LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9190-2014 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.M.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA R.
BOSCOVICH 3, presso lo studio dell’avvocato LELIO PLACIDI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 238/2013 della COMM. TRIB. REG. BASILICATA, depositata il 11/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2021 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI.
RITENUTO
Che:
L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della sentenza della CTR della Basilicata che ha respinto l’appello dello stesso ufficio contro la sentenza della CTP che aveva annullato l’accertamento a carico di C.M.T..
Con esso l’ufficio aveva attribuito alla contribuente maggior redditi per l’anno 2004 derivanti dalla locazione di due unità immobiliari, una sita in Roma di cui era usufruttuaria al 50% ed una in Potenza di cui era piena proprietaria, a fronte della tesi della contribuente secondo cui, essendo stati concessi i suddetti immobili in comodato ai figli, questi ultimi erano i percettori del reddito, su cui avevano pagato le imposte, cosicché il suddetto avviso a suo carico si risolveva in una inammissibile doppia imposizione.
La CTR accoglieva la tesi della contribuente, e per la cassazione di quest’ultima sentenza l’ufficio propone tre motivi di ricorso.
Si costituisce la contribuente con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
Con il primo motivo di ricorso l’ufficio deduce violazione e falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 26.
La CTR avrebbe errato nell’interpretare la norma del tuir che, secondo l’ufficio, è chiara nel porre a carico del titolare del diritto reale sull’immobile l’obbligo di dichiarare i redditi rappresentati dai canoni di locazione, e non sul titolare della mera detenzione, quale il comodatario.
Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, ed al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57.
La CTR avrebbe errato nel non considerare, ritenendolo motivo nuovo inammissibile, che, qualora i comodatari avessero effettivamente dichiarato e pagato le imposte sui tali redditi, essi avrebbero potuto chiederne il rimborso per evitare la doppia imposizione.
Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato) ed art. 113 c.p.c., nonché art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
La sentenza impugnata, nell’evidenziare il difetto di prova dell’elusività dell’operazione, avrebbe travalicato i limiti della domanda, non avendo mai l’ufficio dedotto tale caratteristica.
La contribuente eccepisce l’inammissibilità del ricorso per erronea formulazione dei motivi.
Va rigettata, in primo luogo, l’eccezione di inammissibilità del primo motivo per la modalità di formulazione dello stesso, atteso che l’oggetto emerge in maniera chiara dalla sua lettura. A fronte della motivazione della sentenza, incentrata soprattutto sulla mancata prova di un intento elusivo nell’intera operazione da parte della contribuente, il motivo di ricorso deduce l’errata applicazione della norma che viene in rilievo nel caso di specie, l’art. 26 tuir, che, nella versione applicabile ratione temporis recitava: “I redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale, salvo quanto stabilito dall’art. 33, per il periodo di imposta in cui si è verificato il possesso”.
Il motivo di ricorso, allora, lamenta chiaramente che la CTR avrebbe semplicemente dovuto fare applicazione del principio contenuto nella norma sopra riportata, ed in tal senso e’, quindi, pienamente ammissibile, riguardando l’applicazione e l’interpretazione di una specifica norma.
Nel merito, poi, il primo motivo è fondato.
Non vi è dubbio che, sulla base della norma del tuir sopra citata, i redditi da locazione di immobili spettino al titolare del diritto reale su di esso, e quindi, nel caso di specie, al proprietario, essendo irrilevante che sullo stesso immobile sia stato costituito qualche altro diritto di mero godimento, come, nel presente caso, un comodato gratuito in favore di terzi. L’unica eccezione che la norma stessa prevede alla imputazione dei redditi da locazione in capo al titolare del diritto reale è il caso dell’affitto del terreno agricolo, per il quale il reddito è imputabile all’affittuario, caso che, evidentemente, non ricorre nel caso di specie.
Nelle altre ipotesi di locazione di immobili, il reddito fondiario, come detto, è attribuibile al titolare di un diritto reale sul bene, e non a colui che detenga l’immobile in virtù di un diverso titolo, di mero godimento, come nel caso del comodatario.
Il reddito da locazione è quindi direttamente imputabile al proprietario, anche se l’immobile è stato concesso in comodato a terzi, i quali hanno provveduto a concederlo in locazione.
Il fatto che l’art. 1804 c.c. preveda la facoltà per il comodatario di concedere in locazione l’immobile, non significa affatto che, sul piano fiscale, quest’ultimo sia il soggetto obbligato nei confronti del fisco. Si manifesta anche in questo caso l’autonomia del diritto tributario rispetto a quello civile, regolando il primo questa situazione in base a norme proprie, alle quali sole occorre dunque fare riferimento.
Questa Corte (sez. V, n. 5588 del 2021) ha, tra l’altro, già affermato il suddetto principio proprio in una delle controversie che, da quanto si può ricavare, dovrebbe riguardare la posizione del marito dell’odierna contribuente, Z.D.A. (come emerge dal fatto che l’Agenzia menziona Z.F. come figlio comodatario di uno degli immobili), anch’egli evidentemente contitolare di diritto reale, per lo stesso anno di imposta.
Peraltro, il principio andrebbe ribadito comunque, indipendentemente dal collegamento tra le due cause.
Anche il secondo motivo è fondato.
La CTR ha respinto, in quanto nuovo e dunque inammissibile, il motivo di appello con cui l’Agenzia tendeva a far valere il fatto che, se l’applicazione del principio di cui al primo motivo avesse condotto di fatto ad una doppia imposizione, sia a carico del proprietario che del comodatario che avesse nel frattempo dichiarato il reddito e pagato le relative imposte, quest’ultimo avrebbe potuto chiedere il rimborso di quanto versato, evitando così la doppia imposizione.
Come già rilevato anche nella suddetta sentenza n. 5588 del 2019, in cui si è stato proposto lo stesso motivo di ricorso, il divieto di “nova” in appello, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, si applica, oltre che alle domande, alle eccezioni in senso proprio, intese come gli strumenti processuali con cui l’appellante faccia valere un fatto giuridico avente efficacia impeditiva, modificativa o estintiva della pretesa, da cui derivano il mutamento degli elementi materiali del fatto costitutivo ed il conseguente ampliamento del tema della decisione, implicando la deduzione di fatti che richiedono una specifica indagine, non effettuabile per la prima volta in appello (cfr. Cass. Sez. 5, 30/10/2018, n. 27562; Cass. Sez. 6-5, 29/12/2017, n. 31224).
Nel caso in esame, invece, i rilievi dell’ufficio rientravano nell’alveo delle mere argomentazioni difensive prive del carattere di eccezione o di motivo nuovo, inammissibile, in ambito tributario, in sede di gravame. Le eccezioni dell’ufficio, nel caso in esame non comportavano un ampliamento del “thema decidendum” esaurendosi in una semplice difesa, limitata alla mera contestazione dell’assunto del contribuente.
Come affermato da questa Corte “le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’eccezione non costituiscono a loro volta eccezioni in senso tecnico”(Cass. Sez. 5, 22/09/2017, n. 22105, Sez. 6 – 5, 21/11/2016, n. 23587; Sez. 6 – 5, 29/12/2017, n. 31224).
L’accoglimento del primo motivo può comportare, poi, l’assorbimento del terzo, atteso che l’errata applicazione di una norma di legge comporta l’annullamento della sentenza impugnata e prevale su eventuali vizi motivazionali della stessa decisione.
Peraltro, poiché nel caso di specie non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte può anche decidere il merito della causa ex art. 384 c.p.c. senza necessità del rinvio al giudice di merito.
Alla luce del principio esposto trattando il primo motivo, quindi, la domanda originaria della contribuente di annullamento dell’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti è infondata e deve essere respinta, in quanto ella era titolare dell’obbligazione tributaria verso il fisco in relazione ai redditi in questione.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico della contribuente e, tenuto conto del valore della causa, si liquidano in Euro 2.300 oltre spese prenotate a debito.
La particolarità della questione giustifica, invece, la compensazione delle spese dei gradi di merito.
PQM
accoglie il primo e secondo motivo, assorbito il terzo.
Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, respinge il ricorso introduttivo della contribuente.
Condanna la contribuente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio, liquidate in Euro 2.300, oltre spese prenotate a debito.
Compensa tra le parti le spese dei giudizi di merito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021
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