Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.32178 del 05/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7239-2015 proposto da:

R.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell’avvocato MARCO GARDIN, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PACIFICO NICHIL;

– ricorrente –

contro

AZIENDA USL DI LECCE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTESANTO 68, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FERRAZZA, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE MONTINARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 450/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 12/03/2014 R.G.N. 1069/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di Lecce, pronunciando sull’impugnazione di R.L. nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale di Lecce, confermava la pronuncia di prime cure che (dopo una fase cautelare favorevole dal ricorrente) aveva respinto la domanda proposta dal R., infermiere capo sala, intesa ad ottenere la reintegra nel posto di capo sala presso il I gruppo operatorio del P.O. “V. Fazzi” di *****, sul presupposto di un suo illegittimo allontanamento dal suddetto reparto a seguito di procedimento disciplinare che non aveva avuto quale esito alcuna sanzione, e il risarcimento per danno biologico, morale e professionale a causa della mortificazione subita in Azienda oltre che per i comportamenti “vessatori” posti in essere ai suoi danni;

la Corte territoriale considerava legittimo l’operato dell’Azienda che aveva collocato il R. in un altro reparto operatorio ma con mansioni equipollenti a quelle da lui precedentemente svolte, senza alcun pregiudizio per la sua posizione economica e retributiva;

riteneva che il malcontento manifestato dalla maggior parte dei dipendenti del reparto del I gruppo operatorio verso il R., a causa del comportamento rigido tenuto nei loro confronti dal capo sala, fosse stato in modo appropriato considerato dall’Azienda che aveva disposto lo spostamento del R. per salvaguardare l’interesse prevalente a mantenere un ambiente sereno, anche in considerazione delle funzioni delicate di collaborazione ed organizzazione necessarie in un reparto operatorio, non essendo ipotizzabile, per converso, lo spostamento altrove della maggior parte degli addetti al I gruppo operatorio, a pena di disarticolarne la struttura;

assumeva che non avesse rilevanza il fatto che il procedimento disciplinare aperto nei confronti del R. si fosse concluso senza l’adozione di alcuna sanzione disciplinare a carico dello stesso;

rilevava che nessuna prova di “attività persecutoria” e mobbizzante fosse stata allegata dal ricorrente (oltre a non esser presente alcuna domanda espressa in tal senso) e che non vi fosse alcuna condotta arbitraria nel potere organizzativo dell’Azienda;

quest’ultima, infatti, aveva del tutto legittimamente privilegiato l’interesse ad assicurare un clima oggettivamente sereno nel reparto anche al fine di scongiurare responsabilità derivanti dalla inidonea organizzazione del lavoro data dalla conflittualità degli addetti, foriera di errori operativi incidenti sulla vita e sulla salute delle persone;

sosteneva che lo stato di turbamento psichico, pur accertato con CTU in corso di causa, non fosse ricollegabile ad una colpa dell’Azienda, che difatti aveva collocato il R. in mansioni equipollenti a quelle svolte nel reparto precedente;

assumeva che la mancanza di colpa e l’insussistenza del demansionamento escludevano in radice le altre categorie di danno rispetto alle quali, peraltro, nessuna allegazione di una effettiva compromissione personale era stata allegata;

2. R.L. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato ad un motivo;

3. l’Azienda Sanitaria Locale di Lecce ha opposto difesa con regolare controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. il ricorrente con un unico motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 421 c.p.c. e dell’art. 2103 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5;

censura la sentenza impugnata per aver non aver svolto attività istruttoria e per non aver accolto la richiesta di ammissione dei testi presentata dal R., sia in primo grado sia in secondo grado;

assume che sia stata integrata la violazione dei presupposti dell’art. 2103 c.c., anche alla luce delle decisioni amministrative sul punto, e sostiene che la Corte territoriale abbia effettuato un salto logico presumendo come sussistente l’incompatibilità ambientale del R. con il reparto senza però ammettere alcuna prova testimoniale o altra richiesta istruttoria da cui potesse emergere l’effettiva situazione relativa al reparto;

sostiene che la mancanza di una attività istruttoria abbia precluso la possibilità di dimostrare le condotte mobbizzanti subite;

rileva che i vari provvedimenti adottati dall’Azienda erano privi di ogni indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative giustificativa dello spostamento di reparto del R., che di fatto veniva lasciato senza mansioni specifiche;

2. il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni;

2.1. il motivo, come risulta evidente dalla stessa rubrica prima richiamata, contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica e adeguata indicazione, nell’illustrazione del motivo, di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1 così non consentendo una corretta identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

in particolare questa Corte ha più volte stigmatizzato tale modalità di formulazione che risulta irrispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione nei casi in cui, nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile – come nel motivo all’esame di questo Collegio – scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008); si è così ritenuta inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (in termini, Cass. n. 19443 del 2011; v. poi Cass. n. 23600 del 2012; Cass. n. 25722 del 2014; Cass. n. 671 del 2015; Cass. n. 15651 del 2017);

infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (sostanziale o processuale) presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;

nel motivo in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata, rendendo il motivo medesimo inammissibile per difetto di sufficiente specificità;

inoltre, il motivo, laddove denuncia violazioni di norme di diritto, non formula le censure così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, trascurando di considerare che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);

2.2. si ricorda, poi, che il ricorso per cassazione deve essere redatto nel rispetto dei requisiti imposti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c. che al comma 1, n. 6, richiede “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”;

nella specie il ricorrente fa riferimento più volte al ricorso di primo grado per confutare la tesi della Corte territoriale ma di tale ricorso non è trascritto il contenuto;

2.3. anche le censure afferenti alla mancata istruttoria da parte dei giudici di merito scontano una carenza di specificità;

qualora, infatti, con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonché di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (cfr. Cass. 4 ottobre 2017, n. 23194);

2.4. detta carenza appare riscontrabile anche ove la censura, per il tramite di una dedotta violazione dell’art. 2103 c.c., è stata riferita alla omessa valutazione di prove documentali (v. pagg. 14 e 15 del ricorso ed il richiamo ai vari provvedimenti asseritamente privi di indicazioni circa le ragioni tecniche, organizzative e produttive e così alle note prot. 10292/DS del 27.6.2006 e prot. 10293/DS del 27.6.2006);

in entrambi i suddetti casi si palesano evidenti profili di inammissibilità del motivo, non essendo indicato né il contenuto degli strumenti istruttori approntati, né quello della documentazione che si assume ingiustamente trascurata;

i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono, infatti, essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (vedi, ex plurimis, Cass. 13 novembre 2018, n. 29093);

2.5. peraltro, nella specie, la Corte territoriale ha chiaramente evidenziato che, stante la solo generica deduzione da parte del R. di una attività lato sensu persecutoria in suo danno, senza che fosse posto in risalto alcun filo conduttore sotteso alla sistematica attuazione di comportamenti vessatori ovvero un qualche collegamento con un disegno ordito contro il dipendente, non era possibile la dimostrazione mediante la richiesta istruttoria “confinata come è noto negli angusti limiti di ciò che viene articolato in fatto”;

2.6. la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è invero rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorché motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti ora consentiti dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, e non della violazione di legge (Cass., 20 settembre 2013, n. 21603; Cass. 27 giugno 2018, n. 17004);

2.7. quanto, poi, alle censure afferenti alla mancata utilizzazione dei poteri d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è sufficiente osservare che, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice di tali poteri, preordinati al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori (v. ex multis Cass. 12 marzo 2009, n. 6023; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 10 agosto 2017, n. 19985);

in ogni caso, gli indicati poteri d’ufficio non possono essere dilatati fino a richiedere che il giudice supplisca in ogni caso alle carenze allegatorie e probatorie delle parti, in assenza di una pista probatoria rilevabile dal materiale processuale acquisito agli atti di causa;

2.8. la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. non e’, poi, ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892), situazioni, queste, non sussistenti nel caso in esame;

2.9. si aggiunga che, sia riguardo al lavoro privato (Cass. 26 ottobre 2018, n. 27226), sia al pubblico impiego privatizzato (Cass. 27 gennaio 2017, n. 2143), questa Corte ha avuto modo di affermare che il trasferimento per incompatibilità aziendale/ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva/dell’Amministrazione, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari (si veda anche, in tal senso, Cass. 26 ottobre 2018, n. 27226);

in tal caso, il trasferimento è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza dell’impiegato in una determinata sede (v. Cass., n. 2143/2017 cit.);

la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell’ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione, concretizza un’oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell’art. 2103 c.c., con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive;

ed infatti, la situazione di incompatibilità riguarda situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d’ufficio del lavoratore, causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell’attività lavorativa (v., Cass. 4 maggio 2017, n. 10833; Cass. 24 ottobre 2019, n. 27345);

2.10. nella specie, come posto in evidenza dalla Corte territoriale, sulla base di un accertamento in fatto non rivedibile in questa sede (“il malcontento manifestato da numerosi componenti i team operatori risulta effettivo”) e con motivazione coerente e priva di aporie logiche, l’Amministrazione ha agito a tutela dell’interesse (prevalente) a mantenere un ambiente sicuro e sereno, soprattutto in considerazione del delicato contesto di una sala operatoria;

la misura è stata, quindi, adottata per ovviare ad una situazione in cui l’ulteriore permanenza del dipendente nel proprio originario settore lavorativo avrebbe pregiudicato il buon andamento dello stesso (nozione a cui vanno riferite nel pubblico impiego privatizzato, in ragione dell’art. 97 Cost., le ragioni tecniche organizzative e produttive del trasferimento) ed è stata intesa a rimuovere l’accertata conflittualità con l’ambiente di lavoro, nel generale interesse dell’amministrazione e degli interessati (“anche al fine di scongiurare responsabilità derivanti da inidonea organizzazione del lavoro data dalla conflittualità tra gli addetti, foriera di errori operativi incidenti sulla vita e la salute dei pazienti”);

il tutto senza alcuna violazione del criterio della equivalenza delle mansioni, avendo i giudici di appello rimarcato che, nella nuova assegnazione del R., erano stati mantenuti, la qualifica funzionale, il trattamento economico, il livello delle mansioni inizialmente attribuite e la tipologia delle mansioni stesse (caposala);

d’altra parte, come pure evidenziato nella sentenza impugnata, una soluzione diversa da quella adottata che avesse visto coinvolti tutti o la maggior parte degli addetti al I Gruppo Operatorio avrebbe determinato una disarticolazione della struttura con un pregiudizio per l’azienda maggiore di quello cui si intendeva ovviare;

l’accertata situazione di incompatibilità all’interno dell’unità di originaria appartenenza del R. e le ragioni dell’adottato provvedimento si richiamano necessariamente l’una con l’altra, come la complessiva motivazione della sentenza di appello, con la quale il ricorrente non si confronta adeguatamente, evidenzia;

3. sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

4. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

5. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma-1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021

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