Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.32763 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25582-2019 proposto da:

BINFI S.P.A., in persona di C.A. e F.T. nella loro qualità di amministratori e legali rappresentanti, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;

– ricorrente –

contro

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 66, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ENRICO ARCIERI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA ZWINGAUER;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 590/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 10/07/2019 R.G.N. 227/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2021 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’

STEFANO, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Binfi spa ha proceduto al licenziamento, in data 21.9.2016, di M.F., dipendente a tempo indeterminato assunta con mansioni di facchino ai piani e di manutentore con inquadramento contrattuale D1, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo ex lege n. 223 del 1991 avviata con comunicazione dell’11.10.2015, nella quale l’esubero dei lavoratori addetti ai servizi di facchinaggio e pulizia delle camere era stato motivato in ragione della cessazione della gestione diretta di tali servizi, in quanto appaltati a società esterna.

2. Impugnato il licenziamento, il giudice della fase sommaria ha respinto le censure relative alla ritorsività e discriminatorietà del recesso e quelle riguardanti la violazione dei presupposti della procedura, accogliendo invece la contestazione concernente la violazione dei criteri di scelta, per la mancata specificazione, nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 3 e 9 dei motivi per cui la platea del personale da licenziare era stata limitata ai soli addetti al settore esternalizzato; ha riconosciuto, poi, alla lavoratrice la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4.

3. Lo stesso Tribunale di Firenze ha, successivamente, rigettato l’opposizione proposta dalla Binfi spa, con la pronuncia n. 265/2019, rilevando che la comunicazione di apertura della procedura non recava l’indicazione dei motivi per cui il lavoratore, facchino ai piani, non avrebbe potuto essere impiegato in altre mansioni affidate a dipendenti di pari inquadramento (D1), quali interni di cucina o commis di sala, in assenza peraltro della indicazione dei motivi per i quali si era ritenuto di non potere evitare in tutto o in parte il licenziamento collettivo; ha, inoltre, reputato irrilevante la mancata adesione del lavoratore alla proposta di assunzione da parte della società appaltatrice del servizio, posto che il legittimo rifiuto di costituire un nuovo rapporto con un terzo non incideva sull’eventuale illegittimità del recesso del datore di lavoro e ha considerato, infine, non provato I’aliunde perceptum o percipiendum in difetto di allegazioni specifiche da parte della datrice.

4. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 590/2019, ha respinto il reclamo della società condannandola al pagamento delle spese di lite.

1. I giudici di seconde cure hanno rilevato che: a) la società aveva individuato i lavoratori in esubero con riguardo ai soli addetti ai reparti di facchinaggio e di pulizia ai piani, senza alcuna specifica motivazione circa le ragioni che impedivano di ovviare ai licenziamenti con il trasferimento dei dipendenti in esubero ad altri settori aziendali, giustificando la scelta con la mera esternalizzazione del servizio al quale erano addetti e con l’assenza di altri posti disponibili in azienda nel quale collocarli; b) la comunicazione di apertura nulla diceva in concreto circa i motivi per cui gli addetti alla parte esternalizzata non potessero essere impiegati in altri settori aziendali, non fornendo alcuna specificazione, altresì, in ordine alla autonomia di detti reparti né sulla impossibilità di collocazione dei lavoratori in altri settori per l’infungibilità delle mansioni svolte; c) l’onere di allegazione e prova a carico del lavoratore poteva intervenire solo dopo che il datore, nella comunicazione di apertura, avesse assolto i propri doveri di completa e specifica informazione come prescritti dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3; d) il rifiuto del lavoratore di aderire alla proposta di essere assunto alle dipendenze della società appaltatrice del servizio esternalizzato non poteva configurarsi come inadempimento contrattuale; e) circa la tutela applicabile, dal vizio di comunicazione era derivata la violazione dei criteri di scelta del personale da licenziare; f) nessuna indicazione era stata fornita dalla società in ordine alla mancata detrazione dell’aliunde perceptum (in relazione al quale non rilevava la corresponsione dell’indennità di mobilità) né dell’aliunde percipiendum (per il quale vi era stata solo l’indicazione dell’età del lavoratore e del tempo trascorso dal licenziamento, elementi assolutamente insufficienti al fine di presumere la possibilità di reperimento, con diligente attivazione, di una nuova occupazione).

2. Avverso la decisione di secondo grado la Binfi spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso M.F..

3. Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2000, art. 23, comma 8 bis coordinato con la legge di conversione n. 176 del 2020, chiedendo il rigetto del ricorso.

4. La società ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la società Binfi denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, reclamando la sufficienza e specificità del contenuto della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità in tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ove la ristrutturazione della azienda interessi (solo) una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, (salva tuttavia l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti (cfr Cass. n. 18190/16).

3. Il motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.

4. La doglianza è inammissibile laddove essa è diretta a contrastare l’interpretazione della lettera di comunicazione iniziale di apertura della procedura fornita dal giudice di merito; è comunque infondata avendo questa Corte coerentemente chiarito che il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti ad un determinato reparto o settore ristrutturandi se essi siano idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (ex aliis, Cass. n. 203/15, Cass. n. 19105/17).

5. La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro dà inizio alla procedura di licenziamento collettivo deve compiutamente adempiere l’obbligo di fornire le informazioni specificate dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 in maniera tale da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. La comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4 è in contrasto con l’obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (Cass. n. 6225/07).

6. Il giudice dell’impugnazione del licenziamento collettivo o del collocamento in mobilità deve verificare – con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di legittimità ove assistita da un accertamento sufficiente e non contraddittorio – l’adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura (Cass. n. 15479/2007).

7. Ciò che comunque conta, in funzione dell’esercizio del controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa (non più esercitato ex post dal giudice, ma) devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, è l’idoneità in concreto della comunicazione a rendere queste ultime effettivamente edotte degli aspetti individuati nel citato art. 4, comma 3, in modo da escludere maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali (Cass. 18 novembre 2016, n. 23526, con richiamo, tra le altre, di: Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 21 febbraio 2012, n. 2516).

8. La Corte territoriale, in applicazione di tali principi, con un percorso argomentativo congruo e privo di salti logici nonché rispettoso della normativa applicabile alla fattispecie esaminata, ha ritenuto che la mancanza della specificazione circa le ragioni che impedivano di ovviare ai licenziamenti con il trasferimento dei dipendenti in esubero in altri settori aziendali – non essendo a tal uopo sufficiente la indicazione della mera esternalizzazione del servizio nonché l’assenza di altri posti disponibili in azienda nei quali collocarli – e la carenza di indicazioni circa l’autonomia dei reparti e l’infungibilità delle mansioni svolte, si erano tradotte in una incompleta e distorta informazione che si riverberava sulla corretta esplicazione delle fasi successive della procedura.

9. A fronte di tale sufficiente e congruo iter argomentativo, giuridicamente corretto, la ricorrente si è limitata, invece, ad offrire una diversa lettura dell’atto, lettura che costituisce, come sopra detto, attività valutativa delle risultanze di causa operata dai giudici di merito e, dunque, un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità perché sufficientemente motivato e coerente con gli spazi di controllo allo stesso devoluti.

10. Con il secondo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 3 e art. 12 e della L. n. 223 del 1991, art. 5, commi 1 e 3 in ordine agli effetti dei rilievi sulla comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di merito erroneamente associato un vizio nella comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, in virtù di un ingiusto automatismo, al vizio della violazione dei criteri di scelta.

11. Con il quinto motivo, trattabile congiuntamente al secondo per la loro stretta connessione, si denuncia la violazione e /o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 18, comma 4, St. lav., nella versione vigente ratione temporis, e dell’art. 18, commi 5 e 7, St. lav., sempre nella versione vigente ratione temporis, in ordine alla tutela applicabile al licenziamento in questione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, perché erroneamente la Corte di merito, in relazione ai vizi rilevati, non aveva ritenuto applicabile la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 5 e 7 bensì aveva ritenuto corretta quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4.

12. I motivi sono infondati essendo stato chiarito da questa Corte che mentre la mera irregolarità della procedura di riduzione del personale produce conseguenze solo risarcitorie, la violazione dei criteri di scelta (in quanto inerenti al licenziamento di singoli lavoratori) dà luogo all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (Cass. n. 2587/18, Cass. n. 19010/18).

13. L’inadeguatezza delle informazioni che abbia potuto condizionare la conclusione dell’accordo tra impresa e organizzazioni sindacali secondo le previsioni della L. n. 223 del 1991, art. 4 determina l’inefficacia dei licenziamenti per irregolarità della procedura, a norma dell’art. 4, comma 12 (Cass. n. 880/2013).

14. La L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3 vigente ratione temporis, esclusa l’ipotesi del licenziamento senza forma scritta, sanzionato con il regime del L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1 fa riferimento alla violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12 (che a sua volta richiama le comunicazioni di cui al comma 9 – conclusione procedura – e al comma 2) – avvio procedura -), violazione per la quale è prevista la tutela indennitaria forte, e alla violazione dei criteri di scelta, per la quale è prevista, di contro, la tutela reintegratoria attenuata di cui alla L. n. 300 del 1970, comma 4.

15. Per i licenziamenti collettivi, quindi, secondo il diritto positivo, non esiste la possibilità di individuare una tutela diversa da quella dettata dal citato art. 5.

16. Tuttavia, ritiene questo Collegio che i due regimi, in astratto senza dubbio separati, non debbano – in concreto – essere rigidamente distaccati, ma siano da considerare in relazione tra loro perché, qualora il vizio della comunicazione (sia che riguardi quella di avvio sia quella di conclusione della procedura) consista nella insussistenza di elementi di fatto che incidano sulla corretta applicazione dei criteri di scelta, allora la violazione non è di natura esclusivamente formale, ma si riverbera sul recesso in modo sostanziale perché non concerne più solo la regolarità della procedura amministrativa, bensì incide sulla lesione effettiva del diritto del singolo lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.

17. Infatti, avendo riguardo alla formulazione letterale delle disposizioni, va osservato che la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3 recita che, qualora il licenziamento sia intimato in violazione dei criteri di scelta di cui al comma 1, si applica il regime sanzionatorio di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4.

18. Al comma 1 dell’art. 5 L. n. 223 del 1991 e’, poi, testualmente precisato che l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale – nel rispetto dei criteri previsti da contatti collettivi ovvero, in mancanza, nel rispetto dei criteri legali.

19. Qualora, pertanto, la violazione delle procedure richiamate dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 12 incida sulla individuazione dei lavoratori da licenziare perché il vizio della comunicazione porta a ritenere l’assenza o la arbitrarietà dei criteri di scelta e tale vizio non sia sanato nelle successive fasi della procedura, allora ricadendo sull’aspetto sostanziale della legittimità dei licenziamenti adottati, la tutela non può che essere quella della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 (cfr. Cass. n. 19010 del 2018).

20. In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina una violazione dei criteri di scelta, per la quale la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, prevede l’applicazione dall’art. 18, comma 4 novellato della L. n. 300 del 1970, norma che riguarda tutte le modalità di applicazione dei suddetti criteri, e quindi non solo l’errata valutazione o applicazione dei punteggi assegnati, ma anche le modalità con cui essi sono attribuiti (Cass. 26 settembre 20186, n. 18847; Cass. 3 agosto 2018, n. 20502).

21. La Corte di merito, sia pure in modo sintetico, ha fatto corretta applicazione di tali principi giurisprudenziali e la gravata sentenza e’, pertanto, esente dalle censure mosse con i motivi in esame.

22. Con il terzo motivo si duole della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, della L. n. 223 del 1991, art. 5 e degli artt. 1175 e 1375 c.c., relativamente all’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori coinvolti nella procedura di licenziamento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per essere avvenuta la scelta delle persone destinatarie del provvedimento sulla base di una selezione oggettiva ed imparziale, differentemente da quanto ritenuto dai giudici di seconde cure.

23. Con il quarto motivo, da esaminare congiuntamente al terzo per la loro stretta connessione, la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per l’erronea valutazione, da parte della Corte di merito, circa il riparto e l’assolvimento dell’onere della prova in punto di fungibilità della lavoratrice. Deduce la società che la Corte di appello non aveva valutato correttamente la circostanza che la lavoratrice non aveva dimostrato di essere stata adibita, in passato, a mansioni diverse, tali da renderla comparabile con i lavoratori non interessati dal licenziamento collettivo.

24. Le censure riguardano sempre la c.d. platea dei lavoratori licenziandi (in tesi gli addetti ai reparti pulizia e facchinaggio oggetto di esternalizzazione) di cui si è detto in ordine al primo motivo – a proposito del quale si è osservato che il datore di lavoro non può limitare secondo la sua unilaterale determinazione la platea dei lavoratori da licenziare, a meno che la ristrutturazione della azienda interessi (solo ed esclusivamente) una specifica unità produttiva o un settore produttivo, circostanza la cui prova non può che gravare sull’azienda – di cui le doglianze in esame non possono che seguire la sorte.

25. E’ opportuno precisare che per singole unità produttive, in relazione alle quali è prospettabile la legittimità di un licenziamento collettivo dei soli addetti ad esse, devono intendersi quelle articolazioni dell’azienda che siano caratterizzate per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un elemento essenziale della attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali (Cass. n. 13705/2012; Cass. n. 26376/2008).

26. E la delimitazione della platea è legittima, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, ben potendo le esigenze tecnico-produttive ed organizzative costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione prevista dall’art. 4, comma 3, citato sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

27. Inoltre, essa è legittima qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, agli addetti ad essi sulla base soltanto di oggettive esigenze aziendali, purché siano dotati di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre (Cass. 11 luglio 2013, n. 17177; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 1 agosto 2017, n. 19105; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

28. Nella fattispecie in esame, però, la procedura di licenziamento ha interessato non una unità produttiva nei termini sopra esposti, bensì singole posizioni lavorative (3 facchini e 4 cameriere ai piani) che non necessitano di particolare addestramento e/o speciale competenza rispetto ad altre posizioni del medesimo livello contrattuale D1, non coinvolte dalla procedura stessa.

29. La comparazione dei lavoratori doveva, quindi, avvenire (e su tale punto la comunicazione di avvio avrebbe dovuto essere chiara e specifica) tra tutti i dipendenti di professionalità equivalente inquadrati nello stesso profilo professionale, non limitandosi a tenere conto delle mansioni concretamente svolte in quel momento, ma anche della capacità professionale degli addetti alle mansioni da sopprimere, mettendo quindi a confronto tutti coloro che fossero in grado di svolgere le mansioni proprie dei settori che sopravvivevano all’esternalizzazione, indipendentemente dal fatto che, in concreto, non le esercitassero al momento del licenziamento collettivo.

30. Di tali aspetti la comunicazione di avvio avrebbe dovuto dare atto, proprio per consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che si intendano concretamente espellere (Cass. n. 2429/12; Cass. n. 4678/15) perché, altrimenti, la comunicazione medesima, incidendo su arbitrari criteri di scelta, finiva per individuare singolarmente i lavoratori da licenziare (Cass. n. 10832/1997; Cass. n. 9856/2001).

31. Conseguentemente, trattandosi di figure professionali nell’ambito dello stesso livello contrattuale, l’onere della prova sulla fungibilità sicuramente non gravava sul lavoratore in quanto non si era in presenza di addetti ad una particolare unità produttiva caratterizzata da una specifica professionalità ostativa all’utilizzo del dipendente in altri reparti analogamente specializzati, ma di personale da ritenersi equiparabile, come detto, in relazione ai due presupposti della analoga professionalità e del similare livello.

32. Ciò senza dire che i motivi in esame, peraltro, presentano evidenti ragioni di inammissibilità ove pretendono di sottoporre a questa Corte (ulteriori) considerazioni circa l’organizzazione dell’impresa e le mansioni svolte dall’odierna controricorrente.

33. Il ricorso va dunque rigettato.

34. Le spese di lite seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi anticipante.

35. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.250,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore del Difensore di parte controricorrente. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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