LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28923/2019 R.G. proposto da:
M.S., D.S.M.R. e M.I., rappresentate e difese dall’Avv. Salvatore Trimboli, con domicilio eletto in Roma, Via Dei Gracchi n. 187 presso lo studio dell’Avvocato Marcello Magnano di San Lio;
– ricorrenti –
contro
T.S., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonino Cavallaro;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, n. 421/2019, depositata il 22 febbraio 2019;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello di Catania ha confermato la sentenza di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da T.S., aveva dichiarato inopponibile nei confronti dello stesso l’atto di costituzione di fondo patrimoniale del 18 dicembre 2007 stipulato tra i coniugi M.A. e D.S.M.R. condannando quest’ultima (in proprio e nella qualità di esercente in via esclusiva la responsabilità genitoriale sulla figlia M.I.) e la di lei altra figlia M.S. in solido al rimborso delle spese processuali;
avverso tale decisione M.S., D.S.M.R. e M.I. propongono ricorso per cassazione con due mezzi, cui resiste il T. depositando controricorso;
essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte;
i ricorrenti hanno presentato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.
CONSIDERATO
che:
le ricorrenti denunciano: con il primo motivo violazione e falsa applicazione degli artt. 170,2901 e 2313 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); con il secondo violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);
il ricorso si espone ad un preliminare ed assorbente rilievo di inammissibilità, per palese inosservanza del requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3;
risulta, infatti, radicalmente carente l’esposizione sommaria dei fatti, da detta norma richiesta a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, allo scopo di garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione della vicenda sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U 18/05/2006, n. 11653; Cass. Sez. U 20/02/2003, n. 2602);
sono offerte solo: una sintetica esposizione dei fatti processuali (pagg. 2-3 del ricorso); la trascrizione della parte narrativa della sentenza impugnata, a sua volta però del tutto silente sulla vicenda sostanziale (pagg. 3-4); l’esposizione di una serie di argomentazioni difensive (pagg. 4 – 7), sostanzialmente anticipatoria dei motivi di ricorso ma avulsa dal contesto processuale, non essendo dato conoscere, in definitiva, quali siano state le ragioni in fatto e in diritto fatte valere dall’una e dall’altra parte nel giudizio di primo grado, quali le motivazioni della relativa sentenza, quali i motivi d’appello, quali le motivazioni della sentenza impugnata;
può comunque soggiungersi che anche i due motivi palesano a loro volta intrinseci profili di inammissibilità;
le diverse ragioni di critica svolte nel primo motivo – a fatica enucleabili da una esposizione che le intreccia in modo inestricabile, con inosservanza, dunque, anche del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 – trovano confutazione in principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, esponendosi per tal via a ulteriore rilievo di inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1;
così quanto alla adombrata questione del difetto di legittimazione passiva del coniuge del debitore, nell’azione revocatoria, promossa dal creditore personale, dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale, al quale abbiano preso parte entrambi i coniugi, costituisce ormai jus receptum che la legittimazione passiva compete ad entrambi, e non al solo coniuge debitore, ancorché questi abbia destinato un bene di sua esclusiva proprietà a far fronte ai bisogni della famiglia (v. Cass. 30/06/2020, n. 12975; 03/08/2017, n. 19330; v. anche Cass. 27/01/2012, n. 1242; 18/10/2011, n. 21494; 17/03/2004, n. 5402);
analogamente quanto alla posteriorità dell’accertamento giudiziale è appena il caso di rammentare che, secondo ferma giurisprudenza di questa Corte, il credito litigioso è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto dispositivo compiuto dal debitore; l’accertamento del credito non costituisce l’indispensabile antecedente logico-giuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria, né può ipotizzarsi un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela dell’allegato credito litigioso, dichiari inefficace l’atto di disposizione e la sentenza negativa sull’esistenza del credito (v. ex multis Cass. 05/02/2019, n. 3369);
sotto il profilo dell’elemento soggettivo, trattandosi di ipotesi di costituzione in fondo patrimoniale successiva all’assunzione del debito, è poi altrettanto pacifico che è sufficiente la mera consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (scientia damni), la cui prova può essere fornita anche tramite presunzioni, senza che assumano, viceversa, rilevanza l’intenzione del debitore medesimo di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (consilium fraudis), né la relativa conoscenza o partecipazione da parte del terzo (Cass. 17/01/2007, n. 966; v. anche Cass. Cass. n. 12975 del 2020, cit.; 07/07/2007, n. 15310; 29/07/2004, n. 14489; 26/02/2002, n. 2792; 01/06/2000, n. 7262);
analogamente inammissibili sono le censure che sembrano essere mosse anche con riferimento al presupposto dell’eventus damni;
anche in tal caso la Corte di merito ha deciso conformemente a costante insegnamento secondo il quale, avendo l’actio pauliana la funzione di ricostituire la garanzia generica fornita dal patrimonio del debitore, a determinare I’eventus damni è sufficiente anche la mera variazione qualitativa del patrimonio del debitore integrata con la costituzione in fondo patrimoniale di uno o più beni immobili di proprietà dei coniugi, in tal caso determinandosi, nei confronti del credito già sorto, il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva, della cui insussistenza incombe al convenuto, che nell’azione esecutiva l’eccepisca, fornire la prova (v. ex multis Cass. Cass. n. 29727 del 15/11/2019; n. 16986 del 01/08/2007);
palesemente fuori segno infine – e inammissibile anch’essa ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1 – è la censura con la quale si reitera la tesi della operatività, anche nei confronti dell’azione revocatoria, dei limiti dettati per l’esecuzione forzata dall’art. 170 c.c.;
tali limiti, infatti, sono per l’appunto dalla norma dettati (solo) per l’azione esecutiva (concessa solo ove si tratti di debiti contratti per i bisogni della famiglia) e non per l’azione revocatoria (che non è rimedio esecutivo ma strumento di tutela conservativa della garanzia patrimoniale); ne discende che, come evidenziato da questa Corte, proprio la previsione di detti limiti all’azione esecutiva rende la costituzione di fondo patrimoniale atto potenzialmente pregiudizievole per le ragioni del creditore (il cui credito non sia sorto per far fronte ai bisogni della famiglia), proprio perché idoneo a sottrarlo alla garanzia patrimoniale del credito, e come tale suscettibile di azione revocatoria (Cass. n. 15310 del 07/07/2007);
e’ irrilevante, infine, secondo interpretazione anche sul punto ferma nella giurisprudenza di questa Corte, che il credito per il quale si è agito in revocatoria sia vantato in via principale nei confronti della s.a.s. di cui il M. era socio accomandatario e solo in via sussidiaria nei confronti di quest’ultimo, per la sua qualità di socio illimitatamente responsabile;
e’ stato infatti in tal senso chiarito (e va qui ribadito) che “qualora il debitore tenuto in via sussidiaria compia atti di disposizione del patrimonio, l’esercizio dell’azione revocatoria ad opera del creditore non presuppone la previa proposizione dei rimedi conservativi del credito nei confronti del debitore obbligato in via principale, in quanto il requisito della sussidiarietà dell’obbligazione attiene alle modalità di esperimento dell’azione esecutiva ed è invece irrilevante in relazione all’azione revocatoria ordinaria, i cui effetti sono limitati dalla sola declaratoria di inopponibilità dell’atto impugnato verso il creditore procedente” (Cass. 16/10/2019, n. 26261);
il secondo motivo non contiene autonomi profili di censura; è piuttosto collegato al primo (limitandosi a perorare il favore delle spese dell’intero giudizio quale conseguenza dell’accoglimento delle tesi censorie in esse svolte) e ne segue pertanto la sorte;
la memoria che, come detto, è stata depositata dalle ricorrenti, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio del ricorso e dei suoi motivi;
il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile con la conseguente condanna delle ricorrenti, in solido, alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna le ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021
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