Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.32367 del 08/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13107/2015 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA N. 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO CAROZZA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CASERTA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA n. 74, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CASERTANO, rappresentato e difeso dall’avvocato LIDIA GALLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1565/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 18/03/2015 R.G.N. 5256/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/06/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA.

RILEVATO

Che:

1. La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, accoglieva l’opposizione proposta dal COMUNE DI CASERTA (in prosieguo: il COMUNE) avverso il decreto ingiuntivo notificato dal dipendente P.F., per il pagamento della somma di Euro 24.446,31 a titolo di compenso per il progetto “recupero dei dati informatici canoni e tributi”.

2. La Corte territoriale osservava che lo schema di progetto prodotto era riconducibile alle previsioni dell’art. 17, comma 2, lett. a) CCNL 1999 (progetti per incentivare la produttività ed il miglioramento dei servizi), in quanto finanziato con le risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività, di cui all’art. 15 dello stesso CCNL.

3. Alla luce della normativa contrattuale, l’attribuzione del compenso richiedeva una certificazione del dirigente di settore (e non del solo responsabile del procedimento in qualità di esecutore del progetto) attestante il raggiungimento, totale o parziale, degli obiettivi.

4. Dall’esame dei documenti risultava un’unica relazione sulle attività svolte e sui risultati raggiunti a firma dello stesso P., responsabile del servizio tributi, interna al gruppo di lavoro, essendo il P. direttamente coinvolto nel progetto.

5. Inoltre detta relazione era parziale, in quanto relativa solo ad alcune fasi del programma di lavoro e trasmessa in data anteriore a quella fissata per la conclusione delle attività (il 31 maggio 20003).

6. Mancava un impegno di spesa del dirigente del settore Ragioneria e Bilancio così come un suo atto di attestazione del raggiungimento degli obiettivi.

7. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza P.F., articolato in sei ragioni di censura ed illustrato con memoria, cui il COMUNE ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso la parte ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., assumendo sussistere il difetto di legittimazione attiva del COMUNE, eccepito davanti al giudice dell’appello e non esaminato. Il ricorrente deduce che i provvedimenti da lui stesso emanati come responsabile del servizio tributi sarebbero imputabili al COMUNE ed avrebbero dovuto essere rimossi in via amministrativa, vertendosi in ipotesi di conflitto tra organi.

2. Il motivo è infondato. La legittimazione del COMUNE all’appello derivava dalla sua qualità di parte soccombente nel giudizio di primo grado.

3. L’originaria legittimazione dell’ente a proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo notificato dal P. derivava, poi, dalla sua qualità di parte ingiunta. Con il motivo erroneamente il ricorrente sostiene che il difetto di legittimazione attiva del COMUNE deriverebbe dalla definitività delle determinazioni che egli stesso aveva assunto, in qualità di responsabile del servizio tributi, giacché riferibili al COMUNE per il principio di immedesimazione organica. La questione posta attiene, piuttosto che alla legittimazione alla lite, al merito del credito vantato.

4. Con il secondo mezzo si denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 434 c.p.c., comma 1, n. 2, nonché dell’art. 2909 c.c..

5. Si censura l’omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello del COMUNE sollevata nella memoria di costituzione in appello.

6. Si espone che nel ricorso in appello mancava la indicazione delle statuizioni censurate e delle ragioni di censura; il COMUNE appellante si era limitato a riproporre le eccezioni sollevate nella memoria difensiva del primo grado.

7. Da ultimo, si sostiene che per effetto dell’inammissibilità dell’appello il giudice del gravame avrebbe dovuto rilevare la formazione del giudicato interno.

8. Il motivo è inammissibile.

9. Quanto alla denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., per costante e condiviso orientamento di questa Corte (ex aliis, Cass. 26 settembre 2013, n. 22083; Cass. 6 giugno 2002, n. 8220; Cass. 22 luglio 2010, n. 17233), il vizio di omessa pronuncia è configurabile se nella sentenza impugnata non sia stato esaminato un motivo di appello, o una domanda o un’eccezione che solo la parte può proporre (e che sia stata proposta o riproposta ritualmente) e non anche su questioni processuali rilevabili d’ufficio, quale e’, nella specie, la inammissibilità dell’impugnazione. In tal caso, si profila una nullità della decisione, propria o derivata, ma per violazione di una norma diversa dall’art. 112 c.p.c. (che ha riguardo solo alla decisione del merito della causa) se e in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte.

10. La dedotta violazione dell’art. 434 c.p.c., difetta di specificità.

11. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).

12. La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi e non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010).

13. Dal principio di diritto qui ribadito discende che, qualora, come nella fattispecie, il ricorrente assuma che l’appello doveva essere dichiarato inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di primo grado e l’atto di appello, onere nella specie non assolto.

14. Da ultimo, appare del tutto inconferente la denuncia di violazione del giudicato interno, vizio che presuppone una impugnazione valida e che non potrebbe, pertanto, derivare dalla inammissibilità dell’appello.

15. Con la terza critica si impugna la sentenza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – per omesso esame dei fatti posti a base del credito.

16. Si deduce l’omesso esame di documenti che avrebbero rilevanza decisiva a confutare l’affermazione del giudice dell’appello secondo cui la fattispecie era regolata dagli artt. 4, 15 e 17 CCNL 1.4.1999 e dall’art. 6 CCNL 31.3.1999: Delib. della conferenza dei servizi; progetto predisposto dal responsabile unico del procedimento; specchietto riepilogativo delle ore lavorate; relazione finale a firma del responsabile del procedimento; schede di presenza.

17. Il motivo è inammissibile.

18. L’art. 360 c.p.c., nuovo testo n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

19. La parte ricorrente non individua un fatto storico che il giudice dell’appello non avrebbe esaminato; deduce, piuttosto, l’omesso esame di elementi istruttori (i documenti), che, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma.

20. Con il quarto motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 49, art. 50, comma 10, art. 151, comma 4, artt. 165, 183, 184, nonché della L. n. 241 del 1990, art. 6 e degli artt. 2700 e 1362 c.c..

21. Si assume che il credito vantato troverebbe titolo nelle norme del D.Lgs. n. 267 del 2000 e nel L. n. 241 del 1990, art. 6, dalle quali emergerebbe che, anche in ragione del principio di immedesimazione organica, l’atto del responsabile del servizio contenente le modalità di erogazione del compenso individuale per il progetto impegna il COMUNE e costituisce documento certificativo del credito nonché dichiarazione di liquidazione della spesa.

22. I documenti di causa – in questa sede riprodotti per formare parte integrante del ricorso – nell’assunto di parte ricorrente fornirebbero dunque la prova del credito.

23. Da ultimo si sostiene che, secondo il criterio ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c., dal verbale della conferenza dei servizi del 27 febbraio 2003 emergerebbe che il COMUNE aveva manifestato la volontà di attivare il progetto e che gli atti sottoscritti come responsabile del servizio tributi erano stati fatti propri dai dirigenti che avevano partecipato alla suddetta conferenza con nota del direttore generale e del dirigente del Settore Programmazione, bilancio ragioneria, economato e Tributi del 10 giugno 2003.

24. Il motivo è inammissibile.

25. La censura non individua né le statuizioni della sentenza impugnata in cui si ravviserebbe l’errore di diritto denunciato né le ragioni della violazione delle norme indicate nella rubrica del motivo.

26. Risulta pertanto inadempiuto l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), che impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare- con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni- la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cassazione civile sez. un., 28/10/2020, n. 23745).

27. Nella sostanza la censura, piuttosto che individuare errori di diritto commessi dal giudice dell’appello, è tesa a sostenere che i documenti di causa fornirebbero la prova del credito, devolvendo a questa Corte un- non consentito riesame del merito.

28. Con la quinta critica viene dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 15, 17 CCNL 1 aprile 1999 e dell’art. 6 CCNL 31 marzo 1999 “interpretati secondo i criteri di cui agli artt. 1362 c.c. e segg. e D.Lgs. n. 52 del 2001, art. 52”.

29. Si contesta la statuizione del giudice dell’appello secondo cui i compensi oggetto di causa costituivano incentivi alla produttività; si assume che nella fattispecie di causa non era applicabile né il sistema di valutazione fissato dall’art. 6 CCNL 31.3.1999, che riguardava la classificazione del personale né l’istituto della incentivazione della produttività; l’attività svolta era stata voluta dall’Ente nella Conferenza dei Servizi del 27.2.2003, senza i condizionamenti previsti dalla contrattazione decentrata di amministrazione (di cui all’art. 4 CCNL 1 aprile 1999).

30. Il motivo è infondato.

31. La parte ricorrente assume che il diritto di credito sorgerebbe direttamente dalla legge (D.Lgs. n. 267 del 2000 e L. n. 241 del 1990) e dagli atti del COMUNE, a prescindere dai presupposti previsti dalla contrattazione collettiva.

32. Tale assunto contrasta con il principio secondo cui nell’impiego pubblico contrattualizzato l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e solo alle condizioni dagli stessi previste mediante contratti individuali, principio espresso dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3 (ed in epoca anteriore dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, comma 3, come modificato dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 2).

33. Il ruolo centrale della contrattazione collettiva è stato da tempo valorizzato dalle Sezioni Unite di questa Corte per affermare che l’atto di deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo è “affetto da nullità, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-septies (l’ordinamento esclude che l’amministrazione possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva)” (Cass. S.U. n. 21744/2009).

34. Per consolidato orientamento di questa Corte, dunque, l’adozione da parte della P.A. di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto con il quale venga attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, giacché la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla volontà delle parti collettive (cfr. fra le tante Cassazione civile sez. lav., 04/05/2021, n. 11645; Cass. n. 17226/2020; Cass. n. 21166/2019; Cass. n. 15902/2018; Cass. n. 25018/2017; Cass. 16088/2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).

35. Con il sesto motivo la parte ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2077 c.c. nonché – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame del fatto decisivo costituito dalla scadenza in data 31.12.2001 del CCNL 1 aprile 1999 e del CCNL 31.3.1999 sicché la normativa contrattuale non avrebbe potuto disciplinare la fattispecie di causa, svoltasi nell’anno 2003.

36. Il motivo è infondato.

37. Ferma la già ribadita impossibilità per la pubblica amministrazione di attribuire trattamenti economici non previsti dal contratto collettivo, va rilevato che il CCNL per il comparto delle Regioni ed autonomie locali 1998/2001, stipulato in data 1 aprile 1999, all’art. 2, prevedeva il rinnovo tacito di anno in anno del contratto stesso alla scadenza, in mancanza di disdetta di una delle parti (con lettera raccomandata, almeno tre mesi prima di ogni singola scadenza); in caso di disdetta, le disposizioni contrattuali sarebbero comunque rimaste in vigore fino alla loro sostituzione ad opera del successivo contratto collettivo.

38. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere nel complesso respinto.

39. Le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

40. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Cass. SU 20 febbraio 2020 n. 4315).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 3.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2021

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