Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.32629 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5525/2015 R.G. proposto da:

PIEMME AUTO SNC di P. G. D.P. G. e M. C., in persona del rappresentante P.G., nonché per P.G. e M.C., entrambi in proprio, rappresentati e difesi dall’avv. Antonio Damascelli, presso il cui studio in Roma, via Alberico II, n. 33, sono elettivamente domiciliati;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per la Puglia n. 1562/10/14, depositata il 7/7/2014 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/06/2021 dalla Dott.ssa Valeria Pirari.

RILEVATO

che:

1. In seguito ad attività di controllo e verifica della posizione fiscale della Piemme Auto s.n.c. di P. G., D.P. G. e M. C., con riguardo agli anni di imposta 2006, 2007 e 2008, nonché all’invio di questionari e all’invito ad esibire le scritture contabili e altre informazioni, seguiti dalla risposta della stessa, l’Agenzia delle Entrate notificò alla società e ai soci P. e M. tre distinti avvisi di accertamento, riguardanti il 2006, con cui fu rideterminato, quanto alla prima, il maggior reddito ai fini Irap e Iva, e, quanto ai secondi, maggior imponibile ai fini Ires in proporzione alle quote sociali. Impugnati con tre distinti ricorsi i predetti atti, la C.T.P. di Bari, previa loro riunione, li rigettò, in ragione della legittimità del metodo induttivo e della mancata produzione di concreti elementi di contrasto, con sentenza n. 61/10/13, che fu confermata dalla C.T.R. per la Puglia, adita dai medesimi contribuenti, con la sentenza n. 1562/10/14, depositata il 7/7/2014.

2. Contro la predetta sentenza, i contribuenti propongono ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con l’unico motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 13,18 e art. 39, comma 2, in combinato disposto, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. dato ingresso all’accertamento extracontabile in difetto dei presupposti e avere accertato un maggior reddito sulla base di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. I contribuenti hanno infatti evidenziato come il D.P.R. n. 600, art. 39, comma 2, consenta tale accertamento solo in presenza delle fattispecie di cui alle lett. da a) a d-ter), e che, nella specie, era stata applicata quella di cui alla lett. d-bis), in derivazione dall’art. 32, comma 1, nn. 3) e 4), essendo stato l’accertamento basato sulla asserita mancata produzione della distinta delle rimanenze e dell’errata indicazione dello studio di settore delle auto vendute, nonostante fosse stato in realtà inviato, in data *****, il prospetto di conteggio attestante il differenziale tra ricavi e costo delle auto, contenente anche l’elenco, col relativo costo, delle macchine rimaste invendute e poste in giacenza, come peraltro affermato nell’avviso di accertamento, cui era stata assegnata però natura e valenza difforme, senza considerare che, ai sensi del D.P.R. n. 600 cit., art. 18, comma 2, le imprese minori, come la ricorrente, possono indicare il valore delle rimanenze nel registro degli acquisti tenuto ai fini Iva, in quanto fruiscono dell’esonero dalla tenuta delle scritture contabili prescritte dal medesimo decreto, art. 13 e ss.. Inoltre, la prova si era risolta nell’attribuzione di maggiori ricavi e redditi ricostruiti sulla base della remuneratività minima conseguibile dall’imprenditore, ossia secondo una presunzione non qualificata, senza considerare che quella sottoposta a controllo era un piccola impresa che aveva operato soltanto negli anni dal 2005 al 2009, data della cessazione, sì da essere la ricostruzione operata dall’Ufficio priva di addentellati concreti, e senza considerare, in violazione dell’art. 115 c.p.c., le prove proposte dalle parti e la loro fondatezza.

2. Il ricorso è inammissibile.

Va premesso che il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo analitico extracontabile e quello condotto con metodo induttivo cd. puro sta nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non consente di prescindere del tutto dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore solo a completare le lacune riscontrate, utilizzando anche presunzioni semplici, rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.; nel secondo caso invece “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare integralmente l’attendibilità, e dunque l’utilizzabilità, degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che l’amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti”, ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, privi dei requisiti previsti per la prova presuntiva dagli artt. 2727 e 2729 c.c.. In queste ipotesi, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente determinare il reddito sulla base di dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, avvalendosi anche di elementi meramente indiziari e privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per la prova presuntiva (vedi Cass., Sez. 5, 5/12/2019, n. 31811, non massimata; Cass., Sez. 5, 6/5/2021, n. 11933), con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti. Tra tali elementi è tra l’altro compresa la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento, ben potendo la rideterminazione del ricarico, sulla base di dati concreti, integrare un’operazione finalizzata alla ricostruzione del volume d’affari (Cass., Sez. 5, 08/03/2019, n. 6861; Cass., Sez. 5, 24/07/2013, n. 17952, Cass., Sez. 5, 13/07/2018, n. 18695).

Nella specie, pur non disponendosi di alcuna notizia in merito alla situazione contabile della società, non avendo i ricorrenti riportato in ricorso gli stralci dell’avviso di accertamento, né prodotto tale atto in copia, in ottemperanza al dovere di specificità del motivo, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, alla p. 5, terzultimo cpv., è pacifico tra le parti che l’Ufficio abbia rideterminato il reddito d’impresa sulla base di un accertamento induttivo-extracontabile, sotto la forma disciplinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, lett. d-bis, il quale, nel prevedere l’ipotesi in cui il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dagli Uffici ai sensi del medesimo decreto, art. 32, comma 1 nn. 3) e 4), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, costituisce uno dei casi tassativamente indicati dalla legge perché possa procedersi in tal senso.

Vi è allora da chiedersi se l’incompleta ottemperanza a tale invito o la produzione di documenti diversi da quelli pretesi in ragione di una diversa modalità nella tenuta della contabilità, come accaduto nella specie, possa inibire all’Ufficio la possibilità di ricorrere all’accertamento extracontabile, facendone venir meno il presupposto di legge. La risposta non può che essere negativa, posto che, nella procedura improntata al principio del contraddittorio, quale quella prefigurata con la richiesta di informazioni e documenti mediante questionari, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, una volta che il contribuente abbia ottemperato alla richiesta di chiarimenti, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di contestarne in modo specifico la completezza, la veridicità, la qualificazione giuridica del fatto rappresentato e, per quanto qui interessa, l’idoneità probatoria, insorgendo soltanto dopo l’adempimento di tale onere di contestazione, in capo al contribuente, l’onere di provare le circostanze di fatto rilevanti per smentire le contestazioni dell’ufficio (Cass., Sez. 5, 05/05/2011, n. 9892), e che lo stesso atto impositivo deve essere motivato sia con riferimento ai presupposti che consentono il ricorso al metodo analitico od a quello induttivo, sia alle ragioni che giustificano il calcolo in rettifica (Cass., Sez. 5, 15/09/2017, n. 21444).

Può allora sostenersi che l’inidoneità probatoria dei documenti esibiti dal contribuente o la loro parziale produzione non inibisca lo svolgimento dell’accertamento induttivo extracontabile fondato sulla citata lett. d-bis, essendo tale situazione sostanzialmente equivalente alla mancata produzione della documentazione elencata nell’invito, sì da giustificare il metodo di indagine prescelto e la rettifica dei redditi sulla base degli elementi a disposizione dell’Amministrazione, ribaltando sul contribuente l’onere della prova contraria.

Alla luce di tali principi, deve dunque ritenersi che la C.T.R. abbia correttamente operato, allorché, sia pure con motivazione laconica, ha escluso la violazione dell’art. 39 citato, stante la compiuta motivazione dell’avviso di accertamento quanto agli indici di inattendibilità e alla idoneità degli elementi addotti a rappresentare la capacità contributiva non dichiarata, costituiti da plurime ragioni, quali l’omessa presentazione della distinta delle rimanenze e l’errata indicazione dello studio di settore, gravando sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate.

Ne’ può dirsi che l’omessa presentazione delle “distinte legate alle rimanenze e la documentazione relativa ai criteri di valutazione” fosse giustificata dall’esonero dalla tenuta delle scritture contabili prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 13 e ss., concesso alle imprese minori, che indicano perciò il valore delle rimanenze nel registro degli acquisti tenuto ai fini Iva, come suggerito in ricorso, atteso che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, anche le imprese minori, che fruiscono del regime di contabilità semplificata, ai sensi dell’art. 18 del citato decreto, devono indicare ogni anno nel registro degli acquisti, tenuto ai fini IVA, il valore delle rimanenze, senza limitarsi ad annotare quello globale, ma distinguendo i beni per categorie omogenee, del medesimo tipo e della stessa quantità, con analiticità adeguata rispetto all’attività esercitata, analiticità che può essere sindacata dall’Ufficio solo ove il difetto della stessa impedisca in concreto l’esercizio della funzione di controllo; in assenza di tali indicazioni – che ove fatte oggetto di richiesta da parte dei verificatori possono essere fornite dal contribuente anche in sede procedimentale durante l’accesso, l’ispezione e la verifica – l’amministrazione finanziaria può ritenere inattendibile la contabilità e procedere all’accertamento induttivo (Cass., Sez. 5., 13/11/2018, n. 29105).

Ne’ può dirsi fondata, infine, la doglianza legata alla insufficienza dell’unico elemento presuntivo fondante l’accertamento e dato dalla “remuneratività minima conseguibile dall’imprenditore”, siccome costituente presunzione semplice e non qualificata, non soltanto in quanto, nello specifico, il comma 2, consente all’Amministrazione di “avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al precedente comma, lett. d)”, ossia di quelle “gravi, precise e concordanti”, ma anche perché, più in generale, in relazione alla prova presuntiva, gli elementi assunti non devono essere necessariamente più di uno, benché l’art. 2729 c.c., il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38, comma 4, si esprimano al plurale, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento purché grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass., Sez. 5, 14/10/2020, n. 22184).

Può allora dirsi che la doglianza si risolva in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia di fatto, certamente estranea alla natura e ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez. U., 25/10/2013, n. 24148).

Ne consegue l’inammissibilità del motivo.

3. In conclusione, va dichiarata l’inammissibilità della censura. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza e devono essere poste a carico dei ricorrenti.

P.Q.M.

dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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