LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22822/2017 proposto da:
F.A., D.R.A., V.V., domiciliati ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati WALTER MICELI, e NICOLA ZAMPIERI;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 209/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 15/03/2017 R.G.N. 438/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Salerno adita dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha riformato la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che aveva accolto il ricorso di F.A., V.V., N.A. e D.R.A. ed aveva riconosciuto il diritto degli stessi, tutti dirigenti scolastici vincitori del concorso ordinario e provenienti dal ruolo dei docenti, alla integrazione retributiva necessaria per eliminare la sperequazione, introdotta dal contratto collettivo, rispetto ai dirigenti che in precedenza rivestivano la qualifica di preside o di direttore didattico. Solo a questi ultimi, infatti, il c.c.n.l. riconosceva o la retribuzione individuale di anzianità, se stabilmente inseriti nel ruolo soppresso, o l’assegno ad personam, ne caso dei docenti che nell’anno antecedente all’attribuzione della qualifica dirigenziale erano stati incaricati provvisoriamente della funzione.
Il Tribunale, richiamato il principio della parità di trattamento, aveva ritenuto che in ragione della identità della funzione esercitata, anche ai vincitori di concorso dovesse essere riconosciuta la RIA, da calcolare, per analogia, applicando i medesimi criteri in precedenza previsti per i presidi ed i direttori didattici all’anzianità ricoperta nel ruolo dei docenti.
2. La Corte territoriale ha ritenuto non condivisibile il percorso argomentativo seguito dal giudice di prime cure ed ha evidenziato, in sintesi, che il D.Lgs. n. 165 del 2001, riserva alla contrattazione collettiva la determinazione del trattamento retributivo e che il principio di parità di trattamento, sancito dall’art. 45 dello stesso decreto, non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate dalla contrattazione collettiva né impedisce a quest’ultima di valorizzare le pregresse vicende dei rapporti di lavoro e di differenziare il trattamento, pur a fronte dell’espletamento di medesime funzioni. Ha aggiunto che il riconoscimento della R.I.A. e dell’assegno ad personam si era reso necessario per evitare che gli ex presidi o direttori didattici nel passaggio, disposto d’ufficio, dal ruolo soppresso alla dirigenza perdessero una quota dello stipendio già in godimento, esigenza questa che vale a differenziare la posizione delle richiamate categorie rispetto a quella dei docenti vincitori di concorso che in precedenza non avevano mai espletato la funzione direttiva.
3. Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i litisconsorti indicati in epigrafe sulla base di otto motivi, illustrati da memoria. Il MIUR ha notificato controricorso riportandosi agli atti difensivi del precedente grado di giudizio e concludendo per il rigetto dello stesso.
4. La Procura Generale ha concluso del D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, convertito in L. n. 176 del 2020, per l’infondatezza del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2, 40, 45 e 52, artt. 3 e 97 Cost., dell’art. 1418 c.c. e sostengono, in sintesi, che anche le parti collettive sono tenute a dettare disposizioni che si armonizzino con il principio di parità di trattamento nonché con i precetti costituzionali che impongono alle pubbliche amministrazioni di agire nel rispetto dell’imparzialità. Precisano che l’esigenza di perequazione all’interno dell’area era stata evidenziata in occasione della stipula del c.c.n.l. sottoscritto il 15 luglio 2010 che, peraltro, aveva mantenuto la disparità, omettendo di riassorbire negli aumenti contrattuali il trattamento di miglior favore concesso ai dirigenti che avevano in precedenza svolto le funzioni di preside o di direttore didattico.
2. La seconda censura, oltre a denunciare il vizio motivazionale, argomenta “sulla manifesta irrazionalità del diverso trattamento erogato a dipendenti dello stesso Ministero provenienti dallo stesso ruolo docente che svolgono identiche mansioni e hanno lo stesso inquadramento”, sulla irrilevanza della diversa data di assunzione del personale dirigenziale, sulla violazione, nuovamente dedotta, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 45, artt. 1406 e 1418 c.c., dell’art. 58 del CCNL 11.4.2006. Rilevano che in occasione del rinnovo del contratto collettivo l’assegno doveva essere riassorbito destinando i risparmi di spesa alla riduzione della sperequazione con i dirigenti assunti all’esito del concorso espletato nel 2007. In difetto analoga indennità doveva essere riconosciuta agli altri dirigenti dello stesso Ministero.
3. Il terzo motivo, ricondotto al vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 3, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 420,112 e 115 c.p.c., artt. 2697 e 2727 c.c., nonché il divieto di doppia presunzione ed “i principi fondamentali della difesa, del contraddittorio, del dovere di giudicare iuxta alligata e probata….”. Ribadito che nella dichiarazione congiunta allegata al c.c.n.l. 15 luglio 2010 la parte pubblica aveva riconosciuto che il diverso trattamento economico era privo di giustificazione obiettiva e ragionevole, rilevano che la pregressa attività direttiva svolta dagli ex presidi o presidi incaricati non poteva essere valorizzata dal giudice d’appello per giustificare il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata nel ruolo di docente, giacché da quest’ultimo ruolo provenivano anche gli appartenenti alle categorie privilegiate. Aggiungono che la Corte territoriale ha affermato la diversità delle carriere o delle esperienze professionali sebbene la stessa non fosse stata tempestivamente dedotta e provata dal Ministero.
4. Con la quarta critica si assume che la sentenza impugnata avrebbe violato la garanzia costituzionale della giusta retribuzione nonché i principi di legalità, pari dignità lavorativa, di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dagli artt. 3,36,41 e 97 Cost.. I ricorrenti insistono nel denunciare il carattere arbitrario e palesemente discriminatorio della disparità di trattamento fra gli ex docenti transitati nella qualifica dirigenziale a seguito del superamento del concorso pubblico e quelli che sono stati sottoposti a semplice selezione o hanno partecipato al concorso riservato. Richiamano il principio meritocratico e ribadiscono che del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, deve essere interpretato privilegiando fra le diverse esegesi quella che armonizza la norma con i precetti costituzionali.
5. Il quinto motivo denuncia “violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24, nonché dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 111 Cost., per violazione di legge e carenza assoluta di motivazione” perché la Corte d’appello non ha considerato in alcun modo le difese svolte dagli appellati né ha motivato sulle ragioni per le quali le stesse dovevano essere disattese.
6. La violazione del principio di non discriminazione è dedotta con la sesta critica che richiama nella rubrica della L. n. 300 del 1970, artt. 15 e 16, L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 903 del 1977, artt. 1 e 3, L. n. 125 del 1991, art. 4, D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 36 e segg., i decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003, l’art. 20 della Carata di Nizza, gli artt. 151 e 157 del T.F.U.E., le direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, la Convenzione Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 6/22 giugno 1962, l’art. 7 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici concluso a New York il 16 dicembre 1966, gli artt. 14 e 1 del protocollo n. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. I ricorrenti insistono nel sostenere che a parità di prestazioni deve corrispondere uniformità del trattamento retributivo, sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto interpretare le norme di diritto interno in modo conforme ai principi fissati dalle fonti sovranazionali.
7. Sulla violazione del principio di uguaglianza e di parità di trattamento è incentrato anche il settimo motivo che addebita al giudice di appello di avere violato gli artt. 10 e 117 Cost., nell’interpretare del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, ponendosi in contrasto con la normativa comunitaria e internazionale.
8. Infine l’ottava critica denuncia la violazione dei “principi di buona amministrazione e di imparzialità di cui agli artt. 3 e 97 Cost. e di necessario computo del servizio prestato nel ruolo inferiore del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 40 e segg., D.P.R. n. 417 del 1974, art. 77, D.Lgs. n. 417 del 1984, art. 83, L. n. 399 del 1988, art. 4, comma 8, L. n. 312 del 1980, art. 57,D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 486 e 487, nonché dell’art. 1419 c.c.”. Rilevato che il riconoscimento dell’anzianità di servizio prestata nel ruolo inferiore è principio di carattere generale, desumibile dalle norme richiamate in rubrica, i ricorrenti insistono nel sostenere che le clausole contrattuali si pongono in contrasto con il richiamato principio e, quindi, il giudice del merito, accertata la nullità, avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 1419 c.c. e riconoscere un’indennità di pari importo anche ai dirigenti scolastici vincitori di concorso. In via subordinata rilevano che andava comunque dichiarata la nullità, perché alla stessa conseguirebbe l’obbligo per l’ARAN di ridistribuire gli importi per i quali doveva operare il riassorbimento.
9. I motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati.
L’attribuzione ai capi di istituto ed ai direttori didattici della qualifica dirigenziale risale alla L. n. 59 del 1997 che, all’art. 21, comma 16, l’aveva correlata “all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche”, rinviando ad un successivo D.Lgs.., integrativo della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 29 del 1993, l’individuazione dei contenuti e delle specificità del ruolo dirigenziale e stabilendo, proprio in ragione di detta specificità, che il rapporto di lavoro sarebbe stato disciplinato dalla contrattazione collettiva del comparto scuola, articolata in autonome aree (art. 21, comma 17).
Con l’articolo unico del D.Lgs. n. 59 del 1998, sono stati, quindi, inseriti nel D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 25 bis e 28 bis, poi trasfusi nel D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 25 e 29, con i quali è stata dettata la disciplina della funzione dirigenziale nonché delle modalità ordinarie di reclutamento dei dirigenti scolastici, disciplina connotata dal carattere di specialità rispetto a quella della dirigenza statale, reso evidente dall’inserimento non nel ruolo unico nazionale, bensì in ruoli di dimensione regionale, e dalla valorizzazione di detto livello territoriale anche ai fini della valutazione dell’operato del dirigente nonché, nel testo originario dell’art. 29, delle modalità di accesso alla qualifica dirigenziale.
Il carattere di specialità della funzione dirigenziale rispetto a quella delineata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17, risulta ancor più marcato se si analizzano i compiti attribuiti alla dirigenza delle istituzioni scolastiche, che non si esauriscono in quelli gestionali ed amministrativi (circoscritti, quanto all’ampiezza, dai limiti posti all’autonomia scolastica nonché dalle competenze attribuite al direttore dei servizi generali ed amministrativi), bensì si estendono a profili didattici ed educativi, tanto da delineare una funzione sui generis, definibile come amministrativo-educativa.
Il D.Lgs. n. 59 del 1998, ha, poi, inserito nel testo del D.Lgs. n. 29 del 1993, anche l’art. 25 ter con il quale è stato disciplinato l’inquadramento nei ruoli regionali dei capi di istituto già in servizio e previsto che l’attribuzione della qualifica dirigenziale sarebbe avvenuta ” previa frequenza di appositi corsi di formazione, all’atto della preposizione alle istituzioni scolastiche dotate di autonomia e della personalità giuridica a norma della L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 21, salvaguardando, per quanto possibile, la titolarità della sede di servizio” (art. 25 ter, comma 1, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 25, comma 7).
9.1. In questo contesto normativo si e’, quindi, inserita la contrattazione collettiva, che, a partire dal CCNL 1.3.2002, con decorrenza dal 1 settembre 2000, ha disciplinato gli aspetti economici e normativi dell’autonoma area della dirigenza scolastica, istituita, con la medesima decorrenza, dal CCNQ 9.8.2000, e da quest’ultimo “collocata nell’ambito del comparto scuola, in relazione alla previsione della L. n. 59 del 1997, art. 21, comma 17” (art. 3 del CCNQ).
Sino a detta data sulla disciplina del rapporto erano intervenuti i CCNL sottoscritti il 4.8.1995 ed il 26.5.1999, sicché la retribuzione spettante ai capi d’istituto, così come quella prevista per il personale docente ed ATA, aveva avuto la struttura indicata dall’art. 63 del CCNL del 1995 e, a partire dal 1 gennaio 1996, era stato previsto un sistema di progressione economica per tutto il personale del comparto, ivi compreso quello con funzioni direttive, che aveva sostituito il D.P.R. n. 399 del 1988, ed era fondato sull’attribuzione di posizioni economiche differenziate, di importo crescente a seconda della maggiore o minore anzianità di servizio (02, 3-8, 9-14, 15-20, 21-27, 28-34, oltre 35).
Lo stipendio tabellare del capo di istituto, comprensivo della retribuzione individuale di anzianità e dell’indennità di funzione, risentiva principalmente dell’anzianità di servizio e, alla data del 1 giugno 1999, poteva variare da un minimo di Lire 32.147.000 ad un massimo di Lire 57.099,000 (cfr. i valori indicati nella tabella E allegata al CCNL 1999), in relazione all’esperienza maturata.
L’art. 69 del CCNL 4.8.1995 aveva, poi, previsto uno speciale regime per il personale docente chiamato a sostituire momentaneamente il capo d’istituto e per quello incaricato della reggenza ed aveva riconosciuto un’indennità aggiuntiva, che si sommava al trattamento stipendiale previsto per la qualifica di appartenenza, determinata sulla base del differenziale tra i livelli iniziali di inquadramento delle due aree (docente e capo d’istituto).
9.2. Di dette disposizioni contrattuali hanno, quindi, dovuto tener conto le parti collettive in occasione della stipula del primo contratto relativo alla sola dirigenza scolastica, contratto con il quale, in linea con la contrattazione delle altre aree dirigenziali, è stata prevista una struttura della retribuzione comprensiva dello stipendio tabellare, dell’indennità integrativa speciale, della retribuzione di posizione, parte fissa e parte variabile, della retribuzione di risultato, nonché della “retribuzione individuale di anzianità, ove acquisita e spettante”.
Quest’ultima voce è stata conservata solo per i dirigenti scolastici ex capi d’istituto per i quali, soppressa dall’art. 39 dello stesso CCNL 1.3.2002 la progressione economica per posizioni stipendiali, si poneva l’esigenza di disciplinare il passaggio dall’uno all’altro sistema e di evitare che l’inquadramento nella qualifica dirigenziale si risolvesse in una mortificazione dei diritti già acquisiti e comportasse l’azzeramento, a fini retributivi, dell’anzianità maturata in una funzione che implicava comunque compiti direttivi, rimarcati, anche in epoca antecedente all’attribuzione dell’autonomia scolastica, dal CCNL 4.8.1995 (e’ significativo riportare l’art. 32 del CCNL 1995 secondo cui “il personale regolato dalle disposizioni di cui alla presente sezione è collocato nella distinta area della specifica dirigenza scolastica nell’ambito del compatto scuola, non assimilabile alla dirigenza regolata dal D.Lgs. n. 29 del 1993…. Ciascun dipendente appartenente a tale area è organo dell’amministrazione scolastica ed ha la rappresentanza dell’istituto. Esso assolve a tutte le funzioni previste dalla legge e dai contratti collettivi in ordine alla direzione e al coordinamento, alla promozione e alla valorizzazione delle risorse umane e professionali, nonché alla gestione delle risorse finanziarie e strumentali, con connesse responsabilità in relazione ai risultati. A tal fine esso assume le decisioni ed attua le scelte di sua competenza volte a promuovere e realizzare il progetto di istituto sia sotto il profilo didattico-pedagogico, sia sotto quello organizzativo e finanziario”).
Il CCNL 1.3.2002 ha, quindi, previsto, all’art. 39, che “A decorrere dal 1.1.2001 è soppressa la progressione economica per posizioni stipendiali ed al personale compete uno stipendio unico determinato in C 18.798,47 (lire 36.398.917) annui lordi inclusa la tredicesima mensilità. Il valore economico corrispondente alla differenza tra la posizione stipendiale in godimento, inclusi gli incrementi indicati nella tabella A, e lo stipendio di cui al comma 1 costituisce la retribuzione individuale di anzianità di ciascun dirigente scolastico ed è corrisposta mensilmente in aggiunta allo stipendio”.
9.3. Un’esigenza analoga si è posta, espletate le procedure per il reclutamento dei dirigenti scolastici, per i vincitori che, seppure appartenenti all’area docente, prima della formale acquisizione della qualifica dirigenziale erano stati incaricati della reggenza di istituti scolastici ed avevano percepito il trattamento retributivo previsto per l’area di appartenenza, secondo il sistema delle fasce stipendiali, maggiorato della speciale indennità riconosciuta dal già richiamato art. 69 del CCNL 1.9.1995.
Le parti collettive hanno ritenuto che anche in tal caso dovesse operare il divieto di reformatio in peius, perché l’inquadramento aveva riguardato soggetti già investiti, seppure in assenza di qualifica, della relativa funzione, e con l’art. 58 del CCNL 11.4.2006 hanno previsto che “I docenti già incaricati di presidenza e assunti nella qualifica dirigenziale dell’area a seguito delle procedure di reclutamento previste dalla normativa vigente, conservano, quale assegno ad personam, l’eventuale maggior trattamento economico complessivo percepito per effetto dell’espletamento delle funzioni sostitutive. L’eventuale maggior trattamento di cui al comma 2 viene riassorbito con gli incrementi stabiliti dai successivi contratti collettivi nazionali di lavoro”.
9.4. In tal modo, quindi, nell’ambito della dirigenza scolastica, a fini retributivi, al regime, per così dire ordinario, previsto per i dirigenti di nuova assunzione sono stati affiancati due trattamenti “speciali” destinati ad esaurirsi nel tempo, riservati, rispettivamente, agli ex capi di istituto ed ai reggenti, ed accomunati dalla necessità di evitare che l’acquisizione della qualifica dirigenziale si risolvesse in un peggioramento del trattamento retributivo già acquisito.
10. Così ricostruito nei suoi tratti essenziali il quadro normativo e contrattuale, rileva il Collegio che deve essere esclusa l’eccepita nullità delle clausole contrattuali inerenti il trattamento retributivo.
Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24, in linea con il sistema delle fonti delineato in via generale dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, riserva alla contrattazione collettiva la determinazione della retribuzione del personale dirigenziale.
Il ruolo centrale della contrattazione nel sistema dell’impiego pubblico contrattualizzato è stato costantemente rimarcato dalla giurisprudenza costituzionale che nella riserva alla contrattazione collettiva della definizione del trattamento economico ha ravvisato uno dei principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica che, in quanto tale, limita la potestà legislativa delle Regioni, anche a statuto speciale, (cfr. fra le tante Corte Cost. n. 16/2020 e le pronunce richiamate in motivazione).
Facendo leva sulla peculiare natura della contrattazione disciplinata dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e sulla funzione alla stessa assegnata dal legislatore, questa Corte da tempo ha affermato che il principio espresso dall’art. 45 del richiamato decreto, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera solo nell’ambito del sistema previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l’applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete (cfr. fra le tante Cass. n. 6553/2019; Cass. n. 32157/2018; Cass. n. 12334/2018; Cass. n. 19043/2017).
Si è precisato, in particolare, che, ove facciano difetto norme inderogabili dettate dal legislatore nazionale o principi Eurounitari di immediata applicazione, la parità di trattamento non può essere invocata per sollecitare un sindacato giudiziale delle scelte operate dalla contrattazione collettiva perché a quest’ultima è stato affidato in via esclusiva il potere di definire i trattamenti retributivi dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ed è stata lasciata alle parti sociali piena autonomia di prevedere, anche a parità di mansioni e di funzioni esercitate, trattamenti differenziati in ragione dei diversi percorsi formativi, delle specifiche esperienze maturate, delle carriere professionali nonché delle dinamiche negoziali dei diversi comparti (Cass. n. 19043/2017).
11. Sulla base di detti principi questa Corte ha già ritenuto priva di fondamento la pretesa dei dirigenti scolastici volta ad ottenere l’equiparazione, quanto alla retribuzione di posizione, alla dirigenza di seconda fascia dell’area I (Ministeri ed Aziende). Si è osservato, infatti, che l’esercizio della discrezionalità collettiva impedisce ogni sindacato finalizzato a comparazioni tra le distinte aree e si è aggiunto che “improponibile è una comparazione, ai fini di adeguatezza e proporzionalità ex art. 36 Cost., tra dirigenti appartenenti a comparti e dunque ad aree distinti, stante la evidente eterogeneità delle attività in concreto svolte, tale da escludere altresì qualsiasi possibilità di ragionare in termini di parità di trattamento ai sensi dell’art. 45” (Cass. n. 15110/2020).
12. Alle medesime conclusioni si giunge quanto alla domanda, che viene in rilievo in questa sede, di perequazione interna all’area.
Si è già dato conto delle ragioni per le quali la contrattazione collettiva, nel disciplinare il passaggio dall’uno all’altro sistema retributivo, ha ritenuto di dovere salvaguardare il trattamento già raggiunto dagli ex capi di istituto e dai dirigenti che, seppure inquadrati nella qualifica dirigenziale all’esito delle procedure di reclutamento disposte del D.Lgs. n. 165 del 2011, ex art. 29, avevano maturato un’esperienza specifica in qualità di reggenti.
Al principio richiamato al punto 10, già sufficiente a sorreggere una pronuncia di rigetto della domanda, si deve aggiungere che la pretesa dei ricorrenti di essere equiparati ai colleghi che avevano in precedenza ricoperto le funzioni di capo di istituto si fonda su un’asserita piena equiparazione delle due situazioni a confronto, in realtà insussistente.
12.1. Come è noto la retribuzione individuale di anzianità si ricollega, non alle caratteristiche oggettive delle mansioni espletate o della posizione ricoperta, bensì alla maggiore esperienza maturata nell’esercizio della funzione, ossia nella permanenza in un determinato ruolo o nella qualifica, sicché è indubbio che, ai fini dell’attribuzione dell’emolumento, non possa essere equiparata l’anzianità maturata dal docente a quella acquisita nell’espletamento della funzione direttiva, attesa la assoluta diversità dei due ruoli, che si coglie comparando le disposizioni della contrattazione collettiva, antecedente a quella che qui viene rilievo, con le quali sono stati indicati i compiti, le caratteristiche, le finalità della funzione docente e di quella svolta dal Preside o dal Direttore Didattico (artt. 32 e 38 del CCNL 4.8.1995).
Ne’ i ricorrenti possono fare leva sulla circostanza che, in ragione della peculiare natura della dirigenza scolastica, alla stessa si possa accedere solo dopo avere maturato una determinata anzianità nell’area docente. L’argomento in realtà smentisce la tesi dell’assimilabilità dei due ruoli perché l’esperienza nell’insegnamento è solo uno dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, che richiede ulteriori condizioni (variate nel corso del tempo e a seconda del regime, ordinario o transitorio, applicabile) proprio in ragione delle competenze richieste ai fini della funzione direttiva, le quali non si esauriscono in quelle educative.
12.2. Non rilevano nella fattispecie le disposizioni, succedutesi nel tempo, che nel settore scolastico disciplinano l’istituto della ricostruzione della carriera, riconoscendo l’anzianità maturata nel ruolo inferiore.
Le clausole contrattuali delle quali i ricorrenti contestano la legittimità sono volte a regolare, in via transitoria, il passaggio da un sistema retributivo che valorizzava l’anzianità di servizio, mediante la previsione di una progressione economica per fasce stipendiali, ad altro sistema che, invece, commisura il trattamento economico alla funzione esercitata, alle caratteristiche dell’istituto diretto, ai risultati ottenuti.
Questa esigenza si pone, ovviamente, solo per coloro che nel precedente regime avevano esercitato la funzione, non già per i dirigenti di nuova assunzione, i cui rapporti lavorativi sono stati novati con il superamento del concorso, posto che il passaggio alla qualifica dirigenziale non costituisce una mera progressione verticale, in quanto comporta l’accesso ad altra area.
12.3. La diversità delle situazioni a confronto sussiste anche rispetto ai dirigenti che, pur non rivestendo formalmente la qualifica di capo d’istituto, avevano esercitato la funzione direttiva in qualità di reggenti.
Al riguardo, alle considerazioni già espresse sulla diversa natura delle funzioni, si deve aggiungere che a detta categoria le parti collettive non hanno attribuito la retribuzione individuale di anzianità (riconosciuta dall’art. 39 del CCNL 2002 ai soli capi di istituto), bensì l’assegno personale riassorbibile di cui all’art. 58 del CCNL 2006, chiaramente finalizzato ad impedire la reformatio in peius che, per la diversità dei sistemi retributivi, si sarebbe verificata in conseguenza del formale inquadramento nel ruolo dirigenziale.
La previsione, quindi, si giustifica in ragione della finalità perseguita e della valorizzazione, anche in tal caso, della diversa esperienza professionale pregressa.
L’esclusione in radice di una irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento, è sufficiente a ritenere infondato il ricorso anche nella parte in cui invoca il principio di parità, di uguaglianza e di non discriminazione sancito dalle fonti sovranazionali, perché quel principio presuppone che le situazioni siano comparabili, seppure non perfettamente coincidenti, e detta comparabilità non sussiste nella fattispecie per le ragioni sopra indicate.
13. Ne’ a diverse conclusioni si può giungere facendo leva sulla dichiarazione congiunta n. 1 posta in calce al CCNL 15.7.2010 con la quale le parti hanno concordato “nel ritenere che il confronto sugli ulteriori benefici economici debba prioritariamente affrontare i problemi di perequazione retributiva interna all’area”, perché la dichiarazione di intenti si limita a prendere atto di un dato obiettivo ed a prospettare l’opportunità che dello stesso si tenga in futuro conto nell’attribuzione di “ulteriori” benefici economici, ma non implica alcun riconoscimento dell’asserito carattere ingiustificato e discriminatorio della diversità di trattamento.
14. Ritiene, inoltre, il Collegio che i ricorrenti non abbiano neppure interesse a far valere la nullità dell’art. 2, comma 5, del CCNL 15.7.2010 che “al fine di non pregiudicare il potere di acquisto del trattamento economico fisso” ha escluso il riassorbimento previsto dall’art. 58 del CCNL 11.4.2006 in relazione agli incrementi stipendiali previsti dallo stesso articolo.
E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio in base al quale anche il soggetto che propone un’azione di nullità ex art. 1421 c.c., deve dimostrare la sussistenza un proprio concreto interesse ad agire, secondo le norme generali e con riferimento all’art. 100 c.p.c., sicché, in mancanza della dimostrazione, da parte dell’attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica, l’azione di nullità non può essere proposta sotto la specie di un fine generale di attuazione della legge (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18819/2018).
L’interesse ad agire deve essere concreto ed attuale e richiede, non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri migliorativi o pregiudizievoli per la parte, sicché le questioni inerenti l’interpretazione delle norme giuridiche sono ammissibili solo se strumentali alla pronuncia sulla domanda di tutela del diritto ossia se costituiscono il mezzo per ottenere il risultato utile e concreto che la parte intende perseguire (cfr. fra le più recenti Cass. n. 2057/2019).
E’ evidente che nella fattispecie difetta l’interesse, nei termini sopra indicati, a far accertare la nullità della disposizione contrattuale con la quale le parti collettive, disattendo il principio del necessario riassorbimento, hanno sottratto gli aumenti attribuiti in occasione del rinnovo contrattuale all’applicazione della regola posta dall’art. 58 del CCNL 2006.
Invero dalla pronuncia di nullità non potrebbe in nessun caso derivare l’accoglimento della domanda azionata nel presente giudizio, di attribuzione del medesimo trattamento economico riservato agli ex capi di istituto o ai reggenti. D’altro canto l’interesse ad una pronuncia di mero accertamento della nullità, a prescindere da ogni considerazione sull’esatta qualificazione della domanda originariamente proposta, non presenta quei caratteri di concretezza e di attualità che l’art. 100 c.p.c., richiede, perché del tutto ipotetica è la possibilità, prospettata dai ricorrenti, di ottenere, attraverso la riaffermazione del riassorbimento, le maggiori risorse rese in tal modo disponibili.
15. Non si ravvisa l’eccepita violazione dell’art. 132 c.p.c., perché, in disparte l’errata formulazione della rubrica dei motivi, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, ex art. 360 c.p.c., n. 4, a seguito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 83 del 2012, attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. S.U. n. 8053/2014), ipotesi, queste, che non ricorrono nella fattispecie in quanto la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni per le quali la domanda, anche alla luce di orientamenti consolidati nella giurisprudenza di legittimità, doveva essere disattesa.
Errano, poi, i ricorrenti nel sostenere che il giudice d’appello non poteva valorizzare, per giustificare la disparità di trattamento, circostanze che il Ministero non aveva allegato né, tantomeno, provato. Le ragioni per le quali la Corte territoriale ha ritenuto giustificata la diversità di trattamento si fondano non su accertamenti di fatto bensì su argomentazioni giuridiche che attengono all’interpretazione delle clausole contrattuali ed al diverso percorso professionale compiuto dai dirigenti posti a confronto, sicché del tutto inconferente è il richiamo alle disposizioni processuali invocate nel terzo motivo.
16. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato ed occorre dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, ed ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.
17. Deve essere dichiarata l’inammissibilità del controricorso notificato dal Ministero dell’Istruzione, perché l’Avvocatura si è limitata a costituirsi in giudizio “richiamandosi integralmente agli atti difensivi del precedente grado”.
L’atto, quindi, è privo del requisito richiesto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 4, al quale rinvia l’art. 370 c.p.c., perché “contraddire al ricorso, senza indicarne i motivi, senza indicare cioè le ragioni giuridiche ad esso contrarie, non solo svilisce la natura in sé del controricorso, quale atto di difesa, ma priva l’atto anche del raggiungimento dello scopo, al quale è destinato, di resistenza al ricorso” (Cass. n. 5400/2006 e negli stessi termini Cass. n. 12171/2009; Cass. n. 9983/2019; Cass. n. 12424/2021).
Ne discende che non può essere pronunciata condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese, perché il Ministero, dopo avere notificato controricorso inammissibile, non ha svolto altra attività difensiva, non avendo depositato memoria né partecipato all’udienza di discussione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2021
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