LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14633-2019 proposto da:
F.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 73, presso lo studio dell’avvocato SIMONE FRABOTTA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA SCAFATI;
– ricorrente –
contro
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato PESSI & ASSOCIATI STUDIO, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO PESSI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3804/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/10/2018 R.G.N. 4426/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/06/2021 dal Consigliere Dott. PAGETTA ANTONELLA.
RILEVATO IN FATTO
Che:
1. la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di F.S. intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento per motivi disciplinari intimato da Poste Italiane s.p.a. con lettera in data 26.4.2011;
2. la Corte distrettuale, respinta la eccezione di inammissibilità dell’atto di appello per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., esclusa la tardività del licenziamento, ha ritenuto che l’istruttoria espletata avesse confermato gli addebiti contestati al F. consistenti nella effettuazione della timbratura in entrata al posto di lavoro presso l’ufficio postale di Veroli – sito nel comune di residenza del dipendente – anziché presso l’ufficio di Frosinone presso il quale il F. prestava servizio e nell’assenza dal servizio per tre giorni, in contrasto con quanto risultante dalla registrazione delle presenze; tali condotte integravano l’ipotesi di cui all’art. 56, lett. k) del contratto collettivo applicabile sanzionata con il licenziamento senza preavviso ed erano idonee a determinare la lesione del vincolo fiduciario tenuto conto delle mansioni ispettive svolte dal F.;
3. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F.S. sulla base di cinque motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso;
4. entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 -bis.1. c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
Che:
1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c. nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. in L. n. 134 del 2012, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la eccezione di inammissibilità dell’atto di gravame per difetto di corrispondenza con il modello legale delineato dall’art. 434 c.p.c., nel testo novellato;
2. con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c.; sostiene che il giudice di appello, dopo avere operato una specificazione dei fatti contestati circoscrivendoli all’assenza dal servizio nei giorni 25 novembre, 6 e 9 dicembre 2010, aveva contraddittoriamente affermato che la giustificazione addotta dal lavoratore era inidonea in quanto non copriva i mesi di gennaio e febbraio 2010; denunzia, inoltre, errata interpretazione delle deposizioni testimoniali e omesso rilievo del fatto – pacifico- che nessuna contestazione era stata mai rivolta al F. da Poste per l’avvenuta timbratura in entrata presso un ufficio diverso da quello al quale il dipendente era addetto; si duole, infine, che il giudice di appello avesse ritenuto provata la condotta addebitata;
3. con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 3, 4 e 8 e del D.Lgs. n. 196 del 2003 censurando la sentenza impugnata per non avere considerato che Poste Italiane s.p.a. avrebbe potuto impiegare all’interno dei luoghi di lavoro personale di vigilanza solo previa comunicazione ai lavoratori interessati dei relativi nominativi e mansioni specifiche; il giudice di appello aveva errato omettendo di rilevare la nullità dei verbali degli ispettori e delle loro testimonianze;
4. con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 52, 54 e 56 c.c.n.l. nonché degli artt. 2014, 2105 e 2119 c.c., censurando in sintesi la valutazione di congruità del recesso datoriale ed assumendo che la condotta accertata non era riferibile ad alcuna delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo;
5. con il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché agli artt. 1324,1325 e 1418, censurando la sentenza impugnata per avere escluso la tardività della contestazione disciplinare;
6. il primo motivo di ricorso è inammissibile;
6.1. è noto che secondo recenti arresti di questa Corte, ai quali si ritiene di dare continuità, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente delineato dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (cfr. tra le altre, Cass. n. 8069 del 2016, n. 25308 del 2014, n. 8077 del 2012);
6.2. in particolare è stato precisato che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte (Cass. n. 29495 del 2020);
6.3. parte ricorrente non ha osservato gli oneri prescritti al fine dell’ammissibilità della censura avendo omesso di riportare il contenuto dell’atto di gravame di Poste italiane s.p.a. onde consentire alla Corte sulla base del solo esame del ricorso per cassazione la verifica della dedotta violazione;
7. il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile;
7.1. non sussiste la denunziata apparenza di motivazione avendo il giudice di appello esposto in maniera chiara e percepibile le ragioni alla base della decisione evidenziandone i presupposti giuridici e fattuali. In particolare non sussiste il denunziato contrasto logico in relazione all’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale le giustificazioni del lavoratore non “coprivano” i mesi di gennaio e febbraio 2010 posto che tale affermazione, nel contesto della motivazione, è riferita non all’addebito relativo all’assenza dal servizio (addebito riferito ai giorni 25 novembre e 6 e 9 dicembre 2010) ma al diverso addebito concernente la timbratura in ingresso in un ufficio diverso dalla sede di lavoro del F., contestato dalla datrice di lavoro in relazione all’intero anno 2010; in coerenza con l’arco temporale nel quale era collocata la condotta contestata il giudice di appello ha ritenuto che le difese del F., il quale in ricorso aveva sostenuto di essere stato incaricato di ” vigilare” sull’ufficio postale di Veroli in conseguenza di una rapina avvenuta nel marzo 2010, non giustificavano già in astratto la condotta tenuta nei mesi di gennaio e febbraio 2010;
7.1. le ulteriori censure articolate con il motivo in esame sono inammissibili; la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018); nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, pacificamente gravante sulla società datrice di lavoro, mentre esulano dalla violazione denunziata le doglianze del ricorrente che investono il concreto apprezzamento degli elementi in atti al fine dell’accertamento della responsabilità del lavoratore; tale apprezzamento in quanto espressione del principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano della valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017, e nn. 4699 e 26769 del 2018), neppure formalmente prospettato dall’odierno ricorrente;
7.2. in tale contesto risulta altresì inammissibile la denunzia di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., incentrata sulla errata valutazione del materiale probatorio, con particolare riferimento al profilo attinente all’attendibilità di alcuni dei testi escussi che si assumono avere interesse diretto nella vicenda;
7.3. invero, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 1229 del 2019, n. 27000 del 2016, censure non ravvisabili nelle critiche articolate con il motivo in esame;
8. il terzo motivo di ricorso è inammissibile;
8.1. la questione dell’impiego di personale di vigilanza all’interno dei luoghi di lavoro e della necessità di comunicazione ai dipendenti dei relativi nominativi non risulta in alcun modo trattata dalla sentenza impugnata ed, a fronte di ciò, onde impedire una valutazione di novità della questione, era onere del ricorrente, a pena di inammissibilità del motivo, quello di allegare l’avvenuta deduzione di essa innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione, quello di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. n. 20694 del 2018, n. 15430 del 2018, n. 23675 del 2013), come viceversa non è avvenuto;
9. il quarto motivo di ricorso è inammissibile in quanto l’errore sussuntivo ascritto in tesi al giudice di appello nel ricondurre la fattispecie in oggetto alla previsione di cui all’art. 56, lett. K del c.c.n.l. non è dedotto in relazione al concreto accertamento operato dalla Corte distrettuale, ma fondato sulla valorizzazione di circostanze, peraltro evocate senza il rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, che secondo il ricorrente erano destinate ad accreditare una valutazione di minore gravità degli illeciti commessi sotto il profilo essenzialmente dell’assenza di dolo; la censura si muove in una logica per così dire meramente contrappositiva in quanto non evidenzia alcun errore della sentenza impugnata riconducibile al novero dei tassativi motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1; tanto è a dirsi anche in relazione alle critiche incentrate sulla valutazione di proporzionalità del recesso datoriale, inammissibili in quanto investono un tipico apprezzamento riservato al giudice di merito (Cass. n. 7426 del 2018, n. 35 del 2011);
10. il quinto motivo di ricorso è inammissibile;
10.1. la Corte di appello ha negato la tardività del licenziamento evidenziando che la contestazione dell’addebito era stata effettuata con lettera del 9.3.2011, da considerare pervenuta al destinatario in data 12.4.2011 per “compiuta giacenza” mentre il licenziamento era stato intimato con lettera del 26.4.2011 pervenuta il 27.5.2011 per compiuta giacenza; in ordine alla contestazione, premesso il carattere relativo del requisito dell’immediatezza, ha ritenuto che tale requisito fosse stato in concreto rispettato, considerato che si era in presenza di condotte consistenti in fatti unificati tra loro da un vincolo di continuità nel tempo e per tipo di violazioni e che l’ultimo episodio risaliva al 9 dicembre 2010 per cui la contestazione era senz’altro tempestiva;
10.2. le ragioni che hanno indotto la Corte di merito a negare la tardività dell’atto di contestazione non sono inficiate dalle censure articolate con il motivo in esame che si risolvono nella mera enunciazione delle finalità di tutela cui è preordinato il requisito della tempestività della contestazione e nella prospettazione di un diverso apprezzamento di circostanze di fatto, evocate senza il rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la cui valutazione, per costante giurisprudenza di legittimità è riservata al giudice di merito (v. tra le altre, Cass. n. 281 del 2016, n. 20719 del 2013);
11. al rigetto del ricorso segue il regolamento secondo soccombenza delle spese di lite;
12. la Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021
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