Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.32775 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20933/2015 proposto da:

F.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato PAOLO BOER, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ETTORE PARENTI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati SERGIO PREDEN, LUIGI CALIULO, ANTONELLA PATTERI, LIDIA CARCAVALLO;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 414/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 27/03/2015 R.G.N. 1184/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/04/2021 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’

Stefano, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 27.3.2015, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di F.C. volta alla ricostituzione della pensione di vecchiaia liquidatale con decorrenza 1.6.2007 previa neutralizzazione della contribuzione versata nel periodo 1.10.1988-31.12.1999, in cui aveva svolto attività lavorativa di collaboratrice domestica, e tenendo conto esclusivamente di quella maturata fino al 1986, in dipendenza dell’attività di operaia, epoca in cui aveva conseguito il requisito contributivo minimo di vent’anni.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’invocata neutralizzazione non potesse aver luogo al di là del periodo degli ultimi cinque anni di contribuzione precedenti il pensionamento e che contrari argomenti non potessero desumersi dalla pronuncia n. 264 del 1994 della Corte costituzionale, atteso che tale decisione, lungi dal dichiarare l’illegittimità costituzionale della L. n. 297 del 1982, art. 3, comma 8, nella parte in cui non prevede che la neutralizzazione potesse essere richiesta anche per periodi superiori a cinque anni, l’aveva dichiarata nella parte in cui non prevede che, in caso di svolgimento durante l’ultimo quinquennio di attività lavorativa meno retribuita, la pensione non possa essere inferiore a quella che sarebbe spettata al raggiungimento dell’età pensionabile.

Avverso tali statuizioni F.C. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura, successivamente illustrato con memoria. L’INPS ha depositato delega in calce al ricorso notificatogli.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di censura, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, art. 3, comma 8, anche in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., per avere la Corte di merito ritenuto che la neutralizzazione non potesse estendersi al di là del periodo indicato nella disposizione cit.: a suo avviso, infatti, la portata della sentenza n. 264 del 1994 della Corte costituzionale consisterebbe piuttosto nell’individuare una ratio decidendi idonea a risolvere tutte le controversie in cui il pensionato, che abbia conseguito il requisito contributivo minimo per l’accesso alla prestazione, chiede di poter neutralizzare il periodo assicurativo non utile ai fini pensionistici in quanto il maggior gettito contributivo incamerato dall’ente previdenziale darebbe luogo ad un trattamento pensionistico inferiore.

Il motivo è infondato.

Questa Corte, intervenendo in fattispecie pressoché sovrapponibile alla presente, ha avuto modo di chiarire che i trattamenti pensionistici liquidati dopo il 1.1.1993 sono determinati, avuto riguardo alla disciplina di cui alla L. n. 421 del 1992 e al D.Lgs. n. 503 del 1992, sulla base di una progressiva estensione del periodo di calcolo della retribuzione pensionabile, che obbedisce alla ratio di rendere l’importo della pensione il più possibile aderente all’effettiva consistenza di quanto percepito dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa, di talché rispetto ad essi non opera, nemmeno per i lavoratori che, alla predetta data, avessero maturato un’anzianità contributiva utile ai fini pensionistici, il rimedio della c.d. “neutralizzazione” dei periodi a retribuzione ridotta, il quale, nell’assetto legislativo delineato dalla L. n. 297 del 1982, art. 3, incentrato sulla valorizzazione del maggior livello retributivo tendenzialmente raggiunto negli ultimi anni di lavoro, aveva l’opposta finalità di evitare che la prosecuzione dell’attività lavorativa comportasse un decremento della prestazione previdenziale (così Cass. n. 28025 del 2018, cui ha dato continuità Cass. n. 790 del 2021).

Ne’ contrari argomenti reputa il Collegio di poter desumere da Corte Cost. n. 173 del 2018, diffusamente richiamata nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c., al fine di criticare l’anzidetto approdo ermeneutico: con la pronuncia in esame, infatti, la Corte costituzionale ha bensì dichiarato l’illegittimità costituzionale “della L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 5, comma 1 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 18 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote di trattamento pensionistico, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, non prevedono l’esclusione dal computo della contribuzione successiva ove comporti un trattamento pensionistico meno favorevole” (così, testualmente, la parte dispositiva della sentenza cit.), ma esclusivamente “in riferimento all’evocato parametro costituito dall’art. 3 Cost.”, vale a dire sul presupposto che “la non applicazione del principio alla scrutinata disciplina pensionistica del lavoro autonomo” comportasse “una ingiustificata diversità di trattamento con i lavoratori subordinati” (così, specificamente, i paragrafi nn. 3 e 6 della motivazione); per il resto, nel giustificare il principio, la Corte ha richiamato le proprie precedenti decisioni al riguardo, segnatamente la n. 82 del 2017, le quali – come puntualmente rilevato da Cass. n. 28025 del 2018, cit. – si sono tutte mosse nel solco dell’intrinseca irragionevolezza di un meccanismo che, in antitesi con la finalità di favore perseguita dalla legislazione antecedente alla riforma del 1992 di considerare, ai fini pensionistici, il livello retributivo degli ultimi anni di lavoro, siccome tendenzialmente più elevato, implicasse, per la fase successiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo, un decremento della prestazione previdenziale (così specialmente Corte Cost. n. 82 del 2017, cit., paragrafo 4.2 della motivazione). E dal momento che anche nel mutato contesto normativo la regolazione transitoria dettata dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 13, ha previsto che la posizione dei pensionati coinvolti nel nuovo sistema di calcolo del trattamento pensionistico sia tutelata mediante il calcolo della quota A della pensione da effettuarsi in ossequio al disposto della L. n. 297 del 1982, art. 3, comma 8 (e dunque con la neutralizzazione delle eventuali retribuzioni ridotte percepite nelle ultime 260 settimane precedenti), la pretesa di parte ricorrente di estendere il citato meccanismo al di là dei limiti segnati dalla disposizione ult. cit. si rivela sfornita di alcuna base normativa.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, nulla pronunciandosi sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo l’INPS svolto apprezzabile attività difensiva al di là del deposito della procura in calce al ricorso notificatogli.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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