LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14840/2016 proposto da:
Avv. A.L., rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONELLA RIASSETTO ed EDOARDO ROSSETTI, elettivamente domiciliato presso lo studio degli Avv.ti Cecchi Carlo e Savioli Maurizio, in ROMA, V.le delle MEDAGLIE D’ORO 399;
– ricorrente –
contro
CONDOMINIO di *****, in persona dell’amministratore p.t.
G.V., rappresentato e difeso dall’Avvocato DAVIDE NEBOLI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in TORINO, C.so INGHILTERRA n. 17bis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2243/2015 della CORTE di APPELLO di TORINO, pubblicata il 21.12.2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/07/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione, notificato in data 22.1.2010, il CONDOMINIO di *****, conveniva avanti al Tribunale di Torino il condomino A.L. rilevando che il Condominio era disciplinato da un Regolamento di natura contrattuale, che all’art. 2 indica tra i beni comuni, indivisibili e inalienabili, l’impianto completo di riscaldamento con le relative apparecchiature ed accessori; mentre all’art. 9 stabiliva, in particolare, che tutti i condomini dovessero contribuire alle spese necessarie per conservare e mantenere in condizioni di efficienza le parti comuni elencate all’art. 2, e che nessuno pertanto avrebbe potuto mai esimersi, anche parzialmente, dal pagamento delle quote di spese spettantegli per le cose e i servizi comuni, anche se intendesse rinunciare a detti servizi; che, inoltre, in base all’art. 13, i condomini si obbligavano irrinunciabilmente per sé e per gli aventi causa a qualsiasi titolo ad utilizzare il servizio del riscaldamento centrale. Il convenuto nel 1993 aveva eseguito alcuni lavori di ristrutturazione dell’immobile acquistato e aveva distaccato la propria unità immobiliare dall’impianto di riscaldamento condominiale centrale senza il consenso e l’autorizzazione di parte attrice; che il convenuto dal 1993 sino all’anno 2004 aveva sempre pagato quanto dovuto per le spese di manutenzione ed esercizio dell’impianto di riscaldamento centrale, mentre dalla gestione 2004/2005 aveva omesso di provvedere al pagamento di siffatte spese; che il 9.10.2008 l’assemblea aveva approvato il consuntivo delle spese di riscaldamento gestione 2007/2008 e il preventivo delle spese di riscaldamento gestione 2008/2009, sicché, sulla base dei piani di riparto, il convenuto era debitore della somma di Euro 6.830,43 per spese di riscaldamento.
Si costituiva in giudizio il convenuto contestando la fondatezza dell’avversa domanda, giacché la somma richiesta non corrispondeva a quanto risultante dai documenti relativi alla gestione 2008/2009. Confermava poi di avere provveduto nel 1993 al distacco dalla rete centralizzata di riscaldamento creando un sistema di riscaldamento autonomo e dalla relazione di un professionista, da lui incaricato prima di procedere ai detti lavori, era emerso che il distacco non solo non creava danno al Condominio ma ne migliorava la situazione, non essendovi stato alcun nocumento per il Condominio; le norme regolamentari non tenevano conto dell’ormai consolidata giurisprudenza sul punto; era, quindi, legittimo il distacco dall’impianto centralizzato, con totale esenzione dei costi di gestione qualora non vi fosse aggravio di spese o squilibrio termico per gli altri condomini, come era accaduto nel caso di specie, e in ogni caso erano nulle le delibere che non consentivano il distacco.
Con sentenza n. 2734/2013, il Tribunale di Torino condannava il convenuto al pagamento in favore del Condominio della somma di Euro 1.128,05, oltre interessi legali, indicata dal Condominio come relativa ai costi di gestione e manutenzione dell’impianto comune, applicando il disposto di cui all’art. 9 del Regolamento condominiale.
Avverso detta sentenza proponeva appello il Condominio, al quale resisteva l’ A., che proponeva appello incidentale in ordine alla disposta compensazione parziale delle spese di lite.
Con sentenza n. 2243/2015, depositata in data 21.12.2015, la Corte d’Appello di Torino condannava A.L. al pagamento in favore del Condominio appellante della somma di Euro 6.778,29, oltre interessi dalla domanda al saldo, nonché al pagamento delle spese di lite dei due gradi di giudizio. In particolare, la Corte territoriale rilevava che la decisione appellata implicava la statuizione di piena legittimità del distacco e che l’appello non sfiorava la suddetta statuizione implicita, da ritenere ormai coperta da giudicato, con la conseguenza che veniva in rilievo solo il quantum delle spese.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione A.L., sulla base di due motivi, illustrati da memoria. Resiste il Condominio con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1367 e 1369 c.c., con riferimento all’interpretazione degli artt. 9 e 13 del Regolamento condominiale”. Il ricorrente contesta, da un lato, che il significato dell’art. 9 sarebbe stato travisato dalla Corte d’Appello, che considerava autonomi i diversi periodi del comma 1, mentre la statuizione avrebbe dovuto essere interpretata nel senso che, ove il condomino non fruisse più del servizio di riscaldamento centralizzato, egli sarebbe comunque tenuto alle spese necessarie per conservare e mantenere in efficienza l’impianto. Viceversa, secondo la Corte distrettuale, l’art. 13, comma 3, non allude alle spese per il servizio di riscaldamento centrale, ma impone l’obbligo di utilizzo di detto servizio ai condomini (e, comunque, solo “per il periodo stabilito dalla maggioranza degli utenti e nel rispetto delle disposizioni di legge in materie); la discrasia tra le due norme non riguardando le spese, quanto semmai la possibilità di operare il distacco. Riguardo al termine utenti contenuto nell’art. 13, comma 1, riferito alle spese di manutenzione straordinaria e di ricostruzione dell’impianto termico, esso doveva essere inteso nel senso di “tutti i condomini”, mentre il termine “utenti” di cui all’art. 13, comma 2 (spese per combustibile, fuochista, energia elettrica) andava inteso nel senso proprio.
1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione del principio statuito dall’art. 1118 c.c., relativamente al distacco dall’impianto di riscaldamento centrale, alla luce del quale vanno interpretate le norme di cui agli artt. 9 e 13 del regolamento di condominio”. La la sentenza impugnata avrebbe ignorato i dettami di cui all’art. 1118 c.c., comma 4, così come sostituito dalla L. n. 220 del 2012. Infatti, l’art. 13, comma 3, del Regolamento condominiale, pur formalmente impedendo ai condomini di operare il distacco dall’impianto di riscaldamento centrale impone il rispetto delle disposizioni di legge in materia, anche in termini di “addebito” spese: sicché, l’art. 1118 c.c., comma 4, altro non è che una presa d’atto legislativa dell’interpretazione di norme già in precedenza applicabili.
2. – In considerazione della stretta connessione logico-giuridica, i due motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.
2.1. – Il ricorso è fondato.
2.2. – Costituisce principio consolidato quello secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).
Tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui questa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche (dovendosi escludere che alcuna di tali censure avesse potuto risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, sostanziatosi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione).
2.3. – Sotto altro profilo, va ritenuto che nella interpretazione di un negozio giuridico (qualora il ricorso per cassazione deduca l’erroneità di tale interpretazione per violazione dei canoni ermeneutici), è onere del ricorrente indicare non solo la regola interpretativa violata, ma anche in qual modo il ragionamento del Giudice si sia da essa discostato, non potendo la relativa censura limitarsi a un generico richiamo alla violazione di uno o più criteri astrattamente intesi ovvero a una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza (Cass. n. 1893 del 2009; Cass. n. 29322 del 2008; Cass. n. 13587 del 2010).
E va posto in evidenza che “le regole legali di ermeneutica contrattuale sono elencate negli artt. 1362 – 1371 c.c., secondo un ordine gerarchico: conseguenza immediata è che le norme strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 – 1365 c.c., precedono quelle interpretative integrative, esposte dagli artt. 1366 – 1371 c.c., e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Da questo principio di ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche (nel cui ambito il criterio primario è quello esposto dall’art. 1362 c.c., comma 1, vale a dire il criterio dell’interpretazione letterale) consegue ulteriormente che qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza e univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente compiuta, dovendosi far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale delle espressioni adoperate dai contraenti, collegamento logico tra le varie clausole) siano insufficienti alla identificazione della comune intenzione stessa” (Cass. n. 26690 del 2006; ex pluimis Cass. n. 5595 del 2014; Cass. n. 12082 del 12082; Cass. n. 10896 del 2016). Sicché, “nella interpretazione del contratto (…) il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche là dove il testo dell’accordo sia chiaro, ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti” (Cass. n. 20294 del 2019; conf. Cass. n. 13595 del 2020).
2.4. – Per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere necessariamente l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003). Di conseguenza, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benché genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca, come nella specie, alla mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (Cass. sez. un. 1914 del 2016; cfr. Cass. n. 3657 del 2016; Cass. n. 25728 del 2013; Cass. n. 1754 del 2006).
2.5. – L’art. 9 del Regolamento di condominio dispone che “Tutti i condomini devono contribuire nelle spese necessarie per conservare e mantenere in condizioni di efficienza le parti comuni elencate nell’art. 2 del presente regolamento. Nessun condomino pertanto potrà mai esimersi, anche parzialmente, dal pagamento delle quote di spese spettantegli per le cose e i servizi comuni, anche se intendesse rinunciare a detti servizi”. A sua volta, l’art. 13 prevede che: “Le spese di manutenzione straordinaria e di ricostruzione dell’impianto termico saranno ripartite fra gli utenti in base alle rispettive quote di comproprietà generale” (comma 1); “Le spese del riscaldamento e precisamente le spese per combustibile, fuochista, energia elettrica, pulizia camino, tasse e quant’altro necessario per il funzionamento dell’impianto saranno ripartite fra gli utenti in base alle risultanze della colonna 4 della tabella millesimale” (comma 2); “I condomini si obbligano irrinunciabilmente per sé e per gli aventi causa a qualsiasi titolo ad utilizzare il servizio del riscaldamento centrale, per il periodo stabilito dalla maggioranza degli utenti e nel rispetto delle disposizioni di legge” (comma 3).
2.6. – Orbene, il significato della disposizione di cui all’art. 9 (prima parte) del Regolamento di condominio risulta equivocato dalla Corte distrettuale, che considera autonomi i diversi periodi del comma 1, mentre la statuizione deve essere interpretata nel senso che, ove il condomino non fruisca più del servizio di riscaldamento centralizzato, egli sarà comunque tenuto alle spese necessarie per conservare e mantenere in efficienza l’impianto.
Dal canto suo, l’art. 13, comma 3, non allude alle spese per il servizio di riscaldamento centrale, ma impone l’obbligo di utilizzo di detto servizio ai condomini (e, comunque, solo “per il periodo stabilito dalla maggioranza degli utenti e nel rispetto delle disposizioni di legge in materia”); sicché, tra l’altro, la ritenuta discrasia tra la portata delle due norme non riguarda il regime delle spese, bensì (semmai) la possibilità di operare il distacco.
Per quanto riguarda il termine utenti contenuto nell’art. 13, comma 1, riferito alle spese di manutenzione straordinaria e di ricostruzione dell’impianto termico, la Corte di merito ha affermato come esso debba essere inteso nel senso di tutti i condomini, mentre il termine utenti di cui all’art. 13, comma 2 (spese per combustibile, fuochista, energia elettrica) vada inteso nel senso proprio. Il Giudice di secondo grado, dunque, non riconoscendo la portata della previsione di cui all’art. 13, comma 3, (“nel rispetto delle disposizioni di legge in materia”) è incorso in un vizio logico e di diritto, avendo omesso di collegarla e raffrontarla con le altre clausole, onde chiarire l’effettivo significato di queste ultime.
La Corte d’appello riconosce, coerentemente, che nella norma in esame il lemma utenti sia utilizzato come sinonimo di condomini; ma nel contempo essa ritiene, del tutto equivocamente e contraddittoriamente, che il riferimento agli utenti di cui ai primi due commi dell’art. 13 debba essere inteso in senso antiletterale come sinonimo di condomini, in applicazione del principio generale di conservazione del contratto e di prevalenza dell’ordinamento positivo su quello contrattuale (v. sentenza impugnata, pag. 20, in cui, per la Corte, la confusa disposizione regolamentare complessiva è ricondotta a coerenza e razionalità, oltre che a conformità con la legge.
2.7. – La Corte distrettuale ha dunque, nella specie, trascurato l’ambito applicativo degli indicati canoni interpretativi, omettendo di darne natura e significato; così venendosi, nella sostanza, a creare una rilevante anomalia motivazionale (determinante per il presupposto circa la sussistenza del vulnus arrecato al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) che si traduce in termini di mera apparenza e di apoditticità della attività di interpretazione dell’atto e del negozio giuridico.
2.8. – Già in passato questa Corte aveva operato una distinzione tra le spese di conservazione dell’impianto ex art. 1118 c.c., comma 2, e quelle dovute in relazione all’uso; richiamando, da un lato, la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale è legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato anche senza necessità di autorizzazione da parte degli altri condomini, purché l’impianto non ne sia pregiudicato; con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123 c.c., comma 2, dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato e l’obbligo di pagare solo le spese di conservazione (Cass. n. 19893 del 2011; conf. Cass. n. 28051 del 2018; Cass. n. 11970 del 2017) principio che prevale anche sul regolamento. L’operatività della rinuncia è limitata dal divieto di sottrarsi all’obbligo di concorrere alle spese necessarie alla conservazione della cosa comune con aggravio degli altri partecipanti (Cass. n. 15079 del 2006; conf. Cass. n. 24209 del 2014).
3. – In conclusione, va accolto il ricorso; la sentenza impugnata deve essere dunque cassata e rinviata dalla Corte d’appello di Torino a diversa Corte di appello che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
PQM
La Corte, accoglie il primo motivo, con assorbimento del secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia dalla Corte d’appello di Torino, a diversa Corte di appello, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021
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