di merito ha richiamato coerente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 01751 del 24/01/2018 Rv. 647153 – 01: “In tema di contratto stipulato da “falsus procurator”, il potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato e, pertanto, il suo difetto è rilevabile anche d’ufficio; tuttavia il comportamento processuale dello pseudo rappresentato che, convenuto in giudizio, tenga un comportamento da cui risulti in maniera univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e per suo conto dal “falsus procurator”, opera anche sul terreno del diritto sostanziale e vale quale ratifica tacita di tale contratto”.) Il secondo motivo censura la sentenza d’appello per violazione dell’art. 1372 c.c.: nella prospettazione della ricorrente il giudice di merito avrebbe omesso di valutare la sussistenza del sinallagma contrattuale.
La denuncia si appunta su un’argomentazione spesa dall’estensore della motivazione d’appello che, tuttavia, nell’economia della decisione, non ha una rilevanza determinante e, in ogni caso il mezzo, come formulato, è del tutto aspecifico e prescinde dall’affermazione del giudice dell’impugnazione di merito (dalla penultima all’ultima pagina): “Nel caso di specie, il compenso è stato pattuito contrattualmente e l’appellato ha correttamente svolto (incarico conferitogli e pertanto giustamente ha diritto ad ottenere il pagamento dell’eseguita prestazione così come contrattualmente pattuita.”.
Il terzo motivo denuncia omesso esame, con riferimento alla consulenza tecnica svolta in primo grado, comprovante che la prestazione svolta dal V. era inferiore a quanto pattuito contrattualmente.
Il mezzo è inammissibile, in quanto richiama l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma lo fa in assoluto spregio dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, ossia non si cura in alcun modo di evidenziare la diversità di fatto che possa sorreggere la censura di omesso esame, in considerazione della circostanza che gli elementi di fatto posti a fondamento delle sentenze di merito sono gli stessi e, inoltre, il motivo, in carenza di specificità, omette di individuare dove il vizio era stato prospettato nel merito e comunque la consulenza era stata oggetto di discussione.
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
Le spese di lite di questa fase di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo, tenuto conto dell’attività processuale espletata e del valore della controversia.
La società ricorrente deve, altresì, essere ritenuta responsabile ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in considerazione della temerarietà dell’iniziativa giudiziaria intentata, risultante dalla pretestuosità dei motivi, tutti inammissibili, di ricorso (Cass. n. 18512 del 04/09/2020 (Rv. 658997 – 01: “In tema di responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., comma 3, costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell’atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poiché pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame.”.
A detto titolo il Collegio reputa equo comminare condanna al pagamento della somma di Euro tremila (Euro 3.000,00), pari a quella inflitta a titolo di spese di lite (sull’entità della condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, si veda Cass. n. 21570 del 30/11/2012 Rv. 624394 – 01).
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 3.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA e IVA per legge, nonché al pagamento di Euro 3.000,00 ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, sezione VI civile 3, il 26 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021
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